"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

giovedì 28 dicembre 2006

RIDI CHE TI PASSA!


“Shalllom!”. Uri si attarda nella “l” del suo saluto sornione con compiaciuta liquidità, quasi volesse arpionarsi ad un incontro fugace, nel momento stesso in cui scivola via. Un po’ come capita con le barzellette yiddish, che creano grandi aspettative, per lasciarti presto spiazzato. D’altra parte, è già di per sé stupefacente che un popolo cui sono state tragicamente rubate 8 milioni d’anime trovi la forza per ironizzare su tutto, benché si tratti pur sempre di un riso a denti stretti. Forse è la via migliore per esorcizzare la paura di farsi trovare per primi in contropiede, come già capitò nel ’73, ai tempi dello Yom Kippur, allorché Israele rischiò di esser spazzato via in un battito di ciglia.

Indubbiamente l’arte della freddura è un’arma socratica che ogni guida turistica dovrebbe conoscere assai bene: tiene accesa l’attenzione, chiude bocche indiscrete e parla di traverso. Oltretutto, funziona assai meglio di una parabola biblica, divenuta altisonante e pretenziosa in una società votata alla chiacchiera. Eppure ne preserva il vizio peggiore: quello di sapere dove stia il giusto e dove l’errato.




Non è allora un caso che la vita dell’ebreo sia scandita da tabù: niente lama sulla barba, latticini che aborriscono la carne, nessun fuoco fatto scoccare il sabato. La lista potrebbe continuare a lungo, almeno quanti sono gli anni che ci separano dalla distruzione del tempio di Salomone e i metri dalla dogana dell’aeroporto, perché nell’elenco sta la ragion d’essere di chi non ha altra identità, all’infuori della tradizione: troppo arduo appellarsi all’aramaico, quando sotto la Stella di David convivono russi, tedeschi, americani od armeni; inutile pretendere un luogo, laddove la geografia conosce solo spazi.

L’unico modo per rafforzare il proprio credo è quello di erigere paletti ben saldi, uno dietro l’altro, e in questo non si può far torto ai seguaci di Sharon ed Olmert. Basti una passeggiata alle porte di Bethlemme, il cui nome potrebbe suonare Berlino o Corea: da una parte la fede nella palingenesi dello spirito, dall’altra la palingenesi nella fede dello spirito. Forse una mera tautologia, proprio come un filo di ferro che separa le sabbie dello stesso deserto.

Se non si è abituati alle sottigliezze, la ripetizione dell’identico finisce infatti per confondere, tant’è che a Gerusalemme le strade s’ingarbugliano spesso e volentieri: pensi di essere in un bazar a sorbire humus di ceci e ti si apre di fronte la Chiesa del Salvatore; cerchi la roccia su cui Cristo fu crocifisso e ci trovi un altare ortodosso; vedi le cupole a cipolla di un frammento di Russia e ti accorgi di essere in un giardino di ulivi già teatro di subdoli inganni. Un bambino scoppierebbe facilmente in lacrime, ma al Muro del Pianto ci sono così tanti uomini neri che è meglio starsene alla larga. Picchiano la testa sulle pietre, corrono da un lato all’altro trascinando su una lettiga libri come fossero re, incastrano oscuri messaggi nelle crepe del tempo.

Sembra di essere in una casa degli specchi, dove disciplina e logica inspiegabilmente cozzano fra loro, ma le cose non migliorano neppure se si fugge in un kibbutz. Qui il trattore marcia al passo del carroarmato, i banani si legano col filo spinato e, se si sale su una torretta d’avvistamento presso il lago di Tiberiade, si vedrà addirittura qualcuno camminare sulle acque. Chissà allora che un bel bagno freddo non serva a schiarire meglio le idee, seguendo l’esempio dei fedeli di Qumram, stanchi degli arzigogolii cittadini e ritemprati dall’umida profondità delle grotte anacoretiche.

In fondo, dove c’è acqua, c’è vita. Persino sulle onde del Mar Morto, quell’immensa lacrima sgorgata dal candore dell’innocenza, su cui danzano corpi capaci di dare gusto al silenzio della polvere; capaci di trovare l’ultima parola mancata agli eroi di Masada, quando l’ariete di Roma s’abbatté sulla montagna che osò sfidare il cielo.

In questa piega di sofferenza un’oasi di pace esiste davvero: basta avere occhi per vedere e non limitarsi a galleggiare in superficie. Chi scambia le palme di Ein Gedi, o i giardini pensili di Haifa, per l’Eden dimenticato, non ha ancora compreso il mistero della Città Celeste: non è di questa terra, ma vive per suo tramite. Proprio come Israele: è il disegno di una matita, ma non se ne può fare a meno.

Nel nome dell’antico re di Salem, è allora tempo di spostare l’occhio dalla mano della spada a quella della bilancia. Potrebbe darsi che nel farlo, si incroci lo sguardo di una ragazza che non chiede altra ragione, se non quella di credere in ciò che più pesa dire: ama l’altro come fosse te stesso.

venerdì 15 dicembre 2006

PARADOSSI DELLA FISICA CHERUBINA


Gerusalemme - Raccolto all’ombra degli infidi ulivi di Getsemani, oppur sdraiato ad amoreggiare sulle terrazze del quartiere armeno, di uno sguardo non potrà mai privarsi il profano in visita a Gerusalemme. Come un Sole che tinge d’eternità il risveglio del mattino, la dorata cupola d’Omar non irraggia verità alcuna, eppur chiama a sé con muta meraviglia. E’ sempre lì, ovunque ci si trovi: con un’ostinazione tale, che nessuna mano babilonese sarà in grado di rimuovere a 2.600 anni dall’ultima offesa al Tempio, né tanto meno la spada di un nuovo Tito. Perché nella Città Celeste nulla è come appare: i muri scompaiono alla vista, ma continuano a vivere nel ricordo; i muri dividono le genti, ma la fede nel Verbo resta pur sempre la stessa.

Se si lascia la porta di Sion, già si ode il lamento di un popolo che i Turchi trucidarono per quasi un terzo; se si cammina per il bazar, è inevitabile cogliere nei becchi delle teiere d’ottone l’eco di un lontano muezzin; se si cercano le ossa di Adamo nella chiesa del Santo Sepolcro, ci si accorge improvvisamente di essere in cima al monte Golgota: sfaccettature illusorie dello stesso universo, che danza in circolo fra vesti rosse e blu, tenendosi per mano attorno ad un centro che nessuno vede. O forse, solo giochi ambigui che tendono le ombre delle troppe candele, accese non appena la notte incombe sui portoni di casa, in omaggio alla festa di Anukka. Destinata a protrarsi solo per una settimana e un giorno nel mese di Kislev, benché conti sette fiamme e nulla più che la lingua di un servitore, la celebrazione della vittoria dei Maccabei sulle forze dei re seleucidi ha in sé qualcosa di umano e metafisico al tempo stesso: nelle otto braccia del Menorah arde l’orgoglio di chi non si piega alla legge del numero, di quanti sono capaci di ritagliare la propria identità nella melliflua sabbia del deserto mediorientale, che trasforma le dita del tramonto nei petali di una rosa.

Nella terra di David esser se stessi costa infatti enormi sacrifici, al pari di lacrime amare: significa resistere come uno scoglio all’infrangersi della storia, essere disposti ad alzare il pugnale sul proprio figlio, in nome di un credo che incarna tutta la propria essenza; significa avere il coraggio di versare lacrime sulla sordità di un muro, quando tutti stanno a guardare impudentemente la tua debolezza e s’interrogano sulla torà dischiusa.

Ma è proprio l’umiltà del silenzio a riscattare l’anima dei vinti: non è per i banchetti estivi di Erode che la roccaforte di Masada fa parlare ancor’oggi di sé, bensì per quel manto di morte indotta sotto cui riparò l’anima dell’indomito Zelota, per tre lunghi anni capace di tener testa al più perfido degli assedi. Scarno come un interrogativo, il monte del supplizio si staglia solitario nel deserto al confine con la Cisgiordania, a pochi passi da quello stesso mare che nel suo nome porta l’olezzo del cadavere, eppur già la speranza di una vita rigenerata: bastano venti minuti appena per scoprire quanto il sale sia alimento della terra, o fuoco che arde nelle ferite, sino a farti polvere della polvere.

Roma vinse la battaglia allora, ma è la guerra che ha infine perso. Il suo impero si è sgretolato, i figli di Salomone sono tornati alla terra promessa. In ritardo di due millenni, i nuovi guerrieri della Luce non hanno più avuto bisogno di riparare nelle scure grotte di Qumram, né le acque dei loro bagni sacri hanno preservato lo spirito dalla sozzura del tempo.

Eppure un vessillo bianco e blu si dispiega sopra le palme di oasi nascoste come Ein Gedi; svetta sulle acque salate di un lago che divora i suoi figli e sputa fango su chi si crede puro; è lo stesso vessillo che scruta l’aquila scolpita sulla terrazza panoramica di Haifa, ancor incredula di fronte alle geometrie Bahai che s’intrecciano al suo cospetto con l’audacia pirotecnica dei razzi Hezbollah, mentre disegnano eleganti vasche per le voluttuose ancelle di un sovrano voyeur: forse di quello stesso re che non credette all’uomo capace di mutare le acque in vino, ma dové piegare il capo alle onde riversatesi sul suo palazzo; alle bianche schiume che hanno lasciato in piedi un anfiteatro dove nessuno più acclama attori profumati d’olio, che hanno sagomato il nome di una città in cui echeggia il ricordo dei Cesari tramontati, che hanno reso il mare un po' meno nostrum.

Dare, ancor prima di prendere: ecco l’inaudito della parola messianica, che tanto turbò il proselitismo di Giustiniano, pronto a riconquistare i natali di Betlemme, per elargirvi però la contraddittoria grazia di una chiesa ortodossa. Lapidi per commemorare S. Girolamo, primo autore della vulgata biblica; severe colonne corinzie, sacrificate a sostenere il peso dell’orgoglio cristiano; icone dorate, per manifestare lo splendore della virtù d’Oriente: e sotto a tutto, quasi in disparte, la mangiatoia di una grotta che ancor oggi solleva l’enigma del Dio fattosi carne. Perché il regno dei Cieli comincia proprio dal belato di una pecora che attraversa la piana dei pastori, senza curarsi di fili spinati e barriere di cemento armato, senza badare alle lontane torrette d’avvistamento, oltre le quali il sogno della condivisione si è piano piano irreggimentato nell’efficienza del kibbutz. Nati nel 1909 come chicchi lanciati fra le sterpi del deserto, i campi del lavoro collettivizzato si sono trasformati in cellule sempre più complesse e totalizzanti, non esenti dai rischi di un tumore che fa del contadino un bracciante del fucile e dell’uomo un animale a sé dalla propria specie.

Una copula, nonostante tutto, capace di toccare la Luna con un volo alato e camminare sulle acque della “grande cetra”; pronta a farsi esplodere in un mercato di Tel Aviv o a silurare un paralitico dall’alto dei cieli. Misteri della fisica cherubina. Paradossi della gravità dello spirito.

lunedì 13 novembre 2006

LE CAVERNE DEL TANTRA/5



RITI DI LIBERAZIONE

Kollam - Guardare in faccia i propri demoni aiuta a purificare lo spirito. Nel Kerala, verdeggiante regione adagiata lungo la costa sud occidentale della penisola indiana, i dravidici sono soliti praticare riti di forte impatto simbolico: a Cochin o a Kovalam, ad esempio, va in scena una folkloristica “danza” catartica, chiamata Kathakali. In essa creature malvagie ed eroi senza tema si affrontano sul palco di teatri ove, ogni sera, rivive l’epica del Ramayana o del Mahabharata, dopo ore d’impeccabile trucco con pigmenti naturali, mimiche esasperate e passi ubriacati da forsennati tambureggiamenti.

C’è chi invece preferisce rigenerarsi attraverso la millenaria via dell’ayurveda, grazie a bagni d’erbe e massaggi con olii profumati; oppure s’incontrano anime dannate che, rapite dall’alito velenoso delle foreste tropicali e dal sibilo dei serpenti d’acqua, s’aggrappano a canoe traballanti per risalire canali sempre più asfittici (le cosiddette “backwaters”), anelando quel “cuore di tenebra” così ben evocato da Joseph Konrad.

“I più accaniti si pongono proprio sulle orme del tantrismo – riconosce con una punta d’ironia Arundhati, un anziano pescatore che vive fra le palme da cocco non molto diversamente dai suoi avi secolari – alla ricerca di autentici guru che possano aiutarli a conoscere il loro sé più profondo. Questi evitano infatti la pubblicità, lasciando talvolta adito a racconti d’inquietanti eccessi: accoppiamenti fra cadaveri, afrodisiaci a base di sperma e mestruo, aspersione di sangue dopo la decapitazione di animali sacrificali”.

Fanatismi e malignerie a parte, non è poi tanto terribile accedere all’eversivo rito del maithuna: seduti nudi in un triangolo rosso, simbolo del ventre femminile, uomo e donna onorano i 5 makara, o principi cosmici, riproducendo l’atto originario del dio Shiva e del suo alterego femminile Shakti. Mangiano dapprima cereali (elemento terra), quindi pesce (elemento acqua) e carne (elemento aria), bevendo infine vino (elemento fuoco), per inebriare gli animi all’accoppiamento (unione degli elementi). I due rimaranno per ore congiunti secondo pose inibenti, affinché il piacere del contatto si trasformi nel fremito pervasivo dell’universo, possibilmente attraverso un’orgia a 16 (il numero delle fasi lunari): dall’originaria penetrazione linga-yoni (dimensione fisica) si raggiungerà cioè l’orgasmo psichico (dimensione spirituale), ritrovando l’uno nel tutto. E la verità macrocosmica delle caverne di Shamballah nel microcosmo divinizzato del corpo.

LE CAVERNE DEL TANTRA/4



GLI UFO NELLA PREISTORIA

Bhimbetka - Aguzzare la vista non è solo diletto per gli amanti della “Settimana enigmistica”. Se ci si sforza anche a Bhimbetka, sito dell’India centro-settentrionale con la più alta concentrazione al mondo di pitture rupestri (si contano oltre 600 caverne con testimonianze comprese fra il Paleolitico ed il Neolitico), si possono notare insolite forme discoidali d’ambigua interpretazione: seguendo le ipotesi del professor Wakankar, che scoprì le prime raffigurazioni nel 1953, alcuni studiosi sono oggi dell’idea che Bhimbetka metta di fatto in scena molti degli episodi epici narrati nella letteratura sacra dei Rig-Veda e del Mahabharata. Anzi, proprio quest’ultimo, attraverso la figura di Bhima (un eroe di cui ricorda le gesta), avrebbe indirettamente ispirato il nome del complesso d’arenaria.

“Non è un caso che scene di battaglia e di cacciagione – fa notare Shivaprasad, uno studioso locale - si ripetano sia in pigmentazioni rosse che bianche, a testimonianza dell’ampio arco temporale coperto. Ma non sono le sole: si distinguono pure riti tribali, danze di gruppo, branchi di belve feroci e mandrie di animali domestici (fra cui molti cavalli “pre-vedici”, la cui presenza nell’India più arcaica mette in seria difficoltà quanti sostengono il loro esclusivo arrivo a seguito della calata degli Ariani)”. Ci sono infine strani “dischi” che - stando alla lettera di alcuni passaggi vedici - avrebbero preso parte alle violente battaglie del passato, confermando la teoria di chi vuole vedere nella civiltà harappiana un modello di organizzazione sociale assai più elevato di quanto si supponga, capace di perpetrarsi nella successiva civiltà vedica senza soluzione di continuità. L’analisi dei Rig-Veda compiuta da Georg Feuerstein e Subhash Kak, due moderni teosofi, mostrerebbe addirittura come i versi dell’opera altro non siano se non complessi codici matematici per calcolare le processioni equinoziali della Terra, in vista di fini agricoli.

“Nelle vicinanze di Bhimbetka – aggiunge Shivaprasad – sorge fra l’altro il più antico sito buddista indiano, Sanchi, dove la tradizione esoterica dei monaci gialli sostiene sia apparso, attorno al 1937, Chakravarti: il misterioso Re del Mondo che abita la città nascosta di Shaballah, per i tunnel della quale si aggirerebbero mezzi simili proprio a “dischi volanti”. La sua apparizione fra rotondi stupa di pietra, costruiti 23 secoli fa dal pentito ed ex-sanguinario sovrano Ashoka, sarebbe stata dettata dall’avvicinarsi di un grave pericolo su cui tuttora ci si interroga”.

LE CAVERNE DEL TANTRA/3



LA TEOSOFIA

Chennai - Baluardo dell’esoterismo ottocentesco, la Società Teosofica di Madras (oggi Chennai) punta nuovamente il dito contro l’Occidente. Non più per criticarne gli eccessi di scienza e tecnologia, quanto piuttosto la supina accettazione di miti imbolsiti. Sarà lo scotto da pagare per l’infausta influenza che la sua fondatrice, un’ambigua russa nota sotto il nome di Madame Blavatskij, esercitò sugli ambienti europei più assetati di palingenesi spirituale: il nazionalsocialismo di Hitler in primis.

Tacciata di millanteria a Londra così come a New York, la visionaria dell’Est fu costretta a riparare nell’umida capitale del Tamil Nadu, attorno al 1882, dove inaugurò un centro di studi filosofico-religioso tuttora fiorentissimo. Credenti hindù, cristiani, islamici, ma anche adepti di Mithra o di Osiride indagano le verità più profonde accanto a filosofi e scienziati di ogni parte del mondo, dal momento che qui dispongono gratuitamente di splendide ville immerse in un immenso orto botanico, tempestato dei templi più svariati.

“Questo è il rifugio ideale per gli amanti della cultura – confessa Alvaro Pedrosa, un microbiologo argentino trasferitosi da dieci anni presso la filiale di Madras – oltre che una culla di democrazia. La nostra biblioteca conserva poi alcuni dei cimeli più preziosi dell’umanità, fra cui una copia dell’antica mappa che Madame Blavatskij portò dal Sud America, nella quale è disegnato un fitto reticolo di tunnel che condurrebbero al cuore di Shangri-La, meglio noto come Shamballah (la “Città degli Smeraldi” in sanscrito). Hitler voleva raggiungere a tutti i costi questo centro iniziatico sotterraneo, ma era prigioniero dello stesso equivoco che ancor’oggi grava sulla maggior parte degli occidentali”.

La ricerca della terra natia degli Ariani, che i manuali di storia vogliono invasori dell’India attorno al 1900-1500 a.C., nonché provenienti dalla steppe asiatiche, prende piede da un’audace ipotesi linguistica dell’indologo tedesco Max Mueller. Poiché gli Ariani parlavano una lingua di ceppo indo-germanico, divenuta improvvisamente predominante su quella dravidica (cioè legata alle genti di colore dell’India), automaticamente venne dedotta la teoria di una loro invasione della penisola subhimalayana, portatrice della cultura vedico-patriarcale e del sistema delle caste.

Recenti scavi archeologici nei siti originalmente occupati dalle popolazioni della valle dell’Indo, quali le città di Harappa, Mohenjo Daro e Mehrgarth (oggi a cavallo fra Pakistan ed India), fanno però propendere per una tesi più verosimile: il trasferimento sulle rive del Gange di una popolazione già multietnica e altamente sviluppata, per via del prosciugamento del precedente bacino fluviale, vera causa dell’adozione di un nuovo assetto socio-economico. Una “rivoluzione copernicana” che costringe a ridimensionare l’etnocentrismo classico dell’Europa, cioè quello fondato sulla cultura greca, riconoscendo all’India un ruolo egemonico di cui, piano piano, oggi si sta comunque riappropriando. Tant’è che pare meglio far orecchie da mercanti.

LE CAVERNE DEL TANTRA/2



L'EROTICA INDIANA

C’è di che arrossire a Khajuraho. Più per il voyeurismo occidentale, che per gli acrobatici numeri erotici delle delicate apsara, fanciulle dall’intonsa bellezza scolpite su 25 templi in perfetto stile Nagara. Nella regione del Madhya Pradesh sopravvivono infatti le spoglie luminose di una civiltà che, fra il IX ed il X secolo, seppe sublimare la”joie de vivre” in un’arte ancor’oggi senza pari. Gli scalpelli dei Chandella hanno plasmato l’arenaria in un tripudio di divinità, ninfe, giovani amanti ed arditi guerrieri, che riempiono la foresta - da cui furono inghiottiti sino al 1838 - di muti sospiri, così come di lascivie preghiere. Un’esuberanza capace di oscurare persino il raffinato simbolismo architettonico del sito, nel quale piante quadrate e rotonde si sovrappongono per decretare la congiunzione fra terra e cielo, le celle interne scuriscono ancor più del grembo materno, le ogive s’inarcano come membri gonfi di desiderio. Troppo per i mussulmani che, qui giunti, sfigurarono tali oscenità; troppo per gli ufficiali vittoriani, imbarazzati persino dalle gambe dei tavoli: Khajuraho è stato e resta enigmatico specchio di estremi.

“Non esiste sito migliore in India per cogliere la connessione fra la nostra mitologia e la nostra filosofia – spiega Chobi, custode di uno dei templi dell’ala est – poiché proprio qui si tentò di ricostituire metaforicamente il corpo di Purusha, il gigante primordiale simbolo dell’uomo perfetto, smembrato per originare l’universo: bastino come prova le due figure poste agli ingressi di ciascun monumento, incarnazione dei fiumi sacri Ganga e Yamuna; secondo la fisiologia hathayoga, questi scorrono infatti ai lati della colonna vertebrale e rappresentano l’androginia delle polarità maschile e femminile”.

Per via dei suoi richiami all’erotizzazione del cosmo, il complesso è stato così definito “tantrico”, subendo di riflesso la condanna morale di quanti vedevano in questa “bassa” filosofia d’estrazione popolare una semplice degenerazione dei costumi, oltre che una minaccia all’ordine brahmanico delle caste, detentore dell’ultima parola in materia religiosa. Eppure, il fatto che i templi fossero utilizzati proprio dai brahmani per raccogliere soldi fra i fedeli, attraverso le sin troppo ardite performance delle loro danzatrici sacre, getta un’ombra di sospetto che spinge a rileggere, se non a riscrivere, la storia stessa dell’India e dei suoi tabù.

LE CAVERNE DEL TANTRA/1



LE CAVERNE DEL TANTRA

Agra - In India non si va, si torna. Anche qualora si tratti del primo viaggio all’ombra del Taj Mahal o fra le verdi jungle del Kerala. Il suo immaginario e la sua eredità culturale alimentano da tempi così immemori i sogni dell’Occidente, che chiunque ne calchi oggi il suolo avverte inevitabilmente la sensazione di esser “già” stato lì, fra note di sitar e profumi di sandalo, fra sari colorati e mantra ipnotici avvolti da inebrianti incensi: semplici suggestioni, forse; o forse scherzi della metempsicosi, che presiede il ciclo karmico di ognuno di noi; o ancora, e piuttosto, il segreto mistero di un terra che trasuda un inspiegabile aroma di familiarità cosmopolita. Ancor più, quando un viaggio si pone deliberatamente sulle orme di un bizzarro console francese dell’Ottocento, certo Louis Jacolliot, ossessionato dall’idea di trovare tracce concrete del mitico Shangri-La, isola di puri piaceri e cristallina conoscenza che, all’origine della storia, pare essersi inabissata in qualche punto dell’Asia himalayana. D’altronde, neppure Indiana Jones rimase immune al suo fascino esoterico, visto che, nel secondo episodio della sua saga, la leggenda citata nell’antichissimo “Codice di Manu” finì per accendere nell’archeologo l’ambiguo desiderio di conquistarsi “fortuna e gloria”.

Così ha dunque preso forma il mio viaggio, spingendomi lontano dall’India brahamanica del Rajastahn e delle nostalgie moghul di Agra, per invitarmi piuttosto a scandagliare il fondo di una tradizione più atavica: dalla città santa di Varanasi, sull’asmatico Gange, ho interrogato il cuore segreto del buddismo negli stupa di Sanchi, cercando via via indizi fra pitture rupestri preistoriche (Bhimbetka), siti archeologici (Hampi) e templi scavati nelle viscere delle montagne (Ellora, Badami): il tutto, nel tentativo di trovare una risposta plausibile a quelle occulte allusioni evocate nell’immensa biblioteca della Società Teosofica di Madras, così come negli “scandalosi” riti perpetuati nel Sud dravidico. Un percorso trasversale all’India classica, rapito dall’eco che questa tradizione ha saputo propagare nello sciamanesimo siberiano, così come fra i monaci della Mongolia o sotto le piramidi Maya, sino al monte Uluru adorato dagli aborigeni australiani: viaggi che riconducono il passo verso il medesimo epicentro. L’India antecedente i grandi testi sacri. L’India pre-vedica, appunto.

Eppure tomi polverosi, monumenti dimenticati e luoghi sperduti, non hanno fatto altro che riportare gradualmente la mia attenzione sulla contraddittorietà del presente, consentendomi di leggere nello spazio cosmico di terre segrete e cunicoli nascosti la trasposizione simbolica di una dimensione ben più accessibile: quella del corpo umano, inteso come l’unico e vero tempio nel quale è riposto il senso ultimo dell’essere. Il Tantra, filosofia yoga che ruota proprio attorno al concetto di sessualità e sacralità del corpo, si è cioè rivelata un’insospettabile lente per cogliere la contiguità fra tempi mitici e tempi odierni, consentendomi di apprezzare il suo messaggio di liberazione nelle sfaccettature più disparate.

L’India di oggi è sì un paese in grande sviluppo, all’avanguardia soprattutto per le tecnologie informatiche del ricco bacino di Bangalore (“la nuova Silicon Valley”), ma costretto ancora a guardare la morte per strada e a trovare un senso alla povertà più umiliante. Al di là dell’abolizione delle caste nel nuovo Codice civile, promulgato nel 1954, la società hindù conserva infatti forti segmentazioni che rallentano, se non addirittura impediscono, l’abbattimento d’ingiustificati status elitari e il neutro mettersi in gioco delle qualità personali.

Non è dunque un caso se, nei secoli, il Tantrismo abbia offerto un modello di sviluppo alternativo all’ordine vigente, di stampo vedico-brahamanico, lottando per l’equiparazione dei diritti della donna e dell’uomo, difendendo le istanze ecologiche di fronte alla distruzione di risorse reclamate da un business sempre più arrembante, saldandosi a movimenti d’emancipazione, fra cui un curioso marxismo eclettico: ultima metamorfosi che vede, nelle rivendicazioni del Sud dravidico, l’originale controrisposta alla modernizzazione coercitiva cui il Paese è oggi soggetto. Shangri-La, Shamballah, o comunque la Tradizione abbia voluto chiamare la terra delle delizie perdute, essa si rivela soprattutto il luogo di convergenza di un sapere profondo, dunque temuto e spesso osteggiato, in virtù del quale l’uomo è chiamato a farsi nuovamente artefice del proprio destino. O, come recita l’antico leit-motive indiano, “a penetrare oltre la soglia del divino principio che alberga nell’inconsapevolezza del Sé”.

venerdì 1 settembre 2006

TRANSINDIANA 2006/3



FORTUNA E GLORIA...SHORTY...FORTUNA E GLORIA!

Incredible India! E sì, mai slogan promozionale ha colto più nel segno: l’India d’oggi è tutto quanto uno non si aspetta. L’immacolata lacrima del Taj Mahal, le note di sitar che ondeggiano sulle ceneri del Gange, il dolce profumo del loto dischiuso nel barrire mattutino degli elefanti, il sapore esotico del curry sulla pelle di viziose apsara: deja vu, cartoline di un terra miraggio che si pensa di conoscere da almeno sette cicli karmici, eppur capace di spiazzare meglio di una contorsione tantrica, impudicamente scolpita sui templi di Khajuraho. Si avviluppa su se stessa, intreccia miriadi e miriadi di corpi, sino a dar vita all’ennesima divinità tentacolare. Ma quale mai sarà la via da seguire?

Un braccio indica le vette himalayane disegnate dall’irrequieto Roerich, quelle che stanno sempre al di là dell’occhio, lo Shangri La ignoto persino ai ciarlatani di Varanasi; un altro allude alle piramidi variopinte del Tamil Nadu, dove gli dei fanno perdere il conto sostenendosi di gradino in gradino, nell’infinito mantra della ripetizione. E ancora, un dito punta sicuro verso le palme del Kerala, sotto le quali sinuosi massaggi dischiudono l’estasi ayurvedica, o addirittura alle incisioni rupestri del Madhya Pradesh, così arcane da far apparire la calata degli Ariani un comodo sipario sui baratri del sapere.

Semplicemente l’India cercata è quella che mai si trova, aleggia nell’aria, va fiutata lungo le olezzose scie della cardinalità nomade. Ed è forse per questo suo non rassegnarsi al soma perduto che la terra dei marahaja ha sempre troppa fame, troppa voglia di toccare l’interdetto. Oggi ancor più di ieri. Persino le ciotole di riso non bastano più, perché quando si assaporano le grasse delizie dell’Occidente, tutto il resto inizia a diventare indigesto. Anzi, non si guarda più in faccia a niente e a nessuno: né alle leggi di mercato, che vorrebbero domare le nuove tigri del Bengala, né tanto meno al dollaro in bermuda, che svolazza tutto gaio fra fogne a cielo aperto e baraccopoli di fortuna.

Eccolo qui il sogno finalmente a portata di mano! Meglio ghermirlo subito, piuttosto che vagabondare per strada, barcamenandosi fra i corpi di qualche vecchio storpio raggomitolato sul marciapiede; meglio spendere un sorriso con i pochi denti rimasti, per non sentirli di nuovo sbattere alle spalle, sotto i morsi di un digiuno colpevolizzante. Forse le scritte sulle banconote non sono chiare quanto i preziosismi sanscriti delle rupie, ma lo slogan dello zio Sam suona sempre lo stesso: “voglio te!”.

E allora giù dal risciò cigolante, che intralcia solo il cammino per il successo; al diavolo le api Piaggio, buone solo per martellare il clacson e chiamare tutti alla sveglia. Non è più tempo per restare sdraiati nelle pozzanghere, attenendo la morte con gli occhi stralunati. Non basta più offrire biscotti alla statua del buon Ganesh. Ci sono treni pronti a partire per la Bangalore dei microchip, così come per la Bombay dei sari evanescenti.

Non importa la via. Ad ognuno la sua, purché solo non si travalichino i sacri confini di casta: a tutto c’è un limite. Come se, alla fine, non ci si ritroverà a galleggiare verso la foce del Nirvana, svanendo piano piano nei vapori di un monsone subdolamente accecato. Incredibile India: una volta ancora, sfuggi…

giovedì 31 agosto 2006

TRANSINDIANA 2006/2



A proposito di amore e Russia (sull’Ilyuschin per Mosca)

- ritorno alla prima pagina -



Occhi alle pareti adagiati

che il passo interrogano

e un fugace sogno lambiscono.



Occhi al passo rubati,

che in un sorriso la primavera invitano

e di sospiri tramontano.



Occhi che più non sorridono

a fianco delle vuota porta

oltre la quale non è più casa



Sono tutti occhi azzurri

Liquida memoria di placenta

in cui il mio cordone ancor si culla e non si stacca.



Come madre, anelante e premurosa,

sul cammino mio tu vegli

oh amata Russia.

TRANSINDIANA 2006/1



SMOTTAMENTI DI UN MANCATO YOGI

"O hidden life, vibrant in every atom! O hidden light, shining in every creature! O hidden love, embracing all in oneness! May all who feel themselves as one with thee, know they are therefore one with every other” (Annie Besant)


03.08.06, h. 21.59 – due metri sopra il cesso, treno Agra-Varanasi.

Agra tiene fede al suo nome. E’ più acre che dolce. Per assaporarne lo spirito che fu occorre uno sforzo estatico, o forse un salubre conato, che ci rigetti lontano dai suoi esofagi pedanti, dalla nouvelle cousine del Taj Mahal, esattamente come dal suo tronfio forte arrostito in vino rosso. Scorie indigeste di un piatto già gustato troppe volte.

Tutta colpa della sua esotica bellezza, che fa prigionieri del deja vu, instillando l’inquietante dubbio di esser stati qui in un tempo lontano e dimenticato: è una sorta di maledizione che avvelena questa “lacrima piovuta sul volto dell’eternità”, come arguì il buon Tagore. Non si spiegherebbe altrimenti l’ambiguità del fastoso palazzo di Shan Jahan, trasformatosi in dorata cella per otto anni, allorché il figlio Aurangzeb prese il potere nel 1658.

Agra è allora e soprattutto il paradosso dell’India intera: invita ad uscire nel dentro, a travalicare un limite chiuso su se stesso. Perché solo nell’ansa delle mangrovie, oltre la calca urbana, rivive il dolore dal quale venne attanagliato l’inconsolabile Mogul prigioniero, nel lutto di una sposa onorata ben 14 volte. Non una parola, non una preghiera: solo la distaccata contemplazione di quella tomba che si crede bianca come il riscatto. Quale elefantiaco errore!

Nel celebrare la via al cielo, ghermito a terra dagli specchi delle fontane, neppure ci si accorge della disperata cerca del pescatore, che riempie di lacrime il fiume Yamuna perché la moneta della città gli ha rifiutato il pane quotidiano.

A nulla servono infatti i ghirigori di ametista e turchese: il pallore del marmo è più inscalfibile del rigor mortis. Bisogna patteggiare con la sporcizia per capire da dove si viene e per vestire i corpi della familiarità del tempo. Solo allora potremo alzare le spalle alla nostalgia di un desiderio mancato e gridare senza tema: India! India! India! Ci siamo stati tutti…

05.08.06, h. 4.37 – su un risciò in affanno, Varanasi.

Api Piaggio per strada, vacche sui marciapiedi, scimmie nei templi. Più che una sacra culla di pellegrinaggio, Varanasi pare un bestiario a cielo aperto, nel quale ogni classificazione riesce però impossibile. Non si dà alcun regno di Dio e neppure della bestia, bensì un ibrido che tende agli estremi attraverso l’esasperazione della libertà di culto. Ognuno è in cerca della propria via, sicché i vicoli della città sono diventati intrecci più fini dei sari colorati, lungo i quali togliersi le scarpe per onorare una testa di elefante equivale a far pipì su una roccia, che poi si scopre essere un test per sondare la capacità dello yogi di raggiungere lo stato del samadhi. Fortuna che il Gange, nel suo grigiore teoretico, si porta via tutto, come una grande fogna che ripulisce dagli escrementi delle strade e dalle feci del peccato: è un fiume che non respira, ma non certo perché dedito alle pratiche del pranayama; semplicemente trattiene il fiato sino a diventare cianotico, dovendo sorbirsi cadaveri galleggianti graziati dal morso di Shiva o ceneri di vite andate in fumo sui ghat ricostruiti. Ecco il grande paradosso hindù: lasciarsi alle spalle le scorie del passato senza preoccuparsi della loro biodegradabilità; ci si affida al ciclo delle reincarnazioni come ad una spazzatrice del governo, nell’illusione che un voto possa cancellare l’indelebile. Ma non c’è nulla da fare: sia che si accendano torce nella notte danzando su flutti arancioni, sia che ci si affidi alla mano salvifica dello straniero, le acque della metempsicosi restituiscono sempre quanto non è gradito.

07.08.06, h. 15.47 - al posto di un’apsara, Khajuraho

Sino all’ultima rupia. Sarà la presenza di corpi nudi ed esposti, sarà il gusto manierista del tantrico, o la preziosità del sito – insofferente alle autostrade del turismo – ma Kahjuraho resta in odore di prostituzione. Nulla a che vedere con il finto sdegno degli ufficiali vittoriani, che qui arrossirono nel 1838: il sesso in vetrina è pur sempre sterilizzato. Ma quando le sue provocazioni si celano per strada, parlando la lingua dell’ospitalità, allora viene il momento di chiedersi se non sia forse il caso d’infilarsi un paio di mutande di ghisa: quando il desiderio si fa pietra, imprigionato dai pur agili scalpelli Chandela, è difficile non immaginare quanto duro possa essere il tributo alla fiducia nostrana. Siamo tutti un po’ apsara nelle terre dell’altrove: danzatrici rapite dalla poesia dell’abbandono e, al contempo, prede di appetiti malcelati. Desiderosi di credere nel potere soteriologico dell’arte, ma irrimediabilmente condannati al baratto della parola. Non c’è da stupirsi se l’armonia del richiamo sia stata qui infranta dalla disseminazione, che ha schizzato gocce di vita ai quattro angoli della città, lasciando 25 orme di un balletto ben più complesso. Perduta è la lezione del maithuna: l’unione mistica tanto sbandierata sui templi porta solo all’eccesso di sé, dimentica della ritenzione che regala a Shiva e Çakti lo stesso sorriso, in costante tensione verso l’orgasmo nullificante. Meglio che la progenie d’oggi vada a spegnere i propri bollori borghesi sotto le cascate di Raneh: appena 30 chilometri dal luogo del misfatto, ma anni luce lontane dalla corruzione di un nobile seme.

10.08.06, h. 19.21 – sulla branda del degente, Sanchi-Bimbetka

Giù la testa. Agli stupa di Sanchi si accede solo da penitenti, dopo aver bruciato di febbre gialla, deposto l’orgoglio del conquistatore e con le tasche completamente vuote. Ashoka lo pretende, affinché oggi si ripercorrano i suoi stessi passi, si apprezzi col cuore in mano il frutto della sua dedizione da killer rammollito, ma non abbastanza da rinunciare al piacere insano dell’ordinanza, ripetuta dal Gajurat al Karnatka con un proselitismo sin troppo saccente. Come aspettarsi altro, quando si è figli di quella stessa coercizione bellica che riaffiora in un profluvio sedentario di mattoni, archi e ruote del Dharma?

Qui sta il peccato dei seguaci di Buddha: usano le pietre come parole, convinti di toccare le lacrime del dolore, mentre non fanno altro che erigere chiese sempre più sorde. A che serve leggere parabole ed interrogativi scolpiti più di 2.500 anni fa, quando si è analfabeti di fronte all’oggi? Perché girare attorno alle 4 porte del Samsara su una collina senz’occhi, quando è la polvere del cammino che disegna la via?

Non pago, il vecchio sovrano spedì persino il figlio dallo sguardo ceruleo alle piantagioni del vizio delle cinque. Ma come i monasteri tradiscono il pagano autocompiacimento del fedele, così il verbo straniero parla solo con le labbra: a Kunala venne cavata la sua cerulea bellezza per ordine della passione offesa, Sanchi fu dimenticata alla stregua di un capo demodé.

E’ il destino delle monadi, senza accessi e finestre: impermeabili all’altro, metastasi del sé, sono le tombe della fiamma prometeica e scompaiono piano piano nel proprio egoismo. Eppure non c’è “Grande Veicolo” che tenga. I conti si fanno sempre con se stessi, anche se la soluzione sta sotto il naso. Bastino i petroglifi di Bimbetka: vacche bianche al pascolo, cacciatori dagli archi di fuoco, immagini vecchie di diecimila anni, ma sagge quanto il nomade irrequieto. Perché la discesa nel ventre della terra partorisce sempre e solo la stessa verità: chi si ferma è perduto.

13.08.06, h. 11.59 – un gargouille di troppo, Ellora

E’ distante. Troppo distante. Ma non diamo la colpa a qualche premuroso pendolare, che nel consigliare il mezzo migliore per accedere ad Ellora, ti condanna al forte fagocitato di Aurangabad. Il malinteso è germinato secoli fa negli herpes delle lingue, che qui hanno onorato in modo promiscuo dei Hindù, mignoli di Buddha e peni di Jain. Ma la tolleranza è sempre figlia di Babilonia e, che siano una o trentaquattro, le cave dei monaci non ripetono altro se non l’incomprensibile. E’ vero, cercano di parlare per immagini e teste di bue, alludono per simboli ed Om, donano otto braccia a Vishnu e allungano i lobi al Mahatma, sino a rigettare le vesti dell’ambiguo nel nudo più impudico, ma la loro verità è ancora altro. O forse altrove. Di certo non in questo mondo, che ne disegna infiniti altri nella malleabilità del granito, benché il granito resti al di là di ogni possibile forma e ben oltre duecentomila tonnellate di detriti, rimossi nel tentativo di ricreare la casa di Shiva attraverso il tempio di Kailasa. Cocciuto, se ne infischia della sabbia delle clessidre ed è incapace di adeguarsi ai cambi di stagione.
Ellora non va svenduta come collezione d’eremi, perché qui alberga l’ancestrale mistero del cavo, dimentico della rassicurante tattilità della superficie, pronto a calare in un abisso senza suoni e senza colori, nel buio di un vuoto che risucchia verso l’imponderabile. Sarà per questo che chi ne ha toccato il fondo, è poi riemerso con in bocca una parola che vale ogni senso: Shamballah!

15.08.06, h. 16.01 – in attesa di una carrozza Telugu, Hampi

I morti vanno lasciati in pace, per essere ricordati. Ma ad Hampi pare proprio che la gente si diverta a danzare sui cadaveri di un impero, a posare accanto alle sue membra perfettamente conservate, ma ormai incapaci di scalciare l’invasore della valle accanto.
A furia di commerciare cumino e peperoncini verdi, la vecchia Vjayanagar si è disidratata sino all’aridità spirituale, lasciando i suoi templi preda di mercanti di fiori ed assonnati perdigiorno. Ma quando la notte e i monsoni portano refrigerio, ecco che le vene della capitale si gonfiano insieme alle sue rapide: via tutti! Battono i piedi le strade lastricate, urlano le colonne logorroiche: che qui si aggiri solo chi del sacro è degno! Un cobra di Krishna o un coccodrillo votivo, fa lo stesso. Sono loro i veri abitanti della città, quelli che si sorprendono di ritrovarsi scolpiti sulle lapidi degli estinti e che custodiscono i più intimi segreti della polvere.
Ma in fondo, di che preoccuparsi? Guardate la carrozza di Gamda: fa salire chiunque, eppur non muove più un passo. Forse perché ha raggiunto muta e silenziosa il sadhami tanto anelato dagli yogin: indifferente al mondo, posa senza scomporsi, è lì e altrove, si mostra ma non c’è più. Hampi è il miraggio della gloria. Qualcosa che pensi di aver raggiunto, nel momento stesso in cui ti sfugge.

17.08.06, h. 13.53 - vasca delle lacrime solitarie, Badami

Uno, due, tre ed eccolo qui! Neppure il tempo di allungare il passo ed il passante della provvidenza è già in agguato, pronto a guidarti nelle gole di Badami, esattamente come nelle fauci di qualche succhia rupie a tre ruote. E’ umile, ma sceglie lui cosa farti vedere; ti lascia tempo, ma guarda l’orologio, perché già pensa a quanto le rovine delle sue genti possano fruttare al suo sfacelo.
Peccato che la stessa dedizione non sia spesa per liberare i torrioni Chalkya dalle spoglie dei parassiti qui riparatisi per secoli; e che rabbia non poter accedere ai talami della dolomia, per via di chi non vide più la luce in fondo ai suoi tunnel, ma solo la disperazione che affretta il Nirvana. Tutta colpa di quei monaci misantropi che passarono la vita a scavarsi la tomba, ad illudersi con epifanie rubate alla polvere dei loculi. Ieratica sino alla paralisi, eternamente sospesa su acque artificiali, Badami non uscirà mai dai suoi vicoli ciechi, sarà per sempre il muto sigillo del Deccan. Parla come il mantra che risuona fra i suoi lavatoi o la nenia che avvolge il mercato senza stranieri: brusio confuso di epoche remote, incapaci di ascoltarsi e dal sapore stantio. Spiega, ma non sa cosa dice. E’ vuota dentro, come se i suoi anfratti fossero in realtà cibo per tarli che hanno smarrito ogni via d’uscita, a causa della loro ingordigia. Si divora dall’interno, aspettando la liberazione promessa dai suoi Buddha: venir dimenticata.

22.08.06, h. 17.52 – panchina rosa, Kollam

Nell’ora del risveglio ayurvedico i cieli sbiadiscono rarefatti, liberano neri solchi nelle loro spirali alate e fissano sguardi pallidi su orizzonti senza pupille.
Nell’ora del verbo karmico i suoni si chiudono su se stessi e conoscono solo il sipario dell’ermetico, che ripete e ripete ancora: finalmente! Oh sì, ambigua parola che invocando la fine attesa, voluta e trovata, non accordi alcun termine, ma di esso fai lo specchio del desiderio. Perché a Kollam il cerchio si chiude seguendo il tondo profilo del lago Ashtamudi, pur celandosi al saggio mancato.
Non avendo trovato alcun ekagrata su cui fissare la costruzione del sé, non restano che immagini sconnesse di canali dove pazienti Parche intrecciano fili di cocco, muti intagliatori stendono tappeti cavi per sbirciare l’oltretomba e di traghettatori d’anime prigionieri delle proprie reti.
Le backwaters sono un intermondo invalicabile, dove il rito quotidiano si perpetua come un’allucinazione labirintica: qui la vita e la morte si guardano in faccia come il pescatore e il serpente lacustre, reciproci dispensatori di reincarnazioni fittizie. Se c’è una via per riaprire gli occhi dell’infante, questa è nelle mani stesse dell’uomo, capaci di sciogliere i limiti della forma, di animare il brivido primigenio, di ungere l’Eletto assopito sino al dischiudersi della sua nuova crisalide.

24.08.06, h. 17.43, in memoria di un rickshaw giallo, Chennai

Niente da fare. Seduce e non si dona. Chennai è la più femminea delle città indiane, già per il semplice fatto di vestire un nome non suo, celando l’anima di una locandiera in trepidante attesa per il ritorno dei marinai portoghesi.
Quante promesse strappa, quanti sogni evoca, ma alla fine Mme Blatavsky non abita più qui, né le danze Baharata Natyam sono sollazzo per il primo belloccio. Bisogna avvicinarsi poco per volta a questa falsa isterica, aspettare che secchi il suo pesante trucco monsonico, le cui spoglie riempiono i vicoli di sacchetti multicolore, e che si spengano le luci della ribalta dietro tendopoli da marciapiede.
Solo allora calerà la maschera di prima donna, che a ben altre Indie spetta, per lasciar affiorare la timidezza di un collegio rosa, pronto però a solcare il teatro del mondo; solo allora scioglierà il severo cipiglio dei teosofi in fuga, per aprire a chiunque i cancelli di un nuovo giardino del vero.
Quando s’incrociano i suoi occhi senza mascara, non c’è ritrosia che tenga: ogni tempio diviene il tuo tempio, perché in esso è il cosmo intero a reggersi di divinità in divinità; ogni ritiro è il tuo ritiro, perché non c’è fede più alta che per l’uomo capace di leggere il segreto di un amore…