"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

mercoledì 24 novembre 2010

IL GIGANTE DAI PIEDI D'ARGILLA




Basta sbirciare pochi secondi oltre il cancello e sono già tutti lì. Il maestro col suo inglese zoppo e la tunica immacolata, la preside incombente nelle massicce forme d’antica candace, un nugolo di bimbi che, ridacchiando complice, non sta più nella pelle. A volte scura come la pece, altre delicatamente ambrata; perché a Mulwad il Maghreb nomade e l’Africa nera siedono ogni giorno allo stesso banco. Imparano pazientemente a convivere e a riconoscere confini che si spingono al di là delle scarificazioni tribali.



Si tratti dei territori dei Kababish o dei Fur, dei Bisharin o degli Hadendoa. O almeno così si augura la gente di questo piccolo villaggio sepolto fra le bianchissime sabbie del deserto Bayuda e il limo del Nilo, più che mai decisa a regalare un futuro di pace ai propri figli.



«Vivere insieme e in armonia non è solo una questione politica o di confessione religiosa – riconoscono gli insegnanti – ma una necessità pratica. Lontano dai palazzi del potere, il Sudan resta un’immensa distesa di villaggi agricoli e comunità dedite alla pastorizia, costrette a confrontarsi quotidianamente con la minaccia della desertificazione e la scarsità d’acqua. Per noi l’arrivo dell’altro, del forestiero, è sempre stato una benedizione, una finestra sul mondo che vogliamo tener spalancata per alimentare la nostra speranza».





Dallo scorso ottobre la linea dell’orizzonte si è improvvisamente sovrapposta a quella del turismo, cui la regione del Nilo ha voluto dedicare un’apposita giornata, augurandosi che l’iniziativa pilota risvegli un’ondata d’orgoglio nazionale. Ma non è che l’ultima spiaggia alla quale il governo si sta aggrappando per scongiurare l’inevitabile: la scissione della parte meridionale del Paese, chiamata a pronunciarsi sulla propria indipendenza nel referendum in programma per l’11 gennaio.



Quasi una bestemmia alle orecchie del presidente Omar Hasan Ahmad al-Bashir; eppure aggirandosi fra i villaggi e i siti archeologici della Nubia è facile rendersi conto di come la storia del Sudan altro non sia che un continuo avvicendamento dei suoi stessi popoli. Oltre 500 diverse etnie, costrette negli smisurati confini che gli inglesi sancirono nel 1956, allorché l’Union Jack fu infine ammainata.



Mulwad, proprio come Taminal, Umegal o qualsiasi altro piccolo agglomerato che s’incontra lungo il corso del Nilo, somiglia solo apparentemente ai vicini. Una via polverosa e un po’ più ampia al centro, qualche acacia spinosa che si contorce sotto la rabbia del Sole, labirinti di mura talmente bianche da accecare.



Impossibile riconoscere di primo acchito uno schema urbano, un’idea d’ordine, ma l’errore sta proprio qui: la Nubia cerca disperatamente l’ombra, celando la sua grazia dietro i veli delle donne che fluttuano variopinte oltre le cinte divisorie, o siedono in gruppo fra i corridoi delle proprie abitazioni, aspettando che uno sbuffo d’aria bollente secchi l’henné appena disegnato.



I loro eleganti thawb sfoderano gialli zafferano, azzurri cobalto o rossi purpurei, donano colore ai loro corpi e ispirazione alle loro mani, quando intinte nella tempera scivolano sinuosamente sulle pareti domestiche: arte sopraffina di un estro autodidatta, attraverso cui riescono a far sbocciare su calce quei fiori meravigliosi di cui il deserto pare tanto avaro, ma i loro abiti sono invece prodighi. La fantasia al potere. L’improvvisazione che soppianta il raziocinio calcolatore. E’ l’orgoglio della diversità reclamato con un segno di pace.



Altre volte sono però i feticci sui pilastri d’ingresso a segnalare che l’Africa animista, e un po’ selvaggia, è ancora lì, benché il lamento del muezzin vigili immancabilmente sovrano. In cima ad una colonna le fauci di un coccodrillo attendono prede disattente. Le corna di un’antilope sono pronte ad inforcare. Spiriti malvagi non mancano di certo in questa terra, dove i resti di antiche necropoli affiorano all’improvviso dietro casa, o i cunicoli delle piramidi disseminate ovunque affondano nelle viscere degli inferi.



Sarà per quello che in tavola non manca mai una ciotola di ful - il popolare stufato di fave con olio, cumino e peperoncino - oppure una tazza fumante di karkadé: l’ospite, di qualunque provenienza esso sia, troverà sempre accoglienza, a patto che sappia avvicinarsi abbandonando l’aggressività del gesto, così come svestendo l’arroganza del benessere. E’ impossibile barattare quella dignità che il popolo sudanese non ha ancora dimenticato e sa far valere ancor oggi con la giusta dose di meraviglia e riprovazione.



Fuori Khartoum, la capitale che sorge nel punto di confluenza fra Nilo Bianco e Nilo Azzurro, persino le paure del governatore britannico Gordon Pascià sono ormai solo allucinazioni dovute alle temperature inclementi. Anche nel caso in cui dovessero riaffiorare in televisione fra le rughe di Charlton Heston, che allo sfortunato eroe inglese dedicò una delle sue interpretazioni più memorabili nel film Khartoum.



Nessun Mahdi pronto a fare a pezzi le truppe di Sua Maestà, come avvenne nella drammatica mattina del 26 gennaio 1885, alba di quel Sudan ribelle che seppe infliggere la prima sconfitta epocale a un esercito europeo. Nessun leone dall’appetito vorace, tanto temuto dal nostro Giuseppe Ferlini, il medico bolognese a caccia di tesori faraonici che gli procurarono più anatemi che ricchezze, avendo distrutto intere piramidi a colpi di piccone.



Al massimo, solo nugoli di lepidotteri che tappezzano le pareti incautamente illuminate nelle notti tendate, qualche camel spider ghiotto di falene e aurei scorpioni assetati di rugiada: piccoli contrattempi del periodo di piena del Nilo, quando l’aria s’incendia e il termometro sembra dover schizzare oltre i 60 gradi.



Nonostante le inquietudini del governo stiano spingendo a costruire strade e ponti per tutta la Nubia, la traversata a dorso di cammello, al pari della spedizione fuoripista in 4x4, resta a tutt’oggi il modo più comune per raggiungere i tesori dimenticati dei Faraoni Neri. Anche gli accampamenti sotto le stelle offrono un comfort forse lontano dalle aspirazioni di Khartoum, ma nello spirito sono rimasti identici a quelli dei tanti esploratori qui giunti sulle orme del misterioso regno di Kush.



Per fortuna le sole armi che il Sudan d’oggi sa opporre sono le povere vesti di cotone e le lance rinsecchite che rivendicano l’orgoglio della Khalifa House di Khartoum, l’ex abitazione del califfo succeduto all’eroe dell’indipendenza dagli inglesi.



I cannoni arrugginiti che occhieggiano i pellegrini in visita alla tomba del Mahdi, lucente cupola d’argento nel cuore storico della capitale, danno l’impressione di poter esplodere solo un ultimo colpo. Le traballanti bancarelle del souk di Omdurman, cittadina sulla riva occidentale del Nilo di fronte alla capitale, espongono solo qualche pugnale sikkin, la cui lunga lama - come è d’uso fra i nomadi Bisharin - si porta comodamente allineata all’avambraccio. Accanto ad essi giacciono tutt’al più potenti amuleti degli stregoni della pioggia kujur o incensi ipnotici a base di gomma arabica.



Sono piuttosto i sorrisi d’avorio a risplendere nei volti scuri della Nubia odierna. Le scarne mani che si levano al cielo appaiono semplici gesti di saluto, additano l’inusuale forestiero, invitano ad abbandonarsi ai flutti di una feluca diretta alle cateratte del Nilo. Basta astio contro i bianchi colonizzatori. Scomparsa la paura per le incursioni degli Egizi, degli Assiri o degli Ottomani.



Eppure il pianto del Darfur continua ad assordare le orecchie di quanti non sanno più ascoltare. Le divise militari presenti agli innumerevoli posti di blocco spaventano più dell’inarrestabile avanzata della Cina, che a suon di strade asfaltate, stadi in regalo e pali della luce conficcati nel nulla, ha già messo le mani sui ricchi giacimenti petroliferi appena scoperti nel Paese. Senza contare le fresche miniere d’oro venute alla luce lungo la ferrovia diretta in Egitto o le riserve di ferro a est di Meroe, antipasti che stuzzicano ben altri giganti del mercato globale.



«La nostra vera ricchezza é riposta nella nostra storia – sentenzia un anziano kafir, pronto a sorprendere gli intrusi che pensano di essere arrivati in un sito archeologico abbandonato – e da qui occorre ridisegnare il ruolo del Sudan in Africa e nel mondo. Sentirsi eredi ed artefici delle stesse meraviglie che lasciano a bocca aperta sia i cittadini del nord, sia quelli del sud, è forse il modo migliore per cancellare l’astio del passato. Per calcare una via di pace che sia anche una via di progresso per le comunità più marginali del Paese».



Sembra di udire ancora le parole del glorioso faraone Taharqa, che ad El-Kurru inaugurò una necropoli reale i cui mattoni dovevano suggellare il potere dell’avvenire. O i proclami dei sovrani di Meroe, eredi di quegli orgogliosi guerrieri del deserto che, attorno al 750 a.C., da qui risalirono il Nilo sino al suo delta, per rivendicare il dominio su tutti i territori un tempo appartenuti all’impero egizio.



Faraoni bianchi contro faraoni neri. Eterna lotta per la luce della civiltà contro le tenebre dell’isolamento: è tutto scritto nella parabola architettonica nubiana, che riassume secoli di vizi e virtù umani. I rozzi basamenti di Nuri che, piano piano, trasformarono le tombe ipogee nelle verticalizzazioni del potere a Meroe, per poi rarefarsi di nuovo, sbriciolarsi nell’incapacità di emulare un passato troppo grande.



Nel sostenere l’audacia di quella XXV dinastia che stupì l’antichità con enormi recinti per addomesticare gli elefanti, o con corredi d’oro talmente massicci da far dimenticare persino il colore nero della loro pelle. Gli Egizi li chiamavano Nubiani, appunto: “uomini d’oro” che si credevano dèi in terra, ma si scoprirono dannatamente mortali nel momento in cui la storia li costrinse di nuovo ai margini della civiltà, lasciando che l’Africa nera se li inghiottisse per secoli.





A Musawwarat, l’esperta mano che aveva saputo ritrarre le piume di Horus e scolpire velli d’ariete si fa incerta, approssimativa, quasi banale. I corridoi di passaggio s’incurvano pericolosamente. Neppure il massiccio sacro del Jebel Barkal sembra scampato all’impietosa morsa del tempo: il fiero profilo del cobra reale, sbozzato nel pinnacolo a strapiombo sull’enorme blocco di arenaria rossa, si consuma di giorno in giorno sotto l’usura dei venti. Quello che un tempo fu il solenne santuario del dio Amon, si offre ora come un cumulo di rovine, insidiato soltanto dal volo degli avvoltoi. Risalendo la sua vetta non si scorgono più santuari fastosi e truppe temibili, ma l’immutabile serpeggiare del Nilo fra umili palmeti e l’inferno di rocce basaltiche.





La capitale del Regno Nero ha perso terreno. Napata è inciampata a Meroe, un po’ più a sud, sempre più vicina all’angoscioso limes che nelle antiche mappe paventava l’incognita dell’oltre. Poco importa se qui sia concentrato il più grande assembramento di piramidi conosciuto al mondo. Quaranta, forse più. Generazione dopo generazione, anche l'occhio ha finito per smarrire le geometrie acute, scambiando un ritratto sacro sulle colonne d’ingresso al Jebel Barkal per un’oscura figura felina. Era la dea Hator.



Sussulti creativi ci sarebbero stati ancora nel V secolo d.C., quando la cultura copta riuscì a dar vita ad alcune imponenti chiese nei pressi di Old Dongola. Spariranno anch’esse, all’ombra delle qubba islamiche. Per il Sudan sarà l’inizio del lungo sonno, benché capitelli solcati da croci arcuate siano rimasti sepolti solo a metà; per quanto le punte delle piramidi abbiano avuto un ultimo scatto d’orgoglio, spingendo il loro vertice oltre la morsa delle sabbie.





E a terra, niente più che cocci d’argilla, pronti però a riaffiorare ostinatamente qua e là. Quasi attendessero d’essere ricomposti con secolare pazienza, per rivelare l’autentico volto di un Paese relegato alla confluenza di due mondi. Oggi ancor più di ieri.




LE RUOTE DEL TEMPO



La parola derviscio mette ancora i brividi in Sudan. Benché letteralmente non significhi altro che “povero” o “mendicante”, e nell’Islam designi in generale gli appartenenti alle correnti mistiche, a Khartoum è ancora vivissimo il ricordo della loro strage per mano del comandante inglese Herbert Horatio Kitchener e di una recluta non ancora famosa, un certo Winston Churchill. Ogni venerdì sera, quando il sole inizia a tramontare, i loro successori si ritrovano nei pressi della qubba (tomba) di un’importante predicatore musulmano morto nel 1936, Sheikh Hammad el Nil, e lo spettacolo ha così inizio. Arrivano a decine, forse centinaia, inneggiando ad Allah, saltando a destra e a manca, ruotando su se stessi, scandendo il ritmo con le mani, i piedi, i piatti o i bastoni. Le ampie vesti bianche si trasformano in ruote del tempo che, nell’estasi generale, invitano a ricongiungersi con i fedeli del passato e a percepire la presenza divina attraverso gli spasmi del corpo. I tamburi incalzano. Lunghe trombe strillano. Pur non essendo una rappresentazione pensata per il pubblico, ognuno può accedervi e partecipare all’estasi collettiva. Almeno sino al calar del sole, quando i cerchi dei danzatori si allineano verso la Mecca ed iniziano a pregare seguendo metodi più tradizionali. Ma è nella frenesia delle rotazioni che si sprigiona tutto il fascino delle eleganti vesti decorate, dei bastoni ritmici rivolti al cielo, delle collane tintinnanti e dei capelli al vento. Un’istantanea che inevitabilmente ricorda l’assalto in massa contro le truppe britanniche del 2 settembre 1898, in grado di annientare in pochi secondi quasi 10mila guerrieri rimasti a difendere quel che rimaneva della Khartoum libera del grande Mahdi.



MISTERI ARCHEOLOGICI



Il tempio del Leone di Naga è un vero rompicapo per gli archeologi. Già il nome stesso della località, per chiunque abbia dimestichezza con la cultura orientale, richiama il sacro serpente della mitologia indiana, ma le affinità col grande Paese asiatico non si limitano a questo. I ritratti del dio leone Apedemak presentano infatti quattro braccia e tre diverse prospettive, mettendo in evidenza una complessità stilistica ben lungi dai canoni classici egizi o africani. Lo stesso dio, oltretutto, riappare su un pilone esterno sotto forma di serpente con la testa di leone, prendendo le distanze da qualsiasi altra incisione contemporanea. Ma non è tutto: in sua compagnia appaiono pure i greci Zeus e Serapis, entrambi barbuti, mentre una silouette con pettinatura a raggi evoca inequivocabilmente Helios. Tre differenti culture dell’antichità sembrano dunque qui raccolte e convivere armoniosamente. Nonostante gli accaniti studi di un’equipe tedesca, testimonianze che attestino un loro contatto diretto in loco continuano a mancare, così come nessun’altra traccia simile è stata ancora rivenuta in altre parti del Sudan. Va inoltre ricordato che, pur in presenza di Iside ed Osiride, il dio leone non è mai appartenuto al pantheon egizio, tanto da mostrare nei bassorilievi di Naga una ferocia inusuale per le rappresentazioni sacre (più volte si nota un leone divorare la testa di alcuni schiavi), così come spiazzanti sono le dimensioni della regina Amanitore, grande quasi quanto il consorte Natakamani. Che cosa accadde a Naga, dunque? Forse questa località nasconde una storia di travasi e contaminazioni che potrebbe aver poi influito sulle correnti di pensiero più sotterranee? Esisteva davvero una società dominata dalle donne candace? Ogni risposta è ancora sospesa.



ABITAZIONI DA SALVARE



Non se ne conta una uguale all’altra. Le case nubiane sorprendono di continuo per la varietà e la bellezza delle loro decorazioni, sia quando appaiano sui portali policromi (in cima ai quali svettano spesso anche feticci di protezione), che sulle pareti interne o esterne delle abitazioni. Dal giorno in cui la vernice ha fatto capolino nei remoti villaggi a nord di Khartoum, l’istinto artistico dei suoi abitanti si è totalmente abbandonato alla fantasia. Disegni geometrici o floreali, figure astratte o scene di caccia, aprono mondi paralleli sulla bianca calce delle mura, allorché le dita intinte di giovani artiste prendano a scorrere sulla loro superficie senza alcun’idea prestabilita. Affidandosi semplicemente al gusto del momento o all’ampiezza dello spazio disponibile. Un’arte di pura estrazione popolare che rischia però di estinguersi da una generazione all’altra, a causa della povertà che spesso attanaglia le famiglie più isolate. Ecco perché la società Italian Tourism, in accordo con i consigli locali degli anziani e il tour operator I Viaggi di Maurizio Levi, ha deciso di supportare queste iniziative artistiche fornendo colori alla famiglie meglio predisposte. L’accordo prevede inoltre che i viaggiatori italiani possano poi albergare o concedersi tea break nelle case patrocinate, entrando in contatto diretto con gli usi e i costumi dei locali. O chissà, contribuendo col proprio gusto artistico ad impreziosire un remoto angolo della lontana Nubia.



RISTORANTI



AL ASSAH VILLAGE
(Tel. 00249/155.212.121 – 183.481.919, fax 00249/183.481.912. Khartoum1, dietro l’ambasciata canadese)
Vicino all’aeroporto di Khartoum, questo complesso 4 stelle funge sia da grazioso hotel con ambientazione mediorientale (20 camere) che da ristorante, distinguendosi soprattutto per le sue specialità libanesi. Fra i suoi piatti forti spiccano le carni alla griglia speziate, i mezzeh (antipasti a base di farina di legumi) e i budini di riso.

AL WAHA
(Tel. 0183/499.288, Khartoum 2)
Si trova nel quartiere di Khartoum2 ed è il posto giusto per assaporare la famosa “pecora alla sudanese”, meglio conosciuta come Kharouf. Un animale a metà fra una capra e una pecora appunto, dalla coda lunga e grassoccia, sebbene la sua carne risulti poi molto magra ed estremamente digeribile. Viene spesso servita con una salsa molto piccante. Prezzi fra gli 8 ed i 12 euro a portata.

CHAI HOUSE
Letteralemente “Case del tè”, sono di fatto il corrispettivo dei nostri autogrill. Comode stazioni intervallate sulle strade che attraversano il deserto, ove si può tranquillamente consumare il proprio pasto preconfezionato o assaggiare qualche specialità del posto. In genere una zuppa di lenticchie, di fave o di fagioli, accompagnata da blocchetti di carne di pollo od agnello, cipolle fini, cumino e succo di limone.

ALBERGHI



GRAND HOLIDAY VILLA
(P.O.Box 316, Nile Avenue – Khartoum; tel. 00249/183.774.039, fax 00249/183. 773.961)

Noto in precedenza a Khartoum col nome di Grand Hotel, venne costruito sul finire dell’Ottocento ed ospitò niente meno che la regina Vittoria, ma anche il famoso esploratore britannico Thomas Cook ed il primo ministro Winston Churchill. Suggestiva la sua posizione sulle rive del Nilo Azzurro. Consta di 160 camere arredate in stile coloniale, ma anche di alcuni appartamenti privati.

NUBIAN REST HOUSE
(info presso The Italian Tourism Co. Ltd., Street 27 - Al Amarat Karthoum.
Tel. 00249/183.487.961, fax 00249/183.487.962. Email: info@italtoursudan.com)

Tipico esempio di casa in stile nubiano, la rest-house di Karima stupisce sin dal suo portone d’ingresso, finemente intagliato e dai vivaci colori. Le camere, ospitate in un’accogliente struttura con volte a botti e arredo in legno, sono distribuite attorno ad un fresco giardino da cui si può ammirare la vicina montagna sacra del Jebel Barkal. Aperta da ottobre a fine aprile.

SAFARI CAMP MEROE
(info presso The Italian Tourism Co. Ltd., Street 27 - Al Amarat Karthoum.
Tel. 00249/183.487.961, fax 00249/183.487.962. Email: info@italtoursudan.com)

Ubicato nei presi di Bagarwya, circa 230 chilometri a nord di Khartoum, il campo tendato è proprietà de I Viaggi di Maurizio Levi e domina la straordinaria necropoli di Meroe. A disposizione degli ospiti ben 10 tende coloniali da 4 metri per 4, montate su base di cemento e arredate con delizosi mobili in legno. Imperdibile l’alba sulle sedie di canapa davanti alla veranda, o la cena sul piano rialzato e ventilato del vicino ristorante. Aperto da ottobre sino alla fine di aprile.

martedì 31 agosto 2010

TRANSAHELIANA



Brigantino pirata n.1 - Porto Novo (24.07.2010)



Le ironie si sprecano. Chi scambia appositamente una n per una l. Chi fa notare l'oscena forma dei confini. Senza menzionare le barzellette sui neri, inevitabili fra i boy-scout in volo verso l'Africa e le sue missioni a doppia faccia. No. Il Benin non è "quel" tipo di Paese. Le paure freudiane che ci portiamo addosso devono essere ancora figlie dell'ultima sconfitta, perché l'uomo nero, qui, continua ad essere solo e paradossalmente il bianco. Quello che fà sobbalzare al sorgere dell'alba, quando furtivo si avvicina a due guardie dell'ambasciata libica in cerca di una sinistra Maison des Allemands. Quello che fa abbassare gli occhi altrui quando sgrana i propri su una famiglia di ciechi, mentre è intenta ad attraversare con passo titubante la strada saettata dalle moto impazzite. Quello che non puo' credere all'esplosione improvvisa di un taxi in coda sull'interstatale fra Cotonou e Porto Novo, dove i corpi carbonizzati sono premura d'improvvisati
fotografi con immancabile telefonino al seguito, eppur sprovvisti del numero dei pompieri o della croce rossa. Non si spiegherebbero altrimenti i volti arcigni e ostili sotto le tettoie dell'ex casa negriera Da Silva, dove capeggia una scritta a lettere cubitali che marchia come il fuoco: "la tratta degli schiavi é un crimine contro l'umanità": corpi appesi a cappi, sbranati alla gola da cani rabbiosi, stuprati con travi, soffocati nel fango, pannello dopo pannello sino al portone d'ingresso, su cui si annuncia per questa sera un'incredibile sfilata di moda delle bellezze beninesi, in festa per i 50 anni d'indipendenza del Paese. Non certo una defaillance. Solo la voglia di lasciarsi alle spalle uno stereotipo duro a morire, per reclamare davanti ai padroni di un tempo le meraviglie di un popolo capace di risorgere dalle proprie ceneri. In grado di dar vita, in un pugno d'ettari guadagnati un quarto di secolo fa da un padre illuminato, ad un'azienda
agricola oggi un modello sostenibile per ben 15 paesi dell'Africa Occidentale. E' vero: questa e' la vetrina del sud, giovane ed arrembante, che dimentica nella polvere i suoi palazzi afrobrasiliani, ma anche il culto degli avi e la vita amara del villaggio. I lanci di cauri ai piedi delle donne fon incinte, cosi' come dei cacciatori yoruba a corto di frecce. Le maschere geledé solcate da uccelli rapaci e i tamburi che sfondano i timpani. I mercati dove le zampe di gallina valgono assai piu' del latte contraffatto della Nestlé, o di una radio giapponese sopravvissuta ad un film di Bruce Lee.
Pascal, che fa sfoggio di un inglese perfetto fra i visitatori del gioiellino ecosostenile Songhai, non crede che l'uomo sia una canna. Non accetta supinamente il paternalismo di una cultura inoculata come un antivirus. Guarda il kalashnikov appartenuto al padre marxista e sbadiglia. La rivoluzione? Decisamente demodé. Internet gli promette oasi lontane e getta ponti ovunque il suo cuore palpiti. Poco importa sapere quanto siano solidi. Partire! Partire! Per tornare, c'é sempre tempo. Forse il sogno in cui crede é già sotto i suoi occhi, ma non riesce ancora a vederlo; proprio come la famigliola cieca che ciondola verso la sponda sbagliata.

Banane per tutti!
Il Cobra Verde

Brigantino pirata n.2 - Aguégué (25.07.2010)



Zac! Colto subito in fallo. La maledizione freudiana non ha mancato di colpire al primo indugio. Agile e scattante come un'antilope del Parc W, ieri ero incredibilmente riuscito a penetrare furtivo nel primo tempio voodoo incontrato a Porto Novo: una specie di cugino IT gigante, con lampadine rosse al posto degli occhi di bragia e un ciuffo ribelle a forma di quegli ombrellini tanto in voga al carnevale di Rio. Eccolo, il revenant dalle conchiglie ingarbugliate e dalla pancia apribile! E' il gioiello più prezioso che l'amministrazione della capitale abbia deciso di regalare ai suoi cittadini, ma l'accesso nel suo ventre é severamente interdetto almeno sino all'arrivo ufficiale del bokombo. L'inaugurazione avverra' solo il primo di agosto, in occasione del cinquantenario dell'Indipendenza. Avessero messo un cartello almeno! Qui le feste e gli appuntamenti sbucano d'improvviso da una via all'altra, proprio come i fatiscenti reperti del periodo coloniale
o l'incredibile moschea policroma sul Grand marché. Pubblicizzare avvisi non vale pero' la fatica in Benin: basta un bianco di passaggio, uno yovo, e qualunque cosa si stia facendo puo' tranquillamente essere interrotta per esplodere in una risata alla Eddie Murphy. Non che se ne contino molti in giro, anzi: le Sorelle che mi ospitano devono averne visto solo uno e per di più su un sussidiario cattolico, visto che continuavano a confrontare le immaginette col mio volto, dibattendo alacremente in dialetto yoruba. In citta' sara' stata la presenza di una ragazza americana giunta a lavorare per due anni al centro Songhai, perche' tutti si vantano di conoscere turisti francesi, tedeschi, yankee, ma dalle descrizioni paiono più attori di film hollywoodiani che viaggiatori alla deriva. In ogni caso le risa sguaiate si sono tramutate in un attimo in urla ancestrali, i machete sono volati in cielo e le capre hanno preso a zampettare terrorizzate: guai a chi
punta la macchina fotografica su un feticcio! Diversamente da quanto capita ad Haiti, ogni elemento dei corredi voodoo fa sempre rima con taboo: toccarlo, sfiorarlo, occhieggiarlo, puo' costare una mano mozzata o il rantolo di una donna strangolata dalle convulsioni.
Ora sono dunque tenuto a vista ancor più di quanto lo fossi all'arrivo, tant'è che i locali hanno coniato un nomignolo che sospetto velatamente dispregiativo: un suono a metà fra pupù e jojo'. Nessuna sorpresa, allora, se ieri sera la rappresentazione di danze e canti popolari nel vecchio palazzo del re di Porto Novo sia cominciata solo con quattro ore di ritardo: essendo l'unico spettatore, affiancato dalla solita americana dal sorriso sincopato, non si sono sentiti sicuri sino all'arrivo della terribile guardia di Abomey. Gente tosta: dici ta ta e ti ritrovi a metà. Quando lo show ha poi avuto inizio, dev'essersi adirato pure lo spirito del revenant: black-out fulminante. Attorno, solo tenebre prese a pugni da tam tam ossessivi e liquefatte dagli afrori di contorsionisti con occhi ad infrarosso.
Per fortuna l'atmosfera si è rivelata più serena alla sfilata di moda nel vicino museo Da Silva, dove le continue rivendicazioni degli stilisti locali hanno pero' infuso al tutto un tocco grottesco: volendo dimostrare agli assenti padroni bianchi di esser ormai capaci di gusto ed eleganza, strane divise da maggiordomo vittoriano e improbabili cappellini Elisabetta II hanno affollato a lungo l'ex passerella della tratta negriera, mettendo in scena un curioso re-make di Allan Quatermain. Fortuna che, oltre la calca di Porto Novo, nicchia il delizioso villaggio di Aguégué, ove i piedi sono ancora liberi dalla morsa dei sandali, le palafitte profumano di olio di palma e le cicatrici rituali intagliano visi senza vergogna. Un assaggio del Benin piu' selvaggio e autentico, distante piroghe luce dai complessi urbani. Quello che mi attende ogni notte, rivelando solo occhi di bragia...

Salut!
Cobra Verde

Brigantino pirata n.3 Avrankou (27.07.2010)



I cetrioli portano fortuna. Inutile negarlo. Apparsi a fianco dell'hamburger ordinato a Cotonou, primo vero cibo toccato dopo giorni di boissons spumeggianti e formidabili bottigliette di latte al cacao, il viaggio ha preso immediatamente una piega differente. Quasi la Madre Russia avesse voluto lanciarmi un segno inequivocabile. Alzo lo sguardo, scorgo un pingue signore che si struscia al telefonino e penso: ecco il solito italiano in cerca di sesso facile. Ahimé! Dopo uno scambio di saluti fra commensali forzati, si rivela un padre foggiano di San Severo, in procinto di rientrare in Italia dopo quasi 14 anni d'interrotto servizio apostolico nella diocesi di Natitingou, nel profondo nord del Benin. Forse rincuorato dalla vicinanza di un conterraneo, don Francesco De Vita comincia a divorare pommes frites e a sputacchiare informazioni preziosissime senza mai prendere fiato: ricorda la sua infatuazione per l'Africa recondita, l'ardua opera di proseliti
fra tribù scandalosamente nude e pagane, le prime conversioni dopo una cura medica concessa e una carota accordata, spingendosi sempre più in là con gli occhi umidicci.
"Dimentica Cotonou - sentenzia stritolando infine un'oliva - Questa è solo la copia abbruttita di una periferia europea. Se cerchi l'anima del Benin, la troverai fra i villaggi ai piedi dell'Atakora".
E si' che mi ero appena compiaciuto dell'incredibile vivacita' artistica della città, colpito allo stomaco dalle sculture visionarie della Fondacion Zinsou: un gioiellino espositivo nascosto fra un maquis di gamberi sfrigolanti e una bancarella di panciere fuxia, dove l'Africa ribelle urla allo scandalo per il traffico nero di petrolio nigeriano, o denuncia le montagne di rifuti che nel 2052 riempiranno persino le casse toraciche di ciclisti in maschere antigas.
Macchè, fumo negli occhi per Occidentali creduloni. Il riscatto del Paese è ben lungi dall'essere in mano ad un pugno d'artisti di strada, sia che rispondano al nome di Tchif o de leggendario Lilanga. Chi si lascia alle spalle il Sud faccenderie e consumista, troverà solo comunità ossessionate dalla circoncisione con coltelli infetti, convinte che le precauzioni contro l'Aids siano solo l'ultima astuta trovata del bianco contro l'invidiabile fertilità nera. Tribù indolenti al lavoro in cooperativa, sempre pronte a sbaffarsi in una settimana il raccolto di tre mesi, nonostante l'incombente minaccia di un cielo senza più lacrime per i suoi figli. Niente acqua per il nord che vive di sussistenza, tifoni devastanti per il sud che festeggia in spiaggia. Cosi' è la vita.
L'agricoltura ecosostenibile del centro Songhai? Bella idea, certo, ma senza alcuna presa una volta lasciate le rassicuranti mura dell'azienda futurista. Niente fondi d'appoggio dal governo, nessuna rete di contatto, solo mogli affamate che hanno fretta di riprodursi col vicino di casa.
La carità di Gesù Cristo? Un comodo escamotage per far curare i figli scarnificati dalla malaria, quando i riti degli antenati non riescono a sortire effetto durante le ecatombi di capretti in piena notte. Lontano da occhi indiscreti, all'ombra di una croce che serve solo come palo per attaccare teschi, salvo poi meravigliarsi al mattino ostentando facce da bimbi colpevoli.
"Che senso ha ostinarsi nelle conversioni, allora?".
Don Francesco rigetta ogni parola dal sentore coercitivo. Lui invita. Espone amabilmente. Prega affinchè la luce della consapevolezza si faccia spazio solamente con la propria forza. Come accaduto quel giorno ormai lontano, quando un'anziana della tribù del suo villaggio getto' gocce d'acqua a terra, prima di spazzare la sabbia rossa fra le narici ingenue dei bimbi. Una rivoluzione del bon ton vicina al glorioso Ottobre, visto che l'acqua vale sempre oro. Persino quando contiene uova di zanzare o è soffocata da alghe verdognole.
Dietro la vittoria di Don Francesco c'è ben altro, pero'. Il prossimo ottobre tornerà in Benin per cimentarsi in una nuova avventura. Altro villaggio, altra tribù, ancora più selvaggia e renitente. Dei suoi vecchi compagni è già pronto a farsi una ragione. "Regrediranno, è quasi certo. Tutto tornerà come prima. Il peso della tradizione è un macigno insormontabile. Me se almeno uno si salverà, avro' fatto il mio dovere".
Non contano i numeri, sotto sotto. Tanto insensibili sono i pagani davanti ai figli morenti, pronti a non sborsare nemmeno un franco in cure mediche, tanto duro è il giudizio del missionario di Dio. Per lui occorre innanzitutto debellare il Grande Feticcio, che si cela insidioso fra le anime di Kotiakou. Uno, due, o tre battezzati fanno si' la gioia, ma non la felicità. Lui vuole una conversione di massa. Un'intera etnia in ginocchio davanti al crocefisso. E' la sua sfida personale. Il suo trionfo. La sua lotta infaticabile contro gli spettri d'Africa.
Sino a quel giorno non avrà pace alcuna.
Se sapesse, invece, dove sono finito proprio oggi. Dove mi ha guidato una moto lanciata verso le intricate foreste al confine con la Nigeria. Se avesse potuto vedere la madre che in lacrime ha intinto il figlio in una pozza sacra di acqua stagnante. La ragazzina che si versava secchiate sul ventre, sognando un erede che tarda ad arrivare. L'anziano che immergeva la testa sin quasi a soffocare, in cerca della vista che un tempo non risparmiava un solo pipistrello. Se avesse udito il riso sghignazzante della pingue cuoca del mercato di Adjara, intenta a tagliuzzare code di ramarro e a strappare piume di macaco.
Forse avrebbe capito perchè gli abitanti del posto hanno lasciato cadere in rovina il più ricco sito coloniale di produzione di olio di palma. Perchè s'accontentano di vivere in abitazioni su cui nessuno mette più mano da oltre cinquant'anni. Perchè le donne cantano nenie durante il bucato, sudano sotto il peso delle pile sulle loro teste, mentre un trattore arrugginisce nei campi. Credono, proprio come lui. Credono in una verità che nessun giogo puo' soffocare.
Hanno fede. Semplicemente.

A bièn tot!

Cobra Verde

Brigantino pirata n.4 - Ouidah (29.07.2010)



In Benin non ci sono autostrade per l'inferno. Costano troppo. Solo sentieri sterrati, lungo i quali la sabbia assume il colore del sangue. Non sono neppure troppo lunghe. Quattro chilometri possono bastare. Tale era infatti la distanza che separava la piazza di Ouidah dalla Porta del Non Ritorno, ultima sfuocata immagine di una costa maledetta, che nessuno avrebbe mai più rivisto. Per generazioni e generazioni. Per secoli. Sotto un sole cocente, il tempo si è pero' fermato ieri.
Vomitato dalle immacolate mura del Forte di Joao Batista, il cui nome portoghese non rende affatto giustizia del continuo avvicendarsi dei negrieri europei, al mercato della carne umana presenziava solo una statua dagli occhi sbarrati. Osservava con orrore proprio la pista sabbiosa ove nessun dio voodoo, nessun feticcio a tre teste, o a una gamba, sarebbe stato in grado di sciogliere le pesanti catene ai piedi. Alle mani. Al collo.
A volte gli spiriti si dileguano dietro palme fruscianti, in fondo alle paludi dal gracidio ossessionante, nelle ombre invocate per raggiungere almeno l'oblio, per morire in un corpo su cui chiunque, al di la' delle onde voraci, sara' autorizzato ad infierire.
Diventare zombie: sogno ribelle del fon e dell'ewe, piegato dalle armi, ma col cuore sempre altrove. In diaspora perenne.
Qualcuno deve aver ascoltato la preghiera segreta dei milioni di condannati che questa lembo di terra si è inghiottito sino all'indigestione: piangevano, ieri. Urlavano le donne e gli uomini dal color della pece. Si strappavano i capelli. Battevano i pugni su petti tesi come tamburi. Gridavano parole che solo Babele conosce. Inverecondo pianto del pellegrinaggio impossibile.
Dietro un bancone di fortuna, rum ed erbe per dimenticare. Io, bianco colpevole per il solo colore della mia pelle, sono stato rapito dal dio Legba e dai suoi tre totem. Costretto a sputare alcool per ridare vita al legno inciso. A leggere nelle conchiglie l'odio dei padri e il dolore delle madri. A farmi fumo insieme alla polvere da sparo, bruciata in una voragine oltre la quale regna sovrano il silenzio.

Viva John Brown,
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Brigantino pirata n.5 - Lac Ahemé (02.08.2010)



I segni erano evidenti. Tre cipree cadute con la scanalatura verso l'alto, una sola verso il basso. Cosi' si era palesato il cammino a Ouidah, cosi' è stato ribadito al mercatino dei feticci di Lomè, dopo una rapida incursione oltre i confini del Togo. Prima di farmi dono di alcuni amuleti, un medico tradizionale ha infatti voluto consultare nuovamente il responso della sabbia, onde non aver dubbi che il cammino africano proceda senza intoppi. Infine è arrivata la bisaccia del viaggiatore: al suo interno, un totem del dio Legba, dal ciuffo spettinato e trafitto da impietosi stuzzicadenti, cui si accompagna un bastoncino forato su un lato, il cosidetto telefono degli spiriti. La piccola apertura serve appunto per sussurrare le proprie preghiere e custodirle gelosamente, una volta sigillato il bastoncino con un tappo acuminato. In caso di fastidi potro' poi contare su una coppia di bamboline voodoo, uomo e donna: mai fidarsi troppo nè dell'uno, ne'
dell'altra.
Potenti armi dell'anima, indispensabili per chiunque prenda parte ad una cerimonia in cui i morti ritornano: quando i campi inaridiscono, è tempo infatti di dispensare profezie e portarsi via il più ingenuo dei malcapitati. A nulla sono valsi gli sgozzamenti di capre, capretti e polli con cui gli abitanti locali hanno tentato d'imbonire la furia dei revenant; quasi nulla la barriera di tambureggiamenti ossessivi opposta dai seguaci della sacerdotessa dei pitoni, presto divorata all'interno del tempio ove s'intrecciano i sacri rettili. Mugugnando parole dell'altro mondo, contorcendosi in vesti scintillanti e dal tocco fatale, loro si sono comunque manifestati, correndo a scatti per sorprendere i predestinati. Sono volati bastoni, le catene si sono spezzate, la polvere ha tinto il cielo di rosso: nella furiosa lotta con gli abitanti di Ahemè, qualcuno è caduto. E' sparito. O come dicono qui: è partito, lasciando solo impronte di una presenza che
tornerà sotto altre spoglie. Perchè in Benin non esiste storia: questa è solo il teatro dell'esistenza, in cui la verità assume il volto del credo, per trovare senso nell'eterna ripetizione. Come se la starà ridendo, quel satanasso di Nietzsche...

Una zampetta di pollo,
Mr Follow Follow

Schiavo portalettere n.6 - Natitingou (08.08.2010)



Perfida Abomey! Quando supponevo d'aver fatto breccia nel suo imprendibile palazzo reale, le truppe di re Behazin hanno messo in atto un infido piano di depistaggio. Al sorgere del sole la capitale del regno di Dahomey pareva infatti abbandonata: solo due leoni scolpiti sui pilastri d'ingresso, qualche raccapricciante immagine di prigionieri smembrati nel legno delle porte trionfali, per il resto spoglie fumanti delle antiche regge distrutte dal sovrano in fuga. A nulla sono valsi i fucili venduti ai selvaggi dagli emissari del Kaiser: un tempietto con croci teutoniche è tutto cio' che resta in piedi del loro maldestro tentativo di bloccare la nostra Grand Armeè.
Ben più fiera e inaspettata è invece apparsa la resistenza dei civili, che hanno impedito di documentare la presa del palazzo, facendo sparire per ore le nostre attrezzature fotografiche. A nessun profano è concesso avvicinare il terribile trono del re, poggiato su quattro teschi di svenuturati nemici; impossibile riprendere gli sbalorditivi bassorilievi che raccontano le gesta di questa dinastia sanguinaria, che non prova vergogna alcuna nel rappresentare corpi massacrati a colpi di gambe mozzate, teste staccate con fendenti impietosi, impalamenti di soldati oppostisi alle catene dei velieri negrieri. Nè posso tacere gli attacchi a sorpresa delle Amazzoni di Re Benahzin, mimetizzate fra le fronde di karitè, eppur sempre pronte a dardeggiare con frecce intinte nel veleno delle vipere di Guinea.
Impossibilitati a difendere il palazzo, abbiamo costretto il folle sacerdote del Fa a svelare il percorso di fuga del re: grazie alla sua arte geomantica, che il vecchio sostiene d'aver ereditato dall'Egitto dei Faraoni, i frutti secchi legati alle corde del responso hanno assunto per tre volte forme ben definite: "a nord, a nord!" - sbraitava ad orbite ribaltate, mentre un rancido odore di pollo spennato riempiva i fremiti delle nostre narici.
Detto fatto: issato il tricolore, le nostre truppe si sono prontamente rimesse in marcia, convinte che i nomadi Peul potessero prestarci aiuto nella cattura, vinti dalla loro stessa vanita': talvolta basta infatti qualche franco d'argento per conquistare le trecce delle loro donne, o semplici bracciali in oro per piegare la loro mano.
Purtroppo il sacerdote ci ha teso una trappola: lassù abbiamo incontrato solo foreste vergini, orme di elefanti e teschi abbandonati. Chiusi in un vicolo cieco, sferzati dalla pioggia che ha persino bloccato il guado del fiume Niger, abbiamo dovuto riparare fra le ospitali comunita' Taneka, alle porte di Natitingou. Anime buone, che vivono in tonde capanne solcate da brocche d'argilla e paiono aver a cuore solo la grappa di sorgo. Il loro re ci ha accolti addirittura in famiglia, invitandoci a riposare fra i seni scoperti delle sue giovani figlie e sotto l'egida del bastone degli avi. Finalmente un po' di respiro, dopo giorni tesi e pieni d'insidie.
Ora punteremo verso il confine dell'Alto Volta, dove vivono altre tribù pacifiche in curiose fortificazioni di fango. Somba le chiamano.
Comunque sia, il re non ha scampo. Il Dahomey è accerchiato e Parigi sta per madare rinforzi. Suonate la Marsigliese!
L'Africa Occidentale è nostra...

Allons!
Generale Dodds

Cammello prioritario n.7 - Ouagadougou (14.08.2010)



Non c'é merce più preziosa del bianco. Un vero affare per chi riesce ad accaparrarselo prima. A lui si puo' infatti chiedere tutto: di offrirti una birra Flag, sostituirti la marmitta bucata di una moto, regalarti soldi perché in pidgin "Le Blanc" significa solo bancomat con le gambe.
Se ad Abomey l'arroganza delle pretesa pareva giustificata dall'odio ancestrale per la tratta, tanto che i bimbi per strada muggiscono "Yovo, l'argent!" quasi minacciassero la borsa o la vita, in Burkina Faso il nome della propria nazione costringe ad acrobazie di maniera.
Qui l'argent si declina infatti nel cadeau: lo si puo' accettare solo in termini di dono, di gentilezza un po' laccata, ma è ambito con una fame che mortifica più delle catastrofiche classifiche del Wto.
Impossibile passeggiare senza essere importunati ad ogni passo; inutile nascondersi in oasi verdi che non esistono o fuggire lontano attraverso i propri auricolari. Qualcuno sarà comunque già li', a fissarti con occhi bramosi e a inventarsi amicizie talmente arrovellate, da giustificare qualunque confidenza.
Ecco perchè nel Paese degli Incorruttibili occorre formarsi alla scuola di Gorom Gorom. Lassu', dove il Sahara lambisce il Sahel, l'aridita' della terra cresce uomini coriacei come baobab. Infaticabili. Inesauribili. Capaci di trattare senza mai alterarsi, dall'alba al tramonto. Il più grande mercato dell'Africa Occidentale svezza ogni giovedi' generazioni di Tuareg, Songhai, Peul e Bella che non devono chiedere mai. Cio' che si desidera viene ottenuto soltanto donando il meglio di sé.
Non serve astuzia alcuna, né sfacciataggine o tanto meno umiliazione.
A Gorom i buoi paiono infatti minotauri incontenibili, le donne intrecciano coperte capaci di opporsi persino alle polveri dell'harmattan, mentre chi non ha virtù di sorta potrebbe tranquillamente ritrovarsi in catene sul fondo di una carovana che vende carne da macello.
La lenta scomparsa dei grandi mercati regionali, a favore di quelle interminabili vetrine ambulanti che intossicano ogni citta' d'Africa, è forse la peggior sventura per il riscatto del nero. Genio dell'artigianato d'emergenza, si sta ormai trasformando in un ozioso procacciatore, capace di piazzare solo quanto la fatica d'altri ha confezionato.
La Cina e l'India sembrano lontane anni luce da Ouagadougou o Cotonou, eppure sono onnipresenti. Più torrenziali delle nuvole dell'Atakora. Investono di novità e patacche le coste di un continente che, ancora ieri, sapeva fare delle Renault5 di Capitan Sankara una Ferrari di rappresentanza. Avanzano, lente ma incontenibili, con la stessa determinazione con cui le sabbie si bevono i pozzi d'acqua e il vento ruvido del nord polverizza le moschee di fango.
A Bani non restano che scheletri d'Islam, parvenze di un'età dell'oro che si reggono ancora in piedi grazie allo sterco delle vacche.
Senza bocchi al mare, incapace di spingersi oltre la vuota grandeur del francese scolastico, il Burkina Faso è ben lungi dal sogno del suo compianto Capitano. Urla una disperazione che nessuno puo' più intedere, ha sete di orizzonti che immagina attraverso spettri distorti.
A sud attendono capanne imbellettate con penne di faraona. A Bobo Dioulasso si confida nella grandezza di Allah, imperscrutabile quanto la sofferenza di un Ramadan troppo lungo da digerire. Qualcuno invoca un nuovo San Sankara, la cui tomba sbiadisce pero' fra rigurgiti di fogna e spazzatura d'occasione.
A volte ci si chiede perchè un grilletto non basti per farla finita.
Scatta a vuoto. Made in China. E' il solo giocattolo il mondo oggi concede a quest'uomo bestiale, privato addirittura del diritto di crescere.
A 140 anni dall'abolizione della schiavitù, il nero ha perso solo una "g", ma grazie a Darwin ha ritrovato zia Lucy.

Nel cielo coi diamanti,
Alberto Da Silva

LE ISOLE DEL NON RITORNO




Devono aver usato inchiostro simpatico per disegnare le Andamane. Appaiono e scompaiono dal Golfo del Bengala a colpi di tsunami, o assai più spesso per astruse alchimie politiche. Sostanzialmente sconosciute sino al 1788, allorché il luogotenente Arcibald Blair vi sbarcò fra sbuffi di cornamuse paonazze ed uniformi sudaticce, sono tornate nell’anonimato con la stessa velocità con cui gli indigeni infilzarono all’epoca i sudditi di Sua Maestà, probabilmente scambiati per varani albini.


Camminavano sì su due zampe, ma la brama del predatore scintillava subdola nei loro occhi. Dicevano di venire in pace, di portare i lumi di una civiltà più evoluta, eppure dietro i colletti imbiancati nascondevano la malata idea di costruire nell’arcipelago il più spietato carcere del loro nascente Impero. La “Cayenne” d’India, giusto per gonfiare il petto con i francesi, sapientemente occultata in una delle oltre cinquecento isolette che si allungano a est di Madras e inglobano pure gli affioramenti delle Nicobare.


Oggi i sette raggi del penitenziario di Port Blair si sono infranti, con grave disappunto di Jeremy Bentham e del suo infallibile “Panopticon”, ma le ragioni degli indipendentisti indiani hanno incredibilmente assunto i toni dei vecchi conquistatori. Le recenti dichiarazioni del parlamentare Bishnu Pada Ray, secondo cui “i bimbi delle tribù Jarawa dovrebbero essere allontanati dalle proprie famiglie e trasferiti in collegi scolastici”, hanno l’inconfondibile sapore di una superpotenza coloniale dalle mire tracotanti. Ruolo che l’India interpreta con grande disinvoltura nell’Assam così come nel Tripura, nel Sikkim al pari che nel Kashmir, pestando i piedi a tutti, ma venendo ogni volta perdonata da un Occidente troppo in affanno per fare la voce grossa.


Forse è capace ancora di commuoversi di fronte alla scomparsa dell’ultima superstite della tribù dei Bo, venuta a mancare lo scorso gennaio dopo aver disperatamente tentato di consegnare ai posteri un tesoro autoctono di 65mila anni, ma non rinuncia a chiudere una strada che, ogni giorno, spande microbi letali ed esche consumiste nel cuore di una foresta da cui l’uomo nero rifiuta d’emanciparsi. Anzi, ora accarezza l’idea di costruirvi accanto persino una ferrovia.











Volta faccia agli imprenditori di Barefoot India, dopo aver loro concesso di costruire un lussuoso resort nelle terre sacre dei cacciatori nomadi e sbandierato l’idea di lanciare qui le nuove Maldive; strizza l’occhio a Survival, quando occorre lavarsi la coscienza e sdegnarsi per gli operatori turistici che propongono safari “tribali”; eppure sembra una posa di comodo per disboscare in tutta pace un’immensa foresta dal legname pregiatissimo. 
Thimbok e Chuglum che ogni giorno arrivano a tonnellate sotto le lame della segheria Chatham, fra i più grandi impianti di lavorazione in Asia, in funzione addirittura dal 1836. D’altra parte si sa: l’indiano ha fiuto per il business, sia dello spirito che della pancia, e poco conta se occorre far ricorso agli odiati simboli dell’imperialismo di Sua Maestà.
















Eppure qualcosa continua a non funzionare, laggiù: come ben presto si rese conto il capitano Henry Man, le Andamane non sono addomesticabili. Dopo diversi tentativi abortiti, nel 1858 il terribile penitenziario sembrava davvero in funzione, ma mantenerlo in vita costava più fatica che mettere le ganasce ai piedi degli indiani. Far schioccare la frusta sulle loro schiene scheletriche non serviva ad azzittire l’ossessionante tramestio della jungla. 
Incatenare gli spiriti ribelli ad una sedia in gattabuia non liberava dalla morsa soffocante delle radici, che giorno dopo giorno s’insinuavano nei pertugi del perbenismo vittoriano, sgretolando le sue guglie neogotiche esattamente come la fede nell’ecumenismo della Union Jack.





















Oltre Ross Island la notte si riempiva di urla sinistre, mentre le budella dei maiali, abbandonate per strada dagli invisibili uomini della foresta, preannunciavano una punizione orribile. Quella che si sarebbe meritata Doodhnath Tiwaria, un ammutinato del 14° reggimento indiano, capace di sfuggire alle sbarre del penitenziario di Port Blair, ma non all’ineluttabilità del destino: catturato dagli aborigeni durante la sua fuga sanguinaria, si guadagnò la loro fiducia sino a sposare le due figlie dei capitribù Leepa e Geeja.


Quando questi decisero però di mettere sotto assedio il contingente inglese, attaccando la stazione di polizia Aberdeen il 17 maggio 1859, strisciò dai suoi vecchi aguzzini avvertendoli del pericolo mortale che incombeva su di loro. Si guadagnò una libertà macchiata dall’ignominia, gli inglesi fecero a pezzi i ribelli, ma gli aborigeni persero per sempre la fiducia nell’uomo che veniva dal mare. “Eenen piti piti” ribattezzarono il forestiero: l’uomo malvagio.



Da allora, la jungla delle Andamane si è fatta ancora più impenetrabile, inghiottendosi gli Jarawa, gli Onge e i Grandi Andamanesi, mentre la rotonda Sentinel Island non ha mai smesso di abbassare la guardia, assurgendo a baluardo di un’invasione impossibile: qualsiasi tentativo di sbarco sulle sue spiagge immacolate continua a tingersi di sangue e cianuro. Neppure i giapponesi riuscirono a fortificare i propri bunker, dopo il fugace tentativo di scacciare la flotta inglese fra il 1942 ed il 1945: se ne conta qualche sparuto superstite proprio a Ross Island, in piedi per la gioia dei militari indiani che al loro interno festeggiano oggi le libere uscite dalla caserma di presidio.


Viper Island risulterebbe certo più defilata per concedersi qualche raro momento di baldoria cameratesca, ma le rovine della forca che tante anime indiane si prese appaiono ancora infide: a dispetto del suo nome, là si nascondono più coccodrilli che rettili velenosi, decisi a perpetuare il mito d’isola del non ritorno.


Nessuno sa veramente quanti e dove siano i superstiti di queste lotte dimenticate dagli annali: si stima che la foresta delle Grandi Andamane nasconda ancora 320 irriducibili, ma sono solo numeri rubati alle cartelle dei laboratori ospedalieri disseminati fra Port Blair e Diglipur, ove l’orgoglio del selvaggio deve piegarsi al miracolo della stregoneria dell’invasore.


Perché da quando il loro piede ha offeso le felci di Little Andaman e a Baratang è stata violata la rabbia del sacro vulcano di fango, da quando le piane di caccia sono state trasformate in risaie e le grotte degli animali pietrificati in rifugi del dio Ganesh, la punizione degli antenati è giunta ineluttabile.




Si muore per uno starnuto. Si muore per una pustola. Si muore per i bocconi della compassione. Quelli che rotolano dai finestrini dei bus lanciati a folle velocità, lungo una strada che somiglia solo ad un tortuoso sfregio: un giorno è una bibita colorata, un altro un pacchetto di patatine, un altro ancora un’assurda t-shirt, accolta fra le mani di chi oggi non può far altro che invocare il cielo e piegarsi alla forza dei prodigi.


A tal punto che vivere nascosti non serve più: l’Andaman Trunk Road spalanca una finestra cangiante su un mondo oscuro e fascinoso, fatto di mostri d’acciaio e risa sguaiate, di braccia violente che ti scaraventano a terra quando tenti di dare una risposta ai grandi perché della vita, o che ti trascinano via quando vorresti solo dimenticare il dolore che il mondo ha improvvisamente risvegliato. Proprio come un animale ferito ed offeso, accucciato dietro quelle foglie che un tempo videro invece irrompere baldanzosi guerrieri dal petto lucido di grasso. C’è chi non si dà per vinto e ancora osa, mentre le auto in coda attendono un traghetto arrugginito o una famigliola brucia incensi sotto un fico, convinta che Krishna e Shiva vivano ovunque la loro dedizione inciampi.


Un fruscio di frasche. Passi felpati. Ombre che d’improvviso prendono forma. Sono loro, gli implacabili uomini neri delle foreste, dalle narici che si dilatano terrorizzate, ma dal machete facile. Quelli che ti fulminano con un’occhiata, ma al tempo stesso morirebbero dalla voglia di capire i sibili della tua lingua. Quelli che ti passano a fianco sfiorandoti quasi con i loro archi, ma che l’orgoglio costringe col mento alto all’orizzonte. Prima di sparire nel nulla, di tornare nuovamente ombre inquiete, aprendosi varchi dove la natura aggroviglia le sue viscere.


Ci penseranno le motoseghe a stanarli, con la complicità di qualche povero elefante costretto a liberare il percorso da tronchi di padauk ormai senza vita.


Oppure le onde impazzite dell’oceano, come già accadde col fatidico tsunami del 2004, quando la loro terra venne sciacquata via dalla furia distruttrice delle acque, materializzandosi improvvisamente sulle prime pagine dei giornali.


Urlo rabbioso di una natura troppo a lungo offesa, pronta a riprendersi quei figli che la cupidigia altrui avrebbe comunque condannato ad una fine ingloriosa, relegandoli lontano dalle loro case, vestendoli di stracci a buon mercato, dando loro una ragione di vita che nessuno di essi mai comprenderà.


I Bo se ne sono andati così. Gli Onge sono stati strappati alle capanne comunitarie di Little Andaman, per finire a Dugong Creek e South Bay nei prefabbricati dell’incuria burocrate. Dietro recinti scricchiolanti che non hanno più racconti e saghe da custodire. Per quel che resta degli Jarawa, costretti a vagare come spettri fra felci e liane, si fa affidamento ai centri d’accoglienza disseminati sulle isole a partire dalla fine degli anni ’90, quando alcuni di loro presero coraggio e iniziarono ad annusare i villaggi dello straniero. A riportare le teste dei contrabbandieri bengalesi, spintisi dove non avrebbero dovuto. Ben poco si può fare per i Grandi Andanamesi, infine: fagocitati in fretta e furia dalla potente macchina civilizzatrice indiana, che nel 1971 stava per perdere persino gli ultimi 19 sopravvissuti, si sono trasformati in anonimi cittadini della più grande democrazia del mondo.




E’ tutto quel che resta dell’epica migrazione che, agli albori della storia, guidò tribù affamate dal cuore d’Africa verso un Oriente dai confini incerti, ove i congiunti di Papua o d’Australia non se la passano certo meglio. Avanti di questo passo, punte di freccia in osso, conchiglie levigatrici e cestini di canapa saranno le sole testimonianze visibili ai pochi curiosi che si avventurano in quest’avamposto del progresso; polverose reliquie del museo antropologico di Port Blair, che fanno concorrenza ai verdi piccioni imperiali, ai macachi mangia-granchi e alle circa 200 specie animali autoctone segregate dietro la ruggine dello zoo civico.


Vita alla sbarra. Il destino delle Andamane.