"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

mercoledì 3 settembre 2003

BREVE EXCURSUS SULLA BURIATIA



LA BELLEZZA FATALE

Buon compleanno Buriatia, bella e dimenticata. A 80 anni esatti dalla nascita di questa piccola repubblica autonoma della Siberia, ufficialmente istituita nel 1923 ai confini orientali dell’Unione Sovietica, le sue idilliche montagne ed le sue piane selvagge restano appannaggio di qualche estroverso avventuriero, ma nulla più. E’ lo scotto che deve pagare per aver ciecamente creduto nelle promesse della Perestroijka, quando i suoi abitanti si illusero di poter fare a meno di sovkohz e kohlkoz, vivendo del proprio orgoglio nomadico: l’unica vera risorsa che aveva trasformato i suoi campi avari in appezzamenti di ricche coltivazioni, ovvero l’agricoltura collettivizzata, è oggi solo un lontano ricordo evocato dalle carcasse arrugginite degli impianti di stoccaggio. Se è pur vero che i Buriati, discendenti da popolazioni mongole qui stanziatesi quasi un millennio fa, hanno sempre vissuto di caccia ed espedienti, nel mondo globalizzato l’isolamento non è più una difesa sicura, quanto una forma d’innocenza che risveglia gli appetiti di speculatori assai poco romantici.

I suoi 350mila chilometri quadrati non hanno solo la fortuna di essere ricoperti da fitte foreste di conifere, ma lambendo a nord e ad est le coste del lago Baikal, si espongono inconsciamente ai segreti progetti di edificazione di un centro per l’immagazzinamento di sostanze nucleari, di cui solo la rivista “Vokrufsveta” (www.vokrufsveta.ru) e l’associazione ecologista “Baikal Wave” (www.baikalwave.by.ru) hanno avuto l’ardire di denunciare i catastrofici effetti sulle riserve naturali locali. Toccare il tema della radioattività in Russia può essere infatti molto rischioso, a tal punto da indurre l’Fsb (i servizi segreti eredi del Kgb) ad azioni intimidatorie nei confronti dei pochi attivisti che si battono per avere maggiori informazioni sui rischi della salute propria ed altrui, cioè del mondo intero: perché il Baikal non è semplicemente un lago sperduto nella fredda Siberia, bensì un inestimabile e stravagante patrimonio dell’Unesco già dal 1996.

Uno dei tanti, a dire il vero. Chi pensa di far tappa ad Ulan Ude, la capitale dei Buriati, solo per raccogliere un po’ di vivande in vista di mete ben più rinomate lungo la ferrovia Transiberiana o Transmongolica, dovrà ricredersi quasi subito. L’enorme testa di Lenin, che incombe su ploscad Sovietova, mozza già di per sé il fiato: alta quasi cinque metri, la più grande del mondo, testimonia nelle sue spropositate dimensioni lo sforzo di sovietizzazione attuato nelle terre ove crebbe la madre di Gengis Kahn. Al di là del formale assenso alle direttive del Partito comunista, i Buriati non hanno mai rinunciato alle proprie tradizioni. Lo stesso Stalin, che nel corso degli anni ’30 aveva fatto distruggere centinaia di monasteri buddisti (datsan), si vide costretto nel 1946 a riconoscere il ruolo dottrinario del datsan di Ivolginsk, divenuto in breve il polo di riferimento per tutti i seguaci sovietici del filosofo indiano. Dal 1991, qui è stata creata addirittura una scuola di buddismo, dove vengono formati i Lama del futuro che si occuperanno di gestire altri monasteri buriati in fase di restauro o ricostruzione. Nonostante la subdola opposizione del governo russo e della chiesa ortodossa, verso cui si combatte una lotta culturale ben più accesa ma assai meno pubblicizzata di quella tibetana, il Buddismo sta oggi vivendo un periodo di intensa fioritura proprio in Buriatia.
La tolleranza religiosa è comunque di casa: nei villaggi locali e sulle montagne sacre gli oscuri sciamani sono in realtà pazienti saggi, con i quali ci si può confrontare chiedendo guarigioni o informazioni sul proprio futuro, mentre a Tarbagatasay, così come a Bolshoy Kunaley o in altri piccoli centri del sud, i Semeyskie (Vecchi Credenti) mantengono in vita usi e costumi del ‘700, seppur condannati come eretici dalla chiesa ortodossa. Tesori antichi e fragili, che la furia del consumo è pronta a spazzare via senza più fare appello al verdetto del campo.

martedì 2 settembre 2003

Da MOSCA A PECHINO/6



QUATTRO CHIACCHIERE CON UNO SCIAMANO

E’ difficile immaginare cos’abbia provato Jurij Gagarin il 12 aprile del 1961, quando primo fra gli uomini effettuò il giro orbitale della Terra a bordo della leggendaria Vostok I, ma dev’essere stato qualcosa di simile al mio arrivo a Kyriene, un ammasso di baracche dimenticate nella più remota appendice della Buriatia. In questa regione selvaggia al confine con la Mongolia i contatti con il resto del mondo sono rari quanto il passaggio delle comete. Probabilmente non sarei mai giunto sin qui, se un Lama buddista non avesse suggerito alla mia corrispondente Lena di far visita a suo zio, un certo Danil Lassal, oscuro sciamano a cui vorrei strappare l’intervista della mia vita. Quando busso alla sua porta di casa, scosso da inspiegabili brividi, si affaccia però un vecchietto che non ha nulla dello spiritato medium pronto a contorcersi al suono del sacro tamburo. Anzi, all’inizio si finge un semplice allevatore di cavalli, poi mi dice che Danil é in realtà il nome del suo nipotino. Ha occhi sottili come mandorle, di fronte ai quali pare impossibile mentire.
“Pensa un po! Un italiano!” - sbotta infine con un sorriso adamantino, osservandomi come se fossi appena caduto da Marte. “E’ la prima volta che a Kyriene conosciamo qualcuno di un’altra terra: qui ci fanno visita soltanto i morti”.
Sedutomi nel suo studio, sfodero come di consueto il taccuino degli appunti, ma le parole mi si strozzano in gola. Lo sciamano si è accomodato al tavolo dipingendo un’aria grave e, senza chiedermi altro, inizia ad armeggiare con ossa scheggiate di capra: le osserva in controluce, soffia in una conchiglia a forma di spirale, quindi pare tranquillizzarsi e sorride di nuovo. Questa volta con benevolenza.
“E allora? Vuoi dirmi quando sei nato?”. I miei dati innescano astrusi calcoli e complesse estrapolazioni da un calendario mongolo, al termine dei quali il signor Lassal soppesa in una coppa pochi centilitri di vodka a cui da fuoco per alcuni secondi, passandovi sopra erbe sconosciute. Osserva il predisporsi delle ceneri ed inizia a rivangare episodi delle mia vita che solo un agente del Kgb potrebbe avergli riferito, episodi che vedrò riaffiorare in sogno nei giorni successivi, ma animati da nuova linfa. Il sordo tramestio delle sue formule viene spezzato per tre volte da parole di una lingua sconosciuta, “Dorsun”, “Manal” e “Namsaran”, grazie alle quali scopro di esser stato appena liberato dall’accidia di persone che sono solite vivermi vicine, che avrò un grave problema di salute a quarant’anni (ma lo supererò senza conseguenze) e mi sposerò fra i 30 ed i 33 anni. Appena quattro o sette anni di libertà da quell’esatto istante! Imploro lo sciamano di fermarsi, di parlarmi piuttosto della sua vita e del perché lo sciamanesimo riesca a convivere serenamente con la chiesa ortodossa ed il buddismo. “E’ semplice: perché non é una religione”. Gli sciamani sono infatti dottori a cui la gente si rivolge dopo che la medicina tradizionale ha fallito, veggenti o conduttori di anime: fra questi sono presenti anche gli sciamani neri, capaci di compiere rituali malefici bruciando sulle fiamme il sangue delle pecore, o “Baran”. Lassal é per mia fortuna uno sciamano bianco di settima generazione (nessuno può diventare tale, se non legato da vincoli di sangue o in virtù di rarissime eccezioni) che talvolta viene consigliato da suo padre, quando si presenta sotto le spoglie di un grifone. Parla, parla e le sorprese non finiscono: dopo una lunga lezione su danze rituali e su siti di rifugio meditativo, quali la Gola dello Sciamano sull’isola di Olkhon (nel lago Baikal) o il picco del Falco gentile interdetto alle donne (vetta di Buyan Tugal), lo sciamano mi regala un pacchetto di cereali molto simili a miglio, pronti a sprigionare effetti benefici se collocati nei piani alti della mia abitazione, offrendomi da bere uno strano intruglio di vodka, droghe e licheni necessari per purificarmi; quindi mi chiede di inginocchiarmi, sì da spruzzarmi con lo stesso liquido, ma nel compiere il rito sbarra gli occhi: attorno al mio capo ha scorto un’aurea dorata, simbolo di predestinazione (o forse solo il biondo riflesso dei miei capelli?). Vorrebbe tenermi ancora con sé, insegnarmi qualcosa dello sciamanesimo, ma sento che quel mondo fumoso non mi appartiene e mi congedo attraversato da una forte inquietudine. “So che scriverai di me” - mi redarguisce con affetto sulla soglia-“ma non so come. Ti dico solo che ci sono troppe cose che ignoriamo reciprocamente e l’ignoranza non é mai buona”.

Da MOSCA A PECHINO/5




I SEMEYSKIE E L’ERESIA

Farsi il segno della croce a Tabargatasay, un paesino di coloratissime case di legno a 70 chilometri da Ulan Ude, può scatenare forti polemiche. In quel gesto è infatti raccolta l’essenza di una lotta che dal 1764, anno in cui lo zar Alexej Michailovich causò con la sua riforma cultuale lo scisma della chiesa ortodossa, separa i Semeyskie (o Vecchi Credenti) dal resto del mondo cristiano.
“Il segno della croce si fa con due dita tese e non tre – puntualizza Anja Mironova, una delle ultime discendenti dei fedelissimi che dovettero riparare nell’estrema Siberia per sfuggire alle persecuzioni di Mosca – così pretende l’originale tradizione greca; la divinità si onora con un doppio e non con un triplo alleluja, sul tavolo eucaristico si posano sette pani e non uno”. L’elenco delle formule liturgiche in voga fra i Vecchi Credenti è talmente ampio e sconfinato, che ormai ognuno di questi abitanti rimasti saldamente ancorati allo stile di vita del XVIII secolo, crede di essere in possesso dell’ultima parola. Ne sono tanto convinti, che molti di loro furono disposti a farsi mozzare il pollice pur di non modificare il proprio rito, ma visitando altri loro insediamenti quali Bolshoy Kunaley o Desyantnikovo, si incontra persino chi ritiene santo cibarsi solo di latte (i Molokiani), perché nella Bibbia si parla del “latte del Verbo”, chi prega sospirando in onore dello Spirito Santo, chi si taglia mammelle e testicoli (gli Scopcy) per raggiungere la santità. E’ un mondo affascinante e malato al tempo stesso, dove sorbire una zuppa d’orzo in compagnia dei locali non significa semplicemente onorare un rito d’ospitalità oggi in estinzione, ma aprirsi ad una dimensione culturale pervasa di misticismo e paganesimo. Proprio qui si può ancora assistere, nel giorno di mezz’estate, alla celebrazione di Ivan Kupala, personaggio leggendario in onore del quale uomini e donne si appartano nei boschi per praticare riti orgiastici di “purificazione”.

lunedì 1 settembre 2003

Da MOSCA A PECHINO/4




LA RINASCITA DEL BUDDHISMO

E’ davvero strano che i monaci buddisti, tanto sdegnosi nei confronti della parola, accolgano a braccia aperte i giornalisti. Evidentemente il proselitismo non è solo prerogativa delle religioni classiche, ma anche di chi ha rischiato di essere spazzato via dalla storia e solo oggi si accorge di quanta importanza possa avere l’eco della comunicazione di massa. Una comunicazione che in Russia viene tuttora monopolizzata dal governo e dalla chiesa ortodossa, pronti a spalleggiarsi nel soffocare una rinascita culturale dagli effetti etnografici destabilizzanti.
“L’interesse per la filosofia sembra più una moda che una scelta di vita in Occidente – polemizza Andrej Sandanov, lama di un monastero nei pressi di Arshan – visto che ogni battaglia per il Buddhismo e per la libertà di culto viene combattuta a livello internazionale quasi esclusivamente a favore del Tibet, portato alla ribalta da film come “Sette anni in Tibet” e da vip convertiti. Qui in Buriatia stiamo vivendo una fioritura ineguagliabile rispetto ad altre aree del mondo, ma non c’è un giornale o una televisione che ci dedichi un servizio”.
Nelle parole di Sandanov, un ingegnere che ha scelto di abbandonare pompe e circuiti per una vita di meditazione, risuona la rivendicazione di un diritto alla parola troppo a lungo messo a tacere dalle purghe staliniane. Prima dell’avvento al potere del georgiano, in Buriatia si contavano 46 alti monasteri (datsan) e circa 150 templi: in maggior parte distrutti, solo una risoluzione del Commissariato del popolo sovietico permise che il culto sopravvivesse nella sede di Ivolginsk, dove il 3 maggio del 1945 venne inaugurata “La ruota dell’Insegnamento, che porta felicità ed è piena di gioia”, cioè quel che oggi viene riconosciuto come il monastero madre del Buddismo siberiano. Proprio qui, fra le varie ricorrenze culturali, si celebra ai primi di luglio l’hural dedicato a Maitreya (il Buddha del futuro), una colorata processione per le campagne della zona che esibisce al popolo la statua consacrata al saggio.
“Stiamo ricostruendo e restaurando i vecchi datsan – aggiunge Sandanov – ora tornati ad essere circa una trentina, sotto la cura di cento lama, ma il governo non ci consente di avere una forma di organizzazione interna tale per cui la nomina del lama supremo (Chambo lama) possa dipendere solo dai lama eletti dal popolo, e non dal popolo stesso, manovrabile secondo gli interessi di Mosca. Siamo tuttavia fiduciosi che la nuova scuola di buddismo aperta ad Ivolginsk dal 1991 (anno sino al quale i lama si formavano solo in Mongolia) possa creare legami più solidi col tessuto sociale”.

Da MOSCA A PECHINO/3




LA STAMPA CHE TACE

Anni di giornalismo in Brianza e in Europa contano poco quando ci si confronta col mondo della stampa russa. Sul numero della rivista “Vokrufsveta”, pubblicato lo scorso luglio, era apparso un articolo di poche righe, che denunciava l’imminente costruzione di un centro per lo stoccaggio di materiali radioattivi, a pochi chilometri dalla città di Irkutsk, sul lago Baikal. Occasione troppo ghiotta perché potesse cadere nel vuoto; eppure in Occidente la notizia non è mai filtrata, mentre ha risvegliato in Siberia le vecchie voci critiche già scagliatesi negli anni '80 contro i progetti aboriti del Pcus. Convinto ad approfondire il caso da alcuni residenti di Irkutsk, che mi avevano fatto notare come la tutela del Baikal fosse compito di chiunque, in quanto patrimonio dell’Unesco sin dal 1996, prendo accordi con l’associazione ecologista “Baikal Wave” onde raccogliere materiale in esclusiva per la stampa nostrana. Lascio dunque i miei dati, in attesa di essere ricontattato dal responsabile alle relazioni pubbliche. Il giorno successivo si fa però vivo un rappresentante dell’Istituto per i Sistemi d’Energia d’Irkutsk, che saputo da un conoscente della mia intenzione di sviluppare interviste sul tema, mi propone un incontro dove possa trovare spazio anche l’opinione dei non-ecologisti.
All’appuntamento scopro che l’ufficio indicatomi si trova all’interno di un casinò, nel quale mi stanno attendendo sei persone non certo vestite in giacca e cravatta, dall’aspetto assai poco rassicurante. Entro nello stanzino rassegnandomi alle stranezze russe, senza accorgermi che la porta alle mie spalle viene chiusa a chiave. Inutile ribadire che sono un giornalista de “il Cittadino” di Monza e Brianza: i russi sono convinti sia un inviato del Moscow Times (una delle testate locali scritta in lingua inglese, la stessa che io parlo con loro) pronto a sollevare un polverone su un progetto “ancora in fase di definizione” e che “muove grandi interessi”. Il mio referente parla giochicchiando con un coltellino e mi sconsiglia di andare oltre, cosa che accetto supinamente, ma che non mi risparmia un pesante pugno dissuasivo nello stomaco, a fine discussione. Più tardi scoprirò come la stessa sede della “Baikal Wave” fosse stata perquisita il 22 novembre scorso dagli agenti dell’Fsb (i servizi segreti eredi del Kgb), poiché colpevole di possedere “una mappa che mostra le concentrazioni di uranio nell’acqua, attorno alla centrale elettrochimica “Angarsk” (l’affluente primo del Baikal), riconosciuta top secret dal governo, secondo un documento superato risalente al 1942!
Mentre le sorti del più grande bacino d’acqua dolce del mondo vengono giocate in segreto fra il Ministero per l’Energia Nucleare e la compagnia petrolifera Yukos, minacciando un ecosistema unico per forme di vita, purezza ed antichità (25 milioni di anni), l’unica voce di denuncia si leva da queste pagine.

DA MOSCA A PECHINO/2




LA BRIANZA, UN MODELLO PER LA BURIATIA

Helena Ekinekova, ultima vincitrice del concorso di bellezza siberiano “Kto na sviete sviech mileie”, ha studiato alla Facoltà di Economia dell’Università di Irkutsk una disciplina singolare: nelle lezioni di Storia dell’economia da lei seguite era infatti previsto un approfondimento sullo sviluppo dell’autonomia delle imprese e delle sfere d’iniziativa privata durante la Perestroijka, che prendeva a modello le piccole-medie aziende e le radici contadine del territorio brianzolo. Insomma, come riproporre la Brianza in Siberia. Un argomento che suona surreale viste le dimensioni della regione asiatica, ma che se contestualizzato nella realtà e nella storia della Buriatia (la “repubblica agricola” del distretto di Irkutsk) trova una sua inoppugnabile coerenza.
“La Buriatia copre una superficie di circa 350mila chilometri quadrati – spiega la stessa Helena – distendendosi attorno all’area nord orientale del lago Baikal, al di sopra del confine con la Mongolia. Famosa soprattutto per le ricchezze legate alla caccia, questa regione è stata una delle poche a mettere in pratica le nuove opportunità offerte dalle riforme gorbacioviane negli ultimi anni dell’Unione Sovietica. Quel che oggi rimane dell’esperienza vissuta, sono solo le carcasse arrugginite dei sovkohz e dei kolkhoz abbandonati sull’onda entusiastica della libera iniziativa”.
Da sempre strenui difensori delle proprie origini nomadiche di stampo mongolo, i Buriati avevano scorto nelle leggi del 19 novembre 1986 l’opportunità di frammentare la proprietà comune della terra, che avrebbe dovuto rappresentare il capitale di partenza per istituire su di esse piccole-medie aziende a conduzione familiare, fissando autonomamente i propri indicatori economici e venendo autorizzati a stringere relazioni “orizzontali” con altre imprese, senza passare attraverso le fila burocratiche del Gosnab (l’ente di pianificazione delle imprese).
“Le ragioni del fallimento sono molteplici e complesse – riconosce ancora Helena – ma vanno anche imputate alla scarsa informazione sul progetto, che solo a partire dagli anni ’90 ha iniziato a divenire più chiaro alla luce dei legami instauratisi a Mosca fra l’establishment economico russo ed associazioni quali Vera Brianza, che ha esportato insieme ai prodotti locali anche idee più chiare”. Un messaggio filtrato sottilmente lungo la Siberia, per sbocciare ad Irkutsk avvolto nell’aurea del leggendario. Fatta eccezione per la capitale Ulan Ude, dove continua a svettare in piazza la più grande testa di Lenin del mondo (alta ben 5 metri), la Buriatia ha festeggiato quest’anno il suo 80° dalla fondazione nella completa amnesia del passato: i suoi 250 mila abitanti vivono per lo più a cavallo sulle montagne della zona, traendo sussistenza dall’allevamento del “sarlik” (un incrocio fra la mucca e lo yak), vendendo frutti di bosco sulle strade a lunga percorrenza, e ridando vita ad antiche forme di comunità agricole simili più all’obs_ina d’epoca zarista, che alle proprietà su cui è stato costruito il miracolo brianzolo. Una regione bucolica e fuori dal tempo, su cui gravano le mire dei dotti petroliferi che la Yukos oil intende far scorrere nella bellissima valle di Tunka, in direzione della Cina.

DA MOSCA A PECHINO/1




IL MITO DELLA BRIANZA FRA TRANSIBERIANA E TRANSMONGOLICA

“Italiansky journalist?”. A pochi chilometri da Perm, uno dei migliori punti d’osservazione Ufo nell’ex Unione Sovietica, l’incredula domanda di Ivan accende improvvisamente una scintilla fra le sferraglianti carrozze della Transiberiana. “E di dove, esattamente?”. Silenzio assoluto. Cento occhi sono puntati sulla mia figura: “Biassono, Brianza”. Tradito dall’imbarazzo, cerco subito di correggermi, conscio del fatto che nemmeno il più afferrato geografo siberiano potrebbe mai essere al corrente delle vicissitudini di un’appendice nostrana. Troppo tardi: la festa è già cominciata. In men che non si dica la pingue “provodnitza” dai capelli rosso bolscevico, ovvero l’addetta al controllo e alla pulizia del vagone, zampetta giubilante verso la mia brandina con una bottiglia di vino in mano.
“Caldirola di Missaglia!” - scandisce con un accento inquietante. “Brianza, da?”. Al mio sorriso rassegnato, il sorriso di un filosofo in fuga vacanziera da qualunque germe d’Occidente, il tappo sbotta in segno d’amicizia e libera in coppe improbabili il purpureo nettare di Bacco. “Sa sdarovie! A Biassono e alla Brianza!”, urlano i miei compagni di viaggio, diretti anch’essi alla lontanissima Irkutsk e provenienti dai più remoti lidi di Russia: Novgorod, Sergiev Posad, Vyatka.
“Porta il nostro saluto alla tua splendida terra!” aggiunge ancora Ivan, mischiando con scioltezza dialetto tartaro e arditi anglismi – “e se scrivi un articolo sul tuo giornale, dì che i brianzoli sono accolti a braccia aperte, qui! Hanno dato tanto alla Russia”.
Scolo il bicchiere d’un fiato, pensando a quanto veritiere fossero le parole di Bulgakov: “I manoscritti non bruciano” - aveva sentenziato lo sfortunato giornalista nel suo capolavoro, “Il maestro e Margherita”, così come le proprie radici. Del peso della tradizione non ci si libera mai. Soprattutto quando le coincidenze si accaniscono sull’ironia del caso. Ivan é il genero di un ragazzotto che, nel 1993, suonò nella banda del Cremlino presente all’inaugurazione di “Vera Brianza”, la kermesse di prodotti ed attività brianzole (alla prima edizione ne parteciparono ben 147) ospitata nel maneggio di Mosca. Mi spiega che, a partire dagli anni ‘90, agli occhi degli ex sovietici la regione in cui vivo ha assunto le sembianze di una sorta di Bengodi, ove la ricchezza pullula e si trova sempre lavoro.
Più mi spingo allibito nelle profondità asiatiche e più il mito della Brianza felix giganteggia. Persino ad Ulaan Baator, nel cuore della Mongolia, così come a Pechino in Cina, si fantastica attorno all’intraprendenza delle piccole e medie aziende locali o sulla vivacità artistica della zona: Khangai Dorjsouren, spigliato membro della Maca (Agenzia mongola dell’Arte e della Cultura), vuole esportare a tutti i costi nella mia regione numeri di folklore alla Gengis Kahn, gemellarsi o comunque instaurare rapporti di collaborazione col mondo della cultura italiana. Non sa a chi rivolgersi, eppure è convinto che il Milanese e la Brianza siano gli unici posti idonei. David Chen, coordinatore del Museo nazionale di storia cinese a Pechino, mi chiede invece consiglio su quali possano essere le istituzioni della mia regione interessate a promuovere scambi artistici fra gli studenti di pittura mandarini ed italiani, invitandomi a selezionare i quadri pi¿I ¿ vicini alla nostra sensibilità.
A più di dieci anni di distanza, il tramonto del socialismo reale non ha ancora estinto la sete di facili miti. Ma, d’altra parte, l’Occidente ha sempre vissuto sulle illusioni dei popoli.

TRANSMONGOLICA 2003




SCIE DI UN'OMBRA VOLUBILE

“Durch Staub und Wolkenspuren schleift der Mantel, der unsere Liebe deckte, das Riesenrad!”
(Ingeborg Bachmann)

Preludio: canto di delizia – Kultuk, tornante del belvedere, 10 Agosto 2003, h. 22.49

Sulle onde di madreperla, che addolciscono i flutti lacustri, può capitare di scorgere nelle notti di plenilunio la via per raggiungere i sogni astrali: a tratti pare candida più del latte, a tratti oscura quanto gli abissi della perdizione, ma sono solo raggi di una mente non più avvezza a voli serafici.
Nembi aureolati dischiudono universi misteriosi, ove il grido di battaglia degli stormi impazziti si stempera nel placido rollio delle foche abbandonate al gioco, mentre fronzute dita di larici e betulle salutano l’incauta danza delle anime perniciose.
Questo è il Baikal, signori miei, dai vetusti segreti e dalle sponde infinite: i suoi orizzonti dileguano nei bisbigli del vento, il suo olezzo è dolce fragranza liberata da tenero collo mai cinto da preziosi, poiché preziosi sono solo i verdi colli che si specchiano nei suoi seni, le sue rive paiono braccia protese alla dedizione di un’enigmatica dea dallo sguardo iridiscente…e allorché le labbra monteranno in tempesta per dispensarvi il bacio dell’eternità, saprete finalmente di aver ritrovato la vostra lena perduta…

Listvjanka, da un dirupo friabile; 5 Agosto 2003, h. 18.53

Si annodano desideri ai rami delle piante, senza accorgersi che nodi ancor più stretti si serrano alle nostre gole. Lo si fa utilizzando stracci o fazzoletti, lembi di una vita dilaniata dal desiderio di un’utopia, per la quale abbiamo versato ogni lacrima posseduta. Di gioia o di dolore, poco conta ormai: l’immensità del Baikal annichilisce il dramma dell’effimero, ne rende superflua la voce fuori dal coro, la rigetta sulle sponde dove gli amanti continueranno a scambiarsi invano un giuramento pallido come l’alba, o rosso come il tramonto. Non si danno vie di mezzo: è la condanna del controluce, che acceca più delle poesie di Esenin. Se non è concesso abitare le sgargianti ville dove il tintinnare del denaro si è sostituito ai suoni del violino, tanto vale riparare nelle timide dace protette dal candore delle betulle. A che serve stare su quella deplorevole soglia, che pur lasciando intravedere sgargianti insegne al neon, ciononostante condanna a palazzine dai piedi di fango? Meglio volgere le spalle al compromesso, come coloro che rimossero le tombe per far posto ai luna park: anche questa è vita, in fondo. Anche questa è la rigenerazione inscenata dal grande lago, ove ogni scoria è fagocitata, affinché sia restituita al cielo più sottile degli incensi che avvolgono la campagna nelle spire della fede. O forse nella morsa dell’alcool che, sorbito in compagnia, cela la vista di un bimbo vestito di unto e sozzume, riparatosi dalla domanda della compassione. Alziamo i calici come si alzano le braccia al cielo, urliamo più forte del sordo tramestio che ha accompagnato il battesimo dei Buriati, imprigionati in un affresco che solo la muffa del tempo riscatterà: la vita è la morte, la morte è la vita, una paziente risacca che, pur fuggendo, prima o poi ritorna…

Locanda di confine di ritorno da Arshan; 10 Agosto 2003, h. 19.37

Dove scalpitano i bradi? Quale stalla piangeranno, quando l’acida pioggia avrà stinto il loro fiero vello? Sedute ai margini della strada, le venditrici di funghi e patate hanno coscienza del tempo solo contando le vacche avvizzite che si incolonnano lungo la linea di carreggiata. Una, due, tre…se ne vanno senza speranza come gli anni della gioventù, come i camion carichi di provviste che non facevano mai ritorno ai loro sovkhoz, affinché potessero cibarsi del solo canto del progresso innalzato verso cieli senza più sole. I giri a vuoto dell’orologio hanno stancato, non giova attendere alla fermata dei bus, perché l’unica legge che non tradisce è il ricorrere delle stagioni, sempre uguali e mai in ritardo. Giungono senza proclami, non parlano di “Glasnost” e “Perestroijka”, il cui sinistro doppio senso si legge nella trasparenza dei corpi e nei trattori abbandonati alla ruggine: i loro frutti crescono a margine, nell’ombra, conservano l’ineguagliabile casualità della scoperta che trae in salvo, non somigliano a reggimenti in uniforme destinati alle imboscate di un nemico invisibile. A che servono i controlli di poliziotti che misurano il tasso d’ebbrezza, facendo spirare l’ultimo afflato in un cappellino pieno di buchi? Perché multare le auto che sono tornate a danzare fuori dalle righe? E’ inutile scimmiottare un passato dal muso duro, tradito dalla meschinità di chi non riconobbe in esso il sacrificio dell’egoismo, ma solo la minaccia dell’innovazione; inutile ridare vita a templi dai colori stridenti, che promettono solo parole e discendono dalla stessa radice che riempie l’aria d’allucinazioni: gli arcobaleni sono inimitabili, tanto nella loro vertiginosa salita, quanto nella loro inarrestabile caduta.

Buyan Tugad, picco del falco gentile; 13 Agosto 2003, h. 16.46

Comunque sia, viene il momento di dire basta. L’impervia vetta degli Sciamani non ha la sfacciataggine di santificare i suoi adepti, ma lascia dispiegato il percorso al passo di chiunque. Sarà poi un tacco troppo alto, un sedere troppo gonfio, o una volontà troppo fiacca a gabellare con la cecità della piana chi ha scelto la via della parola facile. Non c’è un sentiero da seguire, così come un tesoro da insidiare: si può vagare per ore lungo pareti che non offrono appigli alle scusanti, finché sedere sulle labbra spalancate di una caverna vuota non rivelerà da sé lo stupore dell’altitudine: perché mai le maglie del senso prendono forma nel prendere distanza? Non commettiamo forse un peccato di trascendenza, rifiutando di ammettere che i nostri polmoni posso respirare aria fresca anche nella calca, ove ci si può facilmente abbandonare alle profumate scie della rosa dei venti? Fu forse questo il segreto invenuto dalla fanciulla buriata che, sedotta dai raggiri dei mercanti, lasciò ai declivi della roccia l’eternità della sua disperazione, ma anche il monito della leggerezza: attanagliati dal peso di un’inesauribile gravidanza, dimentichiamo di essere noi le litanie affidate al vento, gli idoli dai lunghi lobi riposti nei vernacoli silenti, la realtà che si specchia nelle malinconiche leggende. La malia della caverna è infida quanto Platone, astuto medico dell’anima, pronto ad assassinare i padri del passato per instaurare il regno delle luminose ombre: ma a dispetto del loro flautista, queste continuano a dimenarsi attorno al fuoco nelle notti di primavera, udendo solo il tamburo che spezza il cerchio del sacro oboo e seguendo un ritmo sconosciuto all’umano orecchio.

Ulan Ude, all’ombra della ghigliottina; 14 Agosto 2003, h. 8.03

Lenin è rimasto l’unico con la testa sulle spalle. O meglio, sul granito, visto che è stato decapitato; perché nella capitale buriata gli autobus dai pochi bulloni corrono verso un traguardo che, nonostante l’entusiasmo della fuga, si rivela poi essere la stessa partenza, mentre i passanti dagli occhi a mandorla credono di essere slavi scuriti soltanto dallo smog della civiltà. Sembra di vivere in un carnevale fuori stagione, col solo difetto che nessuno è consapevole delle maschere indossate: le insegne celebrano 80 anni d’indipendenza, ma sono solcate da fenditure che non vogliono aprirsi, così come i palazzi dipingono sulle loro pareti un cammino mano nella mano rifiutato dai matrimoni dell’orgoglio orientale. L’ortodossia non è semplicemente fatta di linee rette, perché quando queste si sovrappongono al di fuori delle decorazioni sulle yurta, generano labirinti da cui è impossibile uscire: l’indecisione diviene ambiguità, sollevando il sospetto che l’impero cosmopolita fosse abitato solo da parassiti di differente razza, capaci di divorarne subdolamente le braccia e le gambe, affinché la mente non potesse nuocere. Scarni poppanti vengono così unti fra un vagito ed una sghignazzata, rivelando la tragica ironia di un popolo che continua ad abbeverarsi dal samovar benedetto di una chiesa costretta a risorgere dalle proprie ceneri: voltafaccia del mercato umano, pronto a vendere tre rotoli di carta igienica su uno sgabello stitico, mentre tre scatolette roteano sotto gli occhi dei creduloni, abbagliati dalle scommesse del capitalismo.
Tabargatasay, palchetto cigolante; 14 Agosto 2003, h. 11.58

Benvenuti al cimitero. L’unico segno di vita nelle terre dei Vecchi Credenti è l’azzurro che ne ravviva le case e le tombe, quasi a voler dissolvere la distanza mediante cui l’uomo è stato separato dal cielo. Non ci sono insegne che demarchino il passaggio dal lecito all’eresia, ma l’occhieggiare dalle finestre socchiuse induce ad avvertire tutta l’intrascendibile estraneità del proprio. E’ vero, l’ospite viene accolto con una zuppa di orzo ed il sorriso sulle labbra incredule, eppure nessuno siede a tavola insieme, così come non ci si informa di quanto i giornali o gli strilloni hanno smesso di annunciare da quasi trecento anni. Un muro invisibile respinge la storia ed il tempo, senza per questo negar loro il passaggio: è una tolleranza sinistra, perché non pretende di mettere a confronto, quanto piuttosto di ricercare per conto proprio la verità, estintasi nel momento in cui la sacralità della liturgia si riconobbe umana. Ogni decorazione smentisce la successiva, ogni tabernacolo impone sacrifici arbitrari che aizzano pensieri peccaminosi, avendo trasformato una comunità impaurita nella parrocchiale del proprio egoismo. Non saranno allora i balli negli abiti fiorati e nei canti dialettali a dissolvere la diffidenza verso l’altro, poiché azzittita la balalaika, ciascuno uscirà dal museo itinerante della cultura per fare ritorno alla dispersione dello spirito. Qualunque sforzo si persegua, Dio rimane sempre troppo lontano: e sì che basterebbe aprire gli occhi durante le preghiere e accostare i cuori quando si danza…

Ivolginsk, da un masso impaludato; 15 Agosto 2003, h. 14.02

Il dubbio vive nelle paludi: appesantisce il passo, deforma la visione nel miraggio, punge quanto le zanzare che non osano spingersi oltre gli steccati del supremo monastero buddista. Là non c’è più spazio per loro, dal momento che la filosofia si è imbellettata di proselitismo e porpora. Ma, soprattutto, è rimasta affascinata dal lindore: templi luccicanti, pagode che sanno di nuovo, il suono argentino dei capanellini venduti sulle bancarelle dei pii ambulanti. Il pensiero si è cristallizzato nelle ruote del karma che svettano sugli ingressi, mentre una pianta toccata dal maestro ha perso il diritto di cibarsi del sole e della pioggia, se non a patto di ripararsi sotto una subdola campana di vetro. E’ dunque questo il frutto della lunga lotta contro il dogmatismo staliniano? Quello di combattere il nemico ricorrendo agli stessi scudi? Viene da chiedersi che fine abbiano fatto quei monaci coraggiosi che si tagliavano i piedi per le montagne inospitali, pur di ascoltare il lamento dei cacciatori affamati, quanto il consiglio di chi non aveva parole: ora qui si insegna, si pretende che le istituzioni preservino dagli spifferi della volubilità, dimenticando che quanto ci attornia non conta assolutamente nulla, in vista del nirvana. Si è prigionieri dell’armonia, non essendo più lecito muoversi a zonzo o nel verso contrario alle lancette del tempo. Sarà per questa ragione che puntare l’obiettivo sugli indifferenti indispone: fa male vedere dove si sbaglia, così come imbarazza imporre l’obbligo dell’offerta ad anime che non devono più aver bisogno.

Suche Batora, su una carrozza abbandonata, 17 luglio 2003, h. 19.57

La gestazione dalla Russia si sconta solo dopo un purgatorio di cinque ore, durante il quale il reietto che si concede alla barbarie d’oltre frontiera avrà tempo a sufficienza per soppesare il suo affronto. Dileguati gli ultimi baracchini prodighi di cetrioli e piroshki, tardive carezze della materna premura slava, nessuno verrà a salutare la tua dipartita, lasciando la stazione preda dei fantasmi delle purghe e ossessione d’attonite eco. Quindi lo scotto; le carrozze della burbera compagnia al sapor di vodka svaniscono ululanti lungo binari lunatici, adottando una tecnica di sospetta reminiscenza napoleonica: il deserto su ogni fronte, le cui piane senza singulti respingono l’atto d’accusa allo stesso mittente, che non può far altro se non riconoscersi colpevole di un delitto mai commesso: non aver scorto nella Russia dai mille idiomi il variopinto mosaico del mondo intero.
Fortuna che la grottesca accoglienza dei cambiavalute vestiti da yankee, o la disarmante proposta di una vecchina sfuggita alla penna di Gogol, lasciano supporre che il ritorno alla vita avverrà allo stesso prezzo di quando fummo messi al mondo: in virtù di un cambio svalutato, ma proprio per questo ingombro d’intrigante ciarpame…e ad un accecante bacio del tramonto, sempre più simile ad un’alba indiscreta, è affidata la riconciliazione con la propria coscienza di viaggiatore infante.

Ulan Bataar, collina delle zanzare; 19 Agosto 2003, h. 16.37

Ulan Bataar resta in attesa di una risposta. Piombate dal cielo come insondabili presagi celesti, le meraviglie tecnologiche non funzionano neppure coi libretti d’istruzione: i telefoni a pile tenuti in grembo da fanciulle che offrono ovunque chiamate internazionali restano inutilizzati, proprio come i luccicanti pub dove i dj cantano da soli sotto l’eco della pioggia di novembre. Qualcosa si è rotto in modo definitivo nell’imperturbabile equilibrio del suyombo celebrato sulla collina della città, trasformatasi in una moderna fortezza dispersa nel deserto dei tartari: nel sacro simbolo mongolo la forza dello ying ha prevalso sullo yang, dando a Gengis Kahn il potere di fare terra bruciata attorno ai suoi eredi, nonostante l’incalzare dei secoli. Fuori dal mondo, i mongoli si sono illusi che le distanze fra le ger taciturne potessero essere accorciate solo improvvisando strade o ponti, o ribellandosi al principio sovietico delle chiamate a raggio interdetto. Ma la verginità non ha mai troppe parole da spendere, perché vaga nuda per le piane argillose del Gobi, così come presso i laghi trasparenti, mossa da un desiderio di carnalità che travalica ogni mediazione. O tutto o nulla, o dei o bestie. Il destino di questo popolo è scritto nelle buie stanze in cui l’erotismo scultoreo di Zanazabar celebra la morbosità dell’unione ad incastro, nel folle tentativo di assorbire l’altro in se stessi sino a strozzarsi vicendevolmente. Lo si vede nell’asfissiante insistenza dei passanti, pronti a seguirti sino allo sportello della dipartita, pur di mendicare una banconota con la quale vorrebbero annientarti in quanto invasore; nei perenni inseguimenti delle danze accademiche, ove non c’è mai incontro ma soggiogazione; nelle pagode sdentate che, nonostante l’età, impongono la gobba dell’umiliazione. Si può vincere anche da sconfitti: ecco l’ultimo urlo del più grande guerriero della storia.

Erenhot, cuccetta infetta, 22 Agosto 2003, h. 1.05

Cambio delle ruote! La suprema invenzione dell’uomo delle caverne ha perso d’un sol colpo la sua universalità. In Cina ci sono regole che non fanno testo, proprio come i pittogrammi infissi sulle pedine di una scacchiera attraversata dal fiume dell’oblio: i binari su cui viaggia il logocentrismo non sono più paralleli, ma divergenti verso tonalità mobili che moltiplicano i significati di una stessa parola per i gradi misurati dai termometri laser nelle mille cuccette dell’incognito. Come il nemico si annidava un tempo oltre la grande muraglia, mortale serpe che ha soffocato i celesti imperatori, così oggi invisibili batteri si celano sotto il muro dell’indifferenza turistica; ma la legge dello sbadiglio non ha mai funzionato nel paese di Mao, se non quando il suo volto ha iniziato ad essere impresso sulle magliette in partenza per i lidi di una Babilonia incredibilmente tradotta.

Palazzo d’Estate, promontorio della longevità; 23 Agosto 2003, h. 16.39

Mettere a fuoco la vanità dei sollazzi imperiali è molto più difficile di quanto supposero gli alleati anglo-francesi, quando lanciarono le proprie torce nelle stanze tapezzate dalla carta di riso. Il riso, infatti, non è solo un buon combustibile dello spirito, ma anche l’ironica saggezza con cui l’Oriente tollera i colpi di testa dei propri figli. Il loro mettere a fuoco passa per le fiamme o per gli occhiali, imposti niente meno che a quell’imperdonabile sognatore di Pui Ly, l’ultimo imperatore capace di scorgere nell’abbraccio dei tronchi di cipresso la fedeltà delle anime in volo verso l’amore eterno: l’intreccio delle code dei draghi. Ma la miopia è un difetto esclusivamente per chi rifiuta di sognare, per chi non comprende i giochi d’ombra cinesi, per chi ha dimenticato come viaggiare lasciandosi blandire dal meriggiare dei tè, senza avere la pazienza di attendere lo sbocciare di una seconda vita nelle foglie secche del bambù.
Gli impercettibili sorrisi delle statue di Buddha sono dispensati a quanti non capiscono le virtù di una nave di preziosi costretta a non levare mai vela dal proprio specchio illusionistico, che dispensa i brividi dei sette mari nella vibrante atmosfera dei giardini dagli armoniosi piaceri: sono scatolette scoperchiate mai completamente vuote, ma che dentro di sé contengono infinite altre scatole che si succedono come gli scenari di quell’eterno teatro, imposto dall’ultimo atto dispotico in lotta contro l’oppio del progresso.

Piazza Tianamman, sottopassaggio intasato, 24 Agosto 2003, h. 21.09

Attenzione alle patacche! Non sono solo gli accendini con l’effigie di Mao o gli shampoo che cambiano prezzo a seconda del resto a sollevare dubbi sull’autenticità della Cina d’oggi, ma le strizzatine d’occhio delle lampadine sugli imbolsiti mausolei rivoluzionari sono più ambigue delle avance sussurrate nella penombra degli hutong popolari. Almeno qui si baratta la propria vita per onorare il secolare buon nome di famiglia, mentre sulle autostrade cittadine il motto scandaloso di Deng Xiao Ping ha davvero infranto ogni limite di velocità. “Diventare ricchi non è una vergogna”: già, ma a quale prezzo? A furia di sperperare illusioni la Città Proibita si è fatta violentare dagli eunuchi di corte ed ora svende ai flash degli egocentrici la sacra alterigia dei suoi troni tempestati di giada. Nonostante i suoi stratagemmi matematici, la prova del nove si è rivelata letale per il tempio del cielo e l’eco della perfezione si è infranto nell’aria proprio come gli sputi imposti dal buon costume confuciano.
Una nuova rivoluzione culturale è in atto, ma nessuna guardia rossa se ne cura: è più importante mostrare al turista timoroso l’abilità acquisita nel passo d’oca, che chiedersi dove sia mai finita la meta di questo gioco dalle ossessive spirali e dov’è sacrilegio alzare la mano sul proprio passato, ma non sulle donne che la Lunga Marcia riscattò dall’infamia feudale. Urge più che mai una pillola contro la natalità scriteriata di idee bastarde.

Iperuranio bielorusso, dall’oblò di un Tupolev, 26 Agosto 2003, h. 9. 36

…e le nuvole sono tornate a diradarsi, benché al di sopra di qualsiasi turbamento il cielo non abbia mai smarrito il lindore dell’azzurro sapiente. La coltre più fitta, che soffoca il nostro anelito nel tedio uggioso rapendolo alla pienezza del vuoto, si è rivelata solo evanescenza, vapore mistificatorio pronto ad ottenebrare l’occhio, ma impotente contro gli spasmi ribelli generati dalla nausea sedentaria. Osare, osare anche quando tutto è perduto, ecco l’unico comandamento che le sacre tavole hanno scordato di scolpire in esergo: non bisogna temere di affondare le mani laboriose nell’etere appesantito, perché la pasciutezza dei nembi è solo fertile terreno per i fiori della fantasia, che sbocciano come arcobaleni sotto inquiete ali migratorie.
Ma quanti balzi dovrà spiccare l’ingenuità, prima di riconciliarsi col cielo? Sostrati invisibili prendono forma nelle pieghe del pensiero e le vie di fuga si rivelano assai spesso vicoli ciechi pronti ad inghiottirci e a vomitarci in acidi temporali. Forse conviene lasciarsi precipitare a peso morto, senza appellarsi alla meschinità di un paracadute che scimmiotta l’ardore dell’aquila, perché nell’ineguagliabile brivido dello spiffero iperuranico rinverremo certo la giusta proporzione per allungare il passo. Che poi sia corsa, danza o fanciullesca passeggiata, poco conta! C’è sempre tempo per indovinare il nome del nostro demone…