"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

martedì 23 marzo 2010

LA CITTA’ CHE ATTRAVERSO’ L’ATLANTICO




Mazagaõ c’è, ma non si vede. Anche se si scrutasse per ore la cartina del Marocco. Nota un tempo per essere la più inespugnabile roccaforte portoghese in terra d’Africa, oggi vaga nella memoria come uno spettro senza requie. Al suo posto si trova El Jadida, “la rinnovata”, ma il nome affibiatole nel 1821 dallo sceriffo Sidi Mohammed ben Ettayeb è ben lungi dal dire ciò che fu veramente. Se il governatore della regione di Doukkala ne fece infatti ricostruire le possenti mura di cinta e restaurare le rovine, permettendo ad un colonia ebraica e alle tribù berbere Oulad Douib e Oulad Hassine d’insediarsi al loro interno, la città odierna non è però sfuggita al suo ineluttabile destino: lo sdoppiamento. La lacerazione.
Da una parte, appunto, scricchiola l’eroica roccaforte portoghese, sdegnosamente asserragliata dietro i suoi ricordi, con gli occhi puntati verso l’oceano e il cuore tradito a Lisbona. Riverbera di un bianco sporco, simile a quello di una pagina di registro frettolosamente cancellata, eppur gonfia d’orgoglio fidalgo per l’ultimo titolo nobile riconosciutole nel 2004: quello di patrimonio mondiale dell’Unesco.



Dall’altra il moderno agglomerato di una tipica città marocchina di provincia, cresciuta all’ombra di Casablanca – appena 96 chilometri più a nord – ma, nel bisogno, inesauribile magazzino del Regno, con bazar traboccanti di mandorle, fagioli, granoturco o lana d’ottima qualità. Tutti prodotti messi facilmente a disposizione dall’entroterra della regione, affascinante teoria di sperduti villaggi agricoli ed oasi naturali che, da un momento all’altro, paiono dover soccombere all’arsura della terra. In fondo non molto è cambiato dai gloriosi giorni in cui cristiani e mori si fronteggiavano sulla costa, sedotti i primi dalle ingenti ricchezze che le tribù nomadi del deserto veicolavano dal cuore d’Africa, esaltati i secondi dal sogno di cancellare l’ultima onta di una Reconquista azzardatasi troppo in là. Di rimuovere la “pietra dello scandalo” che ancora impediva l’unità dell’Impero degli Sceriffi: la nascita del Marocco moderno.



Chi arriva da Casablanca, oggi, ha solo fretta di scendere molto più in giù, verso le acque cobalto d’Essaouira, o comunque d’infilarsi sulla strada che in meno di due ore porta all’ipnotica Marrakesh.
La moderna El Jadida brulica però di donne tinte d’henné, penetranti profumi di ras-el-hanout (un mix maghrebino di quindici spezie ideali per non scordar più il cous-cous) e delle immancabili urla dei venditori di tappeti. Al contrario, la cittadella di Mazagaõ è un labirinto di vicoli ombrosi, sguardi rubati dietro le persiane dai colori stinti, calcinacci divorati dal peso dei secoli.



Nonostante il tentativo di riadattarla allo stile di vita dell’illuminato sceriffo, il laboratorio multiculturale che avrebbe celebrato i fasti del Marocco sovrano cedette presto al feticismo del protettorato francese: dopo nemmeno cent’anni di faticosa ricostruzione, durante i quali fu addirittura concesso ad alcune famiglie europee di abitare le antiche case portoghesi, l’opera di Joseph Goulen finì per imprigionare la città nella sincope di una cartolina da collezione: il suo “La place de Mazagan sous la domination portugaise, 1502-1769”, pubblicato nel 1917, ridiede improvvisamente valore a quel che sino a poco prima era stato occultato a fatica, ne fece un museo a cielo aperto e senz’anima, a discapito di un modello di società ove – per la prima volta - il riscatto personale aveva potuto far leva sulla sola forza del proprio ingegno. Per Sidi Mohammed ben Ettayeb non era stato facile avviare il progetto: una sua prescrizione del 1827 invitava addirittura gli europei a “vestirsi alla maniera degli israeliti, per non fomentare l’animosità degli indigeni, che conservano un sanguinoso ricordo della dominazione portoghese”.



Mentre le corone del Vecchio Continente s’affannavano a spartirsi il mondo a tavolino, il cielo di El Jadida già raccoglieva sotto di sè antiche chiese cattoliche, una sinagoga ed una moschea unica al mondo: la torre del Rebate, da cui un tempo il governatore portoghese José Vasques Alvares da Cunha aveva atteso spasmodicamente aiuti dalla Madrepatria, era stata infatti riadattata a minareto. Tuttora è il solo di forma pentagonale nel mondo islamico, nonché il simbolo cardine della cittadella, visibile ovunque ci si trovi. Merlettato in giallo, con feritoie di un verde accesso, è un inno alla debordante luminosità dei colori marocchini, che tanto hanno stregato i pittori impressionisti e le pagine dello scrittore Driss Chraibi. Non a caso in Rua da Carreira, vicino al punto dove un tempo i giocatori d’argolinhas tentavano d’infilare anelli al galoppo con le proprie lance, una targa ne segnala la casa natale.



Ben altri interessi avevano i colonialisti francesi, alla ricerca di spiagge esotiche per i ricchi possidenti d’Oltralpe e Mazagan, prontamente ribattezzata con accento parigino, offriva loro la miglior baia protetta del Marocco, eleganti strade ciottolate, il riverbero di una forza che piano piano stava svanendo dalle vene del vecchio Impero.
Fra utopie universaliste e spocchiose rivendicazioni d’orgoglio, a nessuno mai fu però concesso di dire cosa fosse davvero accaduto dopo il fatidico marzo 1769. Perché comunque la si voglia declinare, Mazagaõ continua ad essere pervasa da un’inspiegabile senso d’attesa.



Lo si nota dagli anziani che siedono davanti all’antica cisterna portoghese. Sono lì, dal mattino alla sera, con gli occhi sgranati sui passanti, vinti dal ritmo sonnacchioso della cittadella. Forse ancora memori di quei giorni in cui le spettacolari arcate sotterranee, nei loro inganni prospettici e dietro i giochi di luce filtrati dalla strada, esaltarono le cineprese di Orson Wells, al lavoro sul suo indimenticabile Otello. O forse increduli per il fatto che, nel giorno della fuga dei portoghesi, lì dentro non avessero trovato alcuna delle favolose ricchezze di cui si vociferava, bensì solo panche distrutte, cavalli azzoppati, riserve mandate a male. Salendo verso il palazzo del governatore, un forte nel forte, cannoni arrugginiti cercano invano un nemico su cui scaricare la propria rabbia, mentre giovani amanti si danno appuntamento sulle loro bocche silenti. E’ il punto più alto dei bastioni, quello da cui si possono rimirare le decine di barche dei pescatori abbandonate nella baia, o confinate nell’attigua marina per rinfrescarne le tipiche striature rosse.



Ma è la possenza delle mura, larghe undici metri ed alte quattordici, ad avvincere lo sguardo: sono l’esempio più insigne d’ingegneria militare in voga nel Rinascimento, il colpo di genio dell’architetto italiano Benedetto da Ravenna, che nel 1541 aveva escogitato di racchiudere le settecento case della città in una stella a quattro punte. Poggiata per metà su terrapieni, tale da apparire una zattera di pietra a cavallo fra la terra e l’oceano, Mazagaõ fu così capace di tener testa ad aggressori venti volte maggiori del contingente portoghese. Nel 1561 i mori le avevano tentate tutte pur di farla capitolare, ma alla fine erano stati costretti a gettar la spugna, convinti che nulla si potesse contro le diavolerie degli infedeli. Da allora Mazagaõ divenne una leggenda, l’irremovibile “baluardo della Cristianità”.



Sotto le fortificazioni, la Porta do Mar è ancora funzionante: con le sue inferriate cigolanti, non ha mai smesso di regolamentare il traffico di provviste che giungevano al salir della marea; i bimbi che balzano da un lato all’altro del cancello sembrano però divertirsi solo a scimmiottare la subdola fuga dei soldati che nel 1769 furono inspiegabilmente traditi da Lisbona.
L’oro del Brasile, all’improvviso, valeva assai più di un manipolo di fanatici. Perché un’intera generazione di nobili decaduti e qui fastidiosamente convogliati, di degradados senza più speranze se non quella di arricchirsi con la guerra, di fronteiros sballottati per le colonie dell’impero, non ebbe neppure l’onore d’impugnare le armi. Di ricevere una spiegazione, di farsi una ragione per aver mancato il solenne appuntamento con la morte e la gloria.
Furono evacuati in tutta fretta, senza sapere che la Corte li avrebbe presto destinati alle insidie dell’Amazzonia: qui, fra paludi malariche e frecce avvelenate, con vecchi e bimbi al seguito, avrebbero dovuto ricostruire la Nova Mazagaõ. Trapiantare quel cuore già lacerato, che per secoli aveva veleggiato fra Africa ed Europa.



La splendida chiesa manuelina di Nossa Senhora da Assumpsaõ venne sbarrata e da allora le sue campane sono state coperte dalla polvere dell’inedia. Le case color pastello, gialle, rosse, ocra, hanno riaccolto sparuti inquilini che continuano a guardarsi attorno con riverenza e timore. Dietro una porta scardinata potrebbe infatti balzar fuori, senza alcun preavviso, un vetusto salotto settecentesco, ma sono solo i gatti a conoscere i passaggi segreti per arrivarci. Alzando lo sguardo, le pareti dei palazzi si rivelano a sorpresa coperte di meravigliose piastrelle azulejos, mentre gli intarsi del legno si fanno caparbiamente spazio per affermare i diritti di riconquista dello sceriffo ben Abdallah. Rue Abraham Znaty tradisce una peccaminosa storia di contaminazioni e accoppiamenti meticci, di cui gli annali della città hanno espunto affannosamente il ricordo.



Troppo sangue venne versato. Troppe vite caddero in nome di Mazagaõ. “Di coloro che sono stati forti e vigorosi/ – cantava in un sonetto del 1802 il poeta Inácio Antonio da Silva – degli spiriti eroici e coraggiosi/ la cui fama fu sempre notoria/ qui, della patria riposa soltanto la memoria”. Ancor oggi lo spettacolare festival dei cavalli di El Jadida, in calendario ogni ottobre, sembra fermo al mancato scontro che le due parti si videro sottrarre dalle astuzie di palazzo.
Colpi esplosi in roboanti cariche, acrobazie in sella, la frenesia dei canti gnawà. Il nemico tornerà, prima o poi. Ma sarà sufficiente un gesto di pace, per rivelare ai suoi occhi la meraviglia di El Jadida. La città che risorse dalla proprie ceneri. La città fattasi casa per tutti coloro ai quali sempre fu negata.


CULTURE A CONFRONTO



Tre continenti, una sola città. A partire dal 2001, El Jadida ha deciso d’impegnarsi scrupolosamente nella riscoperta delle proprie radici, dando avvio ad una serie d’iniziative culturali di notevole valore. In quell’anno l’ambasciatore del Marocco approdò infatti nella remota Nova Mazagao, in Amazzonia, rendendosi conto di come i discendenti degli schiavi assegnati a profughi di Mazagao solessero riproporre, da duecento anni a questa parte, una festa profondamente ancorato nella storia della città originaria: la celebrazione di Saõ Tiago, in calendario ogni fine luglio, altro non è se non la rappresentazione dello scontro fra mori e cristiani il cui spirito rivive anche nel festival equestre di Moussem Moulay Abdellah Amghar (luglio/agosto) o del Salon du Cheval d’El Jadida (ottobre). Grazie all’appoggio delle università portoghesi e del professor Laurent Vidal, autore della memorabile biografia “Mazagaõ” (Mondadori, 2006), è stato dunque avviato il Projecto Mazagaõ () che, oltre ad aver riportato in città uno sbalorditivo docu-film brasiliano, ogni anno favorisce numerosi scambi interetnici. Fra questi, i più spettacolari riguardano i jamming musicali che in estate fondono per le vie di El Jadida ritmi sudamericani, struggenti fado portoghesi, suoni tarantolati del Maghreb e percussioni berbere.
La città marocchina, spesso congiuntamente con la vicina Azemmour, rappresenta un vivacissimo polo multiculturale dove il teatro ispano-marocchino si esalta a marzo attraverso il Festival delle due rive, in primavera l’arte umoristica dà vita al Festival del Riso, mentre a gennaio l’artigianato berbero e i riti agricoli della regione si mettono in mostra nella festa d’Amazigh.

LA SORELLA DIMENTICATA



El Jadida somiglia ad una medaglia. Se la si rivolta, è inevitabile scoprici Azemmour. Distante appena 13 chilometri, gelosamente nascosta dietro i suoi bastioni ocra, quest’antica piazzaforte fece da sponda strategica a Mazagao fra il 1513 e il 1541 (Magellano scampò in modo rocambolesco alla sua riconquista), tant’è che ancor oggi le due città riescono ad intravedersi dalle proprie torri di guardia. Ben più ricca della sua sorella, grazie all’alone mistico conferitole prima dalla tribù eretica dei Bacuates e in seguito dal mausoleo del taumaturgo Moulay Bouchaib, ebbe solo la sfortuna di non essere dotata di un porto altrettanto agevole quale quello di El Jadida. Oggi le sue spiagge sono però diventate di culto fra i surfers di tutto il mondo, che si dividono fra le incantevoli bellezze della sua medina, le meraviglie dell’arte orefice lasciata in eredità dalla fiorente comunità ebraica e il famoso festival della città, in calendario ogni luglio. A differenza delle esibizioni improvvisate per le vie di El Jadida, qui si danno appuntamento tutti i gruppi più prestigiosi della scena marocchina ed internazionale, accompagnando le loro esibizioni a mostre tematiche sul folklore della regione. Negli ultimi anni i prezzi molto contenuti delle case hanno inoltre rivitalizzato il mercato immobiliare, lanciando la cittadina come buen retiro per gli amanti delle atmosfere retrò, ma anche come rifugio d’ispirazione per pittori ed artisti bohemienne.

NEL GIARDINO INCANTATO



A distanza d’anni, Mazagao continua a sdoppiarsi. A replicarsi sotto nuove forme. Lo scorso ottobre è stato infatti inaugurato alle porte della cittadina l’enorme complesso del Mazagan Beach Resort (), la stazione balneare più moderna e lussuosa del Marocco. A ridosso di una spiaggia sabbiosa di 7 chilometri ed immersa in un bosco d’eucalipti di 250 ettari, quest’affascinante struttura di stile moresco offre ben 500 camere e suites per godere appieno delle meraviglie costiere. Di fatto rappresenta una città a sé, dove ritrovare lusso e tranquillità: oltre a disporre di un golf club da 18 buche, offre una Spa ed un hammam votati alle più antiche tecniche di benessere marocchine, senza tralasciare il gusto per il gioco: il suo Casinò conta con più di 60 tavoli e 410 macchine da gioco. A metà strada fra El Jadida ed Azemmour, il nuovo polo urbano è stato collegato via autostrada all’aeroporto di Casablanca, in modo tale da non sottrarre più di 45 minuti di viaggio. Con i suoi portoni intagliati, gli effetti labirintici degli archi di sostegno e i fuggevoli riflessi degli specchi d’acqua, sembra uscito dalle pagine de “Le mille e una notte”.

RISTORANTI

ALI BABA’
Al numero 8 della Route Principale Casablanca/El Jadida, giusto all’entrata della città, questo ristorante è da 18 anni un’istituzione della città. Specializzato nel pesce, offre insalate di mare freschissime ogni giorno, terrine tipiche d’aragosta e marinate di acciughe. L’ambiente è molto accogliente, con inserti di legno e pietra. Prezzi attorno ai 25 euro.

BELLEVUE
Come già anticipa il nome stesso del ristorante, è il posto ideale per aver un colpo d’occhio privilegiato sulla città, sul suo verde parco e soprattutto sulle sue spiagge. Si trova infatti al quinto piano di un edificio di boulevard Mohammed VI, al numero 46, e compete con Ali Babà nelle specialità di pesce. Più attento alle influenze etniche della zona, vanta nelle ostriche di Oualidia e nei calamari grigliati all’aglio due suoi indubbi punti di forza. Pasto e cena sui 20 euro.

LE SEL DE MER
Ospitato all’interno del Mazagan Beach Resort, consente di assaporare originalissimi piatti fusion delle cucine spagnola, portoghese, francese e marocchina. Da annoverare su tutti i filetti di orata reale in salsa di stufato all’arancia, ma anche il granchio sbriciolato con carote, mango e vinaigrette al limone verde. Prezzi sui 30 euro.

ALBERGHI

PALAIS ANDALOUS
Ubicato nei pressi della città vecchia e della zona commerciale, fra il 1947 ed il 1980 fu dimora del pascià e, in quanto tale, ha conservato molto del fascino molle e retrò amato dal suo illustre ospite. Fontane nei cortili interni, porticati con arabeschi, sofà a lume di lanterna. Prezzi sui 40 euro a persona.

MAISON D’HOTES DE LA CITE’ PORTUGAISE
All’interno della cittadella, nel vecchio palazzo giallo chiamato “Dar Jadida”, sono state ricavate alcune camere in stile moresco tradizionale, nelle quali il gusto per le decorazioni in maiolica e gli inserti floreali contribuiscono a creare un’atmosfera fuori dal tempo. I prezzi sono piuttosto competitivi e variano dai 25 ai 35 euro per persona.

SAMANAH COUNTRY CLUB

Per chi desiderasse esplorare l’entroterra della regione, a ridosso dell’Alto Atlante ha da poco aperto la prima struttura del Gruppo Alain Crenn in Marocco, estesa su un terreno di ben 300 ettari, 100 dei quali riservati ad un campo da golf firmato niente meno che da Nicklaus Design. Le 593 ville vantano ciascuna una vista spettacolare sulle montagne e sono costruite con la tipica pietra rossa locale, blocchi di terra pressata (bejmates), oltre che impreziosite da tappeti lavorati a mano e mobilio in legno intagliato. Da qui, Marrakesh è ad appena 14 chilometri.