"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

venerdì 30 marzo 2007

YOU NEVER TOLD ME...


Questione di omonimia? Rivalsa del borghese “piccolo piccolo” d'italica meschinità? O semplicemente perché “bello, onesto ed emigrato...”? In un modo o nell'altro, è inevitabile scivolare nel macchiettismo di Alberto Sordi, dopo essersi nutriti per troppo tempo del solo ed ammiccante “fumo di Londra”.



Neppure il tempo di posare la valigia all'Hilton dei Docklands e già le gambe trotterellano spedite verso il Tower Bridge, la lingua inizia un'impietosa ginnastica per affinare il suo biforcuto “th”, la schiena quasi s'inarca per omaggiare il primo passante che ci rivolge la parola: poco importa che questi sia un burbero minatore del Galles pronto a sbeffeggiare il nostro zainetto votato alla Union Jack; tanto a noi sembra il principe Carlo in persona nella sua fierezza britannica. Tutto bello, tutto perfetto, tutto decisamente “up”. Il bus arriva al minuto spaccato senza neppure sfiatare; sul lungo Tamigi un businessman in bombetta s'intrattiene con un pingue Beefeater; nelle orecchie risuonano le carezzevoli note di “You never told me...”, cantate dall'indimenticabile Julie Rogers.



Ebbene sì, Londra! Che sia la prima volta o la decima visita, la capitale inglese rapisce sempre allo stesso modo. Troppo altezzoso il suo incedere, per non credere che almeno una volta saremo pure noi dalla parte dei vincenti. Formidabile il suo life-style, che rende trendy persino due chiappe pallide in mostra a Regent's Park. Terribilmente sexy ed aristocratico il suo velarsi la labbra umide di rossetto, quando già odorano di ale da bassifondi.

Avanti, avanti. Non c'è tempo per sognare ad occhi aperti. In Inghilterra il tempo è più che mai denaro. Lo si capisce non appena ti avvicini al distributore automatico dei biglietti metropolitani: strabuzzi gli occhi, ridi della tua miopia, poi sbianchi d'orrore. Sono davvero 4 sterline! Un tuffo appena nelle viscere della city e già ti senti valere poco più di un escremento. Fortuna che c'è il salvagente della daily card: 5 pounds e 10 e il mondo torna a sorridere. Questa è la vecchia Inghilterra che piace: ricca sì, testardamente elitaria, ma pur sempre pronta a tendere una mano a chi vuole rimboccarsi le maniche.



Ecco. Il cuore si gonfia di commozione. E' tempo di tributare un saluto amorevole alla casa del Parlamento, dove l'accorto Cromwell tiene ancora gli occhi aperti sulla sua affilata faccia di bronzo. Due passi presso Westminister Abbey, giusto per capire come s'impugna una pipa mentre si legge il “Times” sotto le sue torri neogotiche, quindi l'inevitabile aggiustamento delle lancette da polso, al gong impietoso del Big Ben. Con discrezione, mi raccomando! Qualche solerte “bobby” in giubbetto giallo ed elmetto nero potrebbe scambiarvi per un finto suddito della Regina. Qui i petardi non vanno più di moda.

Piccadilly Circus chiama. L'ammiraglio Nelson si sta agitando dall'alto della sua colonna, perché a Trafalgar Square ognuno pensa ormai a qualunque cosa, fuorché al suo eroico sacrificio contro la flotta napoleonica. Ad Hyde Park il comizio presso lo speaker's corner sta entrando nel vivo. Urge una scelta, ferrea e decisa come quella di Lord Churchill nei tempi bui delle V2. Non si può avere tutto: o la vittoria o l'impero. O la trasgressione di Soho o i cappellini improponibili di Buckingham Palace. E via! Vada per quest'ultimo.

Incastrata nel suo bianco trono di marmo, la regina Vittoria assente più gelida che mai. Ha un'espressione tanto compita, che ancor oggi fa venir voglia di strisciarle sotto la gonna e sollevarla davanti a tutta la sua corte. Il germe del punk si annida ormai dove meno te lo aspetti, ma il passo marziale delle guardie dai copricapo simili a pelosi puff malefici, così come le affilatissime guglie dorate che separano la Corona dal volgo, esaltano una dialettica dissuasiva quanto mai efficace.

Meglio defilarsi verso St. James Park, dove i tulipani sono in fiore, le ragazze in calore e servono tramezzini al pollo cajun d'incomparabile squisitezza. Soprattutto quando sono sorbiti durante gli ultimi sbadigli del tramonto, ascoltando in sottofondo le note d'Imagine e perdendosi nell'azzurro di due occhi trasognanti.



Quando cala la sera, il Sordi in impeccabile smoking nero antracite si scopre improvvisamente figlio del “flower power”. Getta uno sguardo ai suoi formosi affetti italici e, rialzando il capo, vede infine lei. La sua Elisabeth. Supponeva vestisse ancora la divisa del college e fumasse sigarette dal tabacco dolce. Invece lavora come pr nel ristorante più alla moda di tutta Londra, il plurimilionario “Gilgamesh” (www.gilgamesh-london.com) in Camden Road, la sporca via dei seguaci di Johnny Rotten. Altro che meditazione e ricerca dell'estasi al centro vegetariano “The Window” (www.thewindow.org.uk)! Altro che delizie afrodisiache a base di coccodrilli affettati, locuste croccanti e scorpioni al cioccolato presso la cucina de “L'Archipelago” (www.archipelago-restaurant.co.uk)! Elisabeth la bella siede proprio lì, sul divanetto accanto, mentre il povero Dante Fontana è costretto a scrivere cifre e numeri, anziché tener fede al poetico lirismo del suo nome. Fortuna che le mastodontiche pareti di legno intagliato impongono una perlustrazione del ristorante, sì da comparare l'odierna maestria degli artigiani indiani con gli scalpelli sacri degli antichi Babilonesi. Passo dopo passo, lei è sempre e immancabilmente lì, accanto, vicina, vicinissima: fa domande di cortesia, aleggia nel suo attillato vestitino sixties, civetta con gli occhioni azzurri e non trova pace nella vaporosità dei suoi lunghi capelli mori. Si sfiorano, si guardano e sono ad un soffio dalla parola proibita.

Maledetto Big Ben! Quarant'anni fa i tuoi rintocchi cantavano “Time is on my side”. Oggi ricordano impietosi la partenza per la salmastra Liverpool. Time's over. A nulla valgono i burrosi biscottini Walker serviti col tè delle 5 in prima classe. Non consola neppure una fetta smisurata di cheese cake. Fuori dal finestrino inizia a piovere. “Goodbye my London town. Goodbye!”. E la pioggia si fa segreta lacrima.



Ma si sa: da una "trista" lacrima sgorga talvolta una lacrima "gaudia". Non è merito della sovraeccitata guida bionda in attesa al capolinea. Non dipende neppure da qualche candida pista sottrattale in un momento di defaillance, mentre immagina di tornare nella sua Oslo ascoltando “Ferry cross the Mersey” o “You'll never walk alone” di Gerry&the Pacemaker. Il Merseybeat ha fatto il suo tempo. Non certo il Cavern Club (www.caverncitytours.com), dove i quattro Scarafaggi più famosi del mondo si sono clonati per deliziare in eterno le nuove generazioni. Piccolo e fumoso, quasi scompare nella mastodonticità imperiale del grande porto per le Americhe: da una parte si erge sino ai nembi la gloriosa Radio City Tower, che lanciò nell'etere la British Invasion; dall'altra ruggisce l'ottocentesca Town Hall, le cui colonne neoclassiche sono vegliate nottegiorno dagli ultimi leoni d'Inghilterra; più in là i palazzi delle Tre Grazie non rinunciano alla superbia della verticalità, nonostante siano responsabili del vaglio dell'innaffondabile Titanic. Ottocento anni fanno oggi gonfiare d'orgoglio la città dei Reds e degli Scoons, che - mai doma - festeggerà pure nel 2008 la sua incoronazione a capitale della cultura europea. Eppure negli anfratti di Mathew Street, dove la statua del giovane Lennon sbircia sorniona l'ingresso al suo tempio musicale, le luci rosse delle insegne rimandano all'anima “working class” di quel che in fondo resta un affaccendato porto di mare.

Nel covo dei Beatles si respira infatti l'aria giocosa e un po' trasgressiva dal primo brit-rock, perché nelle chitarre scorre scoppiettante elettricità, mentre nelle vene delle ragazze così tanto alcool da farle roteare nelle braccia del primo che capita. Ben diverso dal vegliardo gusto feticista che si respira nei pressi del museo “The Beatles Story” (www.beatlesstory.com), dove il candido piano del poeta di Liverpool s'impolvera accanto alle uniformi di Sgt. Pepper, o ai monitor d'accesso ai meravigliosi Sixities. La testa di ponte del Mersey resta sotto sotto una città trafficona e cocciuta, abituata ad abbassare il capo come capitan Gerrard, ma solo per correre meglio verso la porta che ben cinque volte ha dischiuso il trono d'Europa ai suoi soccers. Con buona pace dei vecchi cuginetti dell'Everton.



Come non amare, dunque, la squadra di una città che ha saputo regalare ai fan dell'Inter una delle loro più grandi soddisfazioni, affondando ad Istambul i vanitosi pupilli di Berlusconi? Come non credere che qui, proprio qui, la vita possa tornare ad arridere, quando un cavallo lanciato sulle verdi corsie del Grand National Aintree (www.aintree.co.uk) è pur sempre capace di trasformare una scommessa in una miniera d'oro?

Saggezza dei vecchi proverbi: “Ride bene, chi ride ultimo!”. Se lo ricordi lo spocchioso gallese dei Docklands...

lunedì 12 marzo 2007

PENSIERI IN APNEA



C'è chi nasce corridore, anche se sul petto porta il numero 625. Forse costui non riuscirà mai a risalire la china, a scorgere il traguardo prima di tutti gli altri, a reclamare la sua inconfutabile identità sulla massa informe, ma sotto sotto non è neppure quel che cerca. Corsa e vittoria sono ben lungi dal combaciare nel vocabolario della sua vita, al di là di qualsiasi talento possieda. Anzi, talvolta il talento stesso si rivela un limite estremamente penalizzante, laddove impone l'univocità del risultato. Si distingue solo il traguardo, si pensa a scavalcare un ostacolo dietro l'altro, senza rendersi conto che non c'è conquista più grande del non farsi inquadrare in un numero, attraverso cui sia assegnata una posizione ben definita, al pari di un modo d'essere chiaro e distinto.

D'altro canto, è pur vero che il corridore non può vivere senza traguardo. Ha bisogno di dare un senso al proprio passo, altrimenti non troverebbe ragioni per resistere al peso sempre più greve delle gambe sfinite, al fiato sempre più corto che appanna la vista e ottunde l'udito, ma ancor più al bisogno di lasciarsi alle spalle un'immagine di sé entro la quale ha smesso di riconoscersi.

Non può essere il percorso stesso, che nel suo snodarsi consapevole conserva in sé qualcosa di velenosamente coercitivo; non può essere neppure lo sguardo d'ammirazione rubato al tifo, tanto volubile e distante, perché sempre a caccia di un gesto che faccia sognare. Un giorno è un sorpasso prepotente, un altro una caduta rovinosa.

No, il traguardo è quanto ci si lascia alle spalle, si riconosce nel momento dello stacco, quando la consapevolezza di aver oltrepassato ciò che ritenevamo impossibile, diviene improvvisamente l'urlo dell'evidenza. Questo traguardo non ha però un luogo dove situarsi, né si presta ad essere “previsto” o “ricercato”: è un sentore di desiderio, che invita alla nomadicità della corsa e all'infedeltà della passione.

Ma alla fin fine, viene da chiedersi, perché mai correre, anziché camminare? Chiedetelo al vento, quando scioglie i capelli e fa bruciare il sudore negli occhi. Chiedetelo al vostro corpo, quando aleggia sul terreno e avverte il brivido dei cieli dischiusi. Chiedetelo ai libertini, quando fremono per uno sguardo senza veli, mentre passeggiano a braccetto; perché se mai è dato dire che cosa sia il piacere della corsa, ebbene questo è il piacere dell'abbandono: cura di una carezza, che indugia nello scivolar via.

Così si chiude dunque la mia partecipazione alla 21esima edizione del trofeo brianzolo di corsa campestre: ho macinato 6 chilometri per 6 sabati, ho lottato contro il tempo che si fa età, ho inseguito un avversario che non ha tenuto infine il mio passo, ma soprattutto ho ripetuto nei silenzi della mia fatica l'unica verità cui resterò fedele sino a quando avrò la forza di correre: “che tutto un giorno possa crollare, che niente e nessuno mi faccia capire”, che il fuoco mi bruci, prima che inizi a crepitare...