"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

giovedì 28 dicembre 2006

RIDI CHE TI PASSA!


“Shalllom!”. Uri si attarda nella “l” del suo saluto sornione con compiaciuta liquidità, quasi volesse arpionarsi ad un incontro fugace, nel momento stesso in cui scivola via. Un po’ come capita con le barzellette yiddish, che creano grandi aspettative, per lasciarti presto spiazzato. D’altra parte, è già di per sé stupefacente che un popolo cui sono state tragicamente rubate 8 milioni d’anime trovi la forza per ironizzare su tutto, benché si tratti pur sempre di un riso a denti stretti. Forse è la via migliore per esorcizzare la paura di farsi trovare per primi in contropiede, come già capitò nel ’73, ai tempi dello Yom Kippur, allorché Israele rischiò di esser spazzato via in un battito di ciglia.

Indubbiamente l’arte della freddura è un’arma socratica che ogni guida turistica dovrebbe conoscere assai bene: tiene accesa l’attenzione, chiude bocche indiscrete e parla di traverso. Oltretutto, funziona assai meglio di una parabola biblica, divenuta altisonante e pretenziosa in una società votata alla chiacchiera. Eppure ne preserva il vizio peggiore: quello di sapere dove stia il giusto e dove l’errato.




Non è allora un caso che la vita dell’ebreo sia scandita da tabù: niente lama sulla barba, latticini che aborriscono la carne, nessun fuoco fatto scoccare il sabato. La lista potrebbe continuare a lungo, almeno quanti sono gli anni che ci separano dalla distruzione del tempio di Salomone e i metri dalla dogana dell’aeroporto, perché nell’elenco sta la ragion d’essere di chi non ha altra identità, all’infuori della tradizione: troppo arduo appellarsi all’aramaico, quando sotto la Stella di David convivono russi, tedeschi, americani od armeni; inutile pretendere un luogo, laddove la geografia conosce solo spazi.

L’unico modo per rafforzare il proprio credo è quello di erigere paletti ben saldi, uno dietro l’altro, e in questo non si può far torto ai seguaci di Sharon ed Olmert. Basti una passeggiata alle porte di Bethlemme, il cui nome potrebbe suonare Berlino o Corea: da una parte la fede nella palingenesi dello spirito, dall’altra la palingenesi nella fede dello spirito. Forse una mera tautologia, proprio come un filo di ferro che separa le sabbie dello stesso deserto.

Se non si è abituati alle sottigliezze, la ripetizione dell’identico finisce infatti per confondere, tant’è che a Gerusalemme le strade s’ingarbugliano spesso e volentieri: pensi di essere in un bazar a sorbire humus di ceci e ti si apre di fronte la Chiesa del Salvatore; cerchi la roccia su cui Cristo fu crocifisso e ci trovi un altare ortodosso; vedi le cupole a cipolla di un frammento di Russia e ti accorgi di essere in un giardino di ulivi già teatro di subdoli inganni. Un bambino scoppierebbe facilmente in lacrime, ma al Muro del Pianto ci sono così tanti uomini neri che è meglio starsene alla larga. Picchiano la testa sulle pietre, corrono da un lato all’altro trascinando su una lettiga libri come fossero re, incastrano oscuri messaggi nelle crepe del tempo.

Sembra di essere in una casa degli specchi, dove disciplina e logica inspiegabilmente cozzano fra loro, ma le cose non migliorano neppure se si fugge in un kibbutz. Qui il trattore marcia al passo del carroarmato, i banani si legano col filo spinato e, se si sale su una torretta d’avvistamento presso il lago di Tiberiade, si vedrà addirittura qualcuno camminare sulle acque. Chissà allora che un bel bagno freddo non serva a schiarire meglio le idee, seguendo l’esempio dei fedeli di Qumram, stanchi degli arzigogolii cittadini e ritemprati dall’umida profondità delle grotte anacoretiche.

In fondo, dove c’è acqua, c’è vita. Persino sulle onde del Mar Morto, quell’immensa lacrima sgorgata dal candore dell’innocenza, su cui danzano corpi capaci di dare gusto al silenzio della polvere; capaci di trovare l’ultima parola mancata agli eroi di Masada, quando l’ariete di Roma s’abbatté sulla montagna che osò sfidare il cielo.

In questa piega di sofferenza un’oasi di pace esiste davvero: basta avere occhi per vedere e non limitarsi a galleggiare in superficie. Chi scambia le palme di Ein Gedi, o i giardini pensili di Haifa, per l’Eden dimenticato, non ha ancora compreso il mistero della Città Celeste: non è di questa terra, ma vive per suo tramite. Proprio come Israele: è il disegno di una matita, ma non se ne può fare a meno.

Nel nome dell’antico re di Salem, è allora tempo di spostare l’occhio dalla mano della spada a quella della bilancia. Potrebbe darsi che nel farlo, si incroci lo sguardo di una ragazza che non chiede altra ragione, se non quella di credere in ciò che più pesa dire: ama l’altro come fosse te stesso.

venerdì 15 dicembre 2006

PARADOSSI DELLA FISICA CHERUBINA


Gerusalemme - Raccolto all’ombra degli infidi ulivi di Getsemani, oppur sdraiato ad amoreggiare sulle terrazze del quartiere armeno, di uno sguardo non potrà mai privarsi il profano in visita a Gerusalemme. Come un Sole che tinge d’eternità il risveglio del mattino, la dorata cupola d’Omar non irraggia verità alcuna, eppur chiama a sé con muta meraviglia. E’ sempre lì, ovunque ci si trovi: con un’ostinazione tale, che nessuna mano babilonese sarà in grado di rimuovere a 2.600 anni dall’ultima offesa al Tempio, né tanto meno la spada di un nuovo Tito. Perché nella Città Celeste nulla è come appare: i muri scompaiono alla vista, ma continuano a vivere nel ricordo; i muri dividono le genti, ma la fede nel Verbo resta pur sempre la stessa.

Se si lascia la porta di Sion, già si ode il lamento di un popolo che i Turchi trucidarono per quasi un terzo; se si cammina per il bazar, è inevitabile cogliere nei becchi delle teiere d’ottone l’eco di un lontano muezzin; se si cercano le ossa di Adamo nella chiesa del Santo Sepolcro, ci si accorge improvvisamente di essere in cima al monte Golgota: sfaccettature illusorie dello stesso universo, che danza in circolo fra vesti rosse e blu, tenendosi per mano attorno ad un centro che nessuno vede. O forse, solo giochi ambigui che tendono le ombre delle troppe candele, accese non appena la notte incombe sui portoni di casa, in omaggio alla festa di Anukka. Destinata a protrarsi solo per una settimana e un giorno nel mese di Kislev, benché conti sette fiamme e nulla più che la lingua di un servitore, la celebrazione della vittoria dei Maccabei sulle forze dei re seleucidi ha in sé qualcosa di umano e metafisico al tempo stesso: nelle otto braccia del Menorah arde l’orgoglio di chi non si piega alla legge del numero, di quanti sono capaci di ritagliare la propria identità nella melliflua sabbia del deserto mediorientale, che trasforma le dita del tramonto nei petali di una rosa.

Nella terra di David esser se stessi costa infatti enormi sacrifici, al pari di lacrime amare: significa resistere come uno scoglio all’infrangersi della storia, essere disposti ad alzare il pugnale sul proprio figlio, in nome di un credo che incarna tutta la propria essenza; significa avere il coraggio di versare lacrime sulla sordità di un muro, quando tutti stanno a guardare impudentemente la tua debolezza e s’interrogano sulla torà dischiusa.

Ma è proprio l’umiltà del silenzio a riscattare l’anima dei vinti: non è per i banchetti estivi di Erode che la roccaforte di Masada fa parlare ancor’oggi di sé, bensì per quel manto di morte indotta sotto cui riparò l’anima dell’indomito Zelota, per tre lunghi anni capace di tener testa al più perfido degli assedi. Scarno come un interrogativo, il monte del supplizio si staglia solitario nel deserto al confine con la Cisgiordania, a pochi passi da quello stesso mare che nel suo nome porta l’olezzo del cadavere, eppur già la speranza di una vita rigenerata: bastano venti minuti appena per scoprire quanto il sale sia alimento della terra, o fuoco che arde nelle ferite, sino a farti polvere della polvere.

Roma vinse la battaglia allora, ma è la guerra che ha infine perso. Il suo impero si è sgretolato, i figli di Salomone sono tornati alla terra promessa. In ritardo di due millenni, i nuovi guerrieri della Luce non hanno più avuto bisogno di riparare nelle scure grotte di Qumram, né le acque dei loro bagni sacri hanno preservato lo spirito dalla sozzura del tempo.

Eppure un vessillo bianco e blu si dispiega sopra le palme di oasi nascoste come Ein Gedi; svetta sulle acque salate di un lago che divora i suoi figli e sputa fango su chi si crede puro; è lo stesso vessillo che scruta l’aquila scolpita sulla terrazza panoramica di Haifa, ancor incredula di fronte alle geometrie Bahai che s’intrecciano al suo cospetto con l’audacia pirotecnica dei razzi Hezbollah, mentre disegnano eleganti vasche per le voluttuose ancelle di un sovrano voyeur: forse di quello stesso re che non credette all’uomo capace di mutare le acque in vino, ma dové piegare il capo alle onde riversatesi sul suo palazzo; alle bianche schiume che hanno lasciato in piedi un anfiteatro dove nessuno più acclama attori profumati d’olio, che hanno sagomato il nome di una città in cui echeggia il ricordo dei Cesari tramontati, che hanno reso il mare un po' meno nostrum.

Dare, ancor prima di prendere: ecco l’inaudito della parola messianica, che tanto turbò il proselitismo di Giustiniano, pronto a riconquistare i natali di Betlemme, per elargirvi però la contraddittoria grazia di una chiesa ortodossa. Lapidi per commemorare S. Girolamo, primo autore della vulgata biblica; severe colonne corinzie, sacrificate a sostenere il peso dell’orgoglio cristiano; icone dorate, per manifestare lo splendore della virtù d’Oriente: e sotto a tutto, quasi in disparte, la mangiatoia di una grotta che ancor oggi solleva l’enigma del Dio fattosi carne. Perché il regno dei Cieli comincia proprio dal belato di una pecora che attraversa la piana dei pastori, senza curarsi di fili spinati e barriere di cemento armato, senza badare alle lontane torrette d’avvistamento, oltre le quali il sogno della condivisione si è piano piano irreggimentato nell’efficienza del kibbutz. Nati nel 1909 come chicchi lanciati fra le sterpi del deserto, i campi del lavoro collettivizzato si sono trasformati in cellule sempre più complesse e totalizzanti, non esenti dai rischi di un tumore che fa del contadino un bracciante del fucile e dell’uomo un animale a sé dalla propria specie.

Una copula, nonostante tutto, capace di toccare la Luna con un volo alato e camminare sulle acque della “grande cetra”; pronta a farsi esplodere in un mercato di Tel Aviv o a silurare un paralitico dall’alto dei cieli. Misteri della fisica cherubina. Paradossi della gravità dello spirito.