"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

giovedì 27 maggio 2010

INDOVINA CHI VIENE A CENA




D’improvviso una vocina stridula e questuante. Attorno, solo buio impenetrabile. Chiede di un certo Mr Kapitan, rimbalzando da una stalagmite all’altra della grotta, sino a raggiungere le orecchie con un sibilo tanto carezzevole, quanto inquietante. Se non fosse per le correnti di vento caldo che s’infiltrano dai pertugi nella roccia, il sospetto che si tratti davvero dell’alito di uno spirito marinaio - imprigionato nel covo più remoto di Goras - potrebbe suonare più che realistico. Invece è solo il falsetto del professor Furir, che brancolando fra cataste di conchiglie ammuffite e pietre dallo scintillio diamantifero, sta cercando d’ammansire il misterioso inquilino di una voragine apparentemente senza fondo.



“Prudenza! Prudenza! – biascica in un bagno di sudore – Qui osa solo chi vuol conoscere le verità di Papua più arcane e vetuste! Quanti sono in cerca di facili bottini, o di polverose reliquie appartenute a qualche povero diavolo rimasto sepolto, corrono solo il rischio d’essere annegati dall’arrivo dell’onda vendicatrice”. Deglutisce sgomento.



Difficile che su questo tratto occidentale della costa dell’isola, a circa cinque ore di barca dall’ex avamposto coloniale olandese di Fak Fak, si possano trovare ricchi tesori, se non forse bombe a mano inesplose, mitragliatori arrugginiti od ossa spezzate di soldati giapponesi, vittime dei bombardamenti Alleati nel 1944. Dal Dopoguerra ad oggi l’intero promontorio lambito dal mare di Arafur è stato abbandonato a sé, tanto che Furir non se ne dà pace: negli anni ’60, andando a caccia di squali, si è imbattuto in scogli a strapiombo sulle acque, dov’è stato impresso il disegno delle mani dei primi abitanti dell’isola. Ma nessuno continua a saperne nulla.



Sono innumerevoli. Bianche. Rosse. Ocra. Talvolta fra loro spasmodicamente sovrapposte. Paiono protendersi oltre la linea dell’orizzonte, quasi stessero supplicando di liberarle dalla morsa della terra. Messe in evidenza grazie alla tecnica dei pigmenti a spruzzo in uso fra gli aborigeni australiani, queste impronte potrebbero risalire a 40mila anni fa, qualcuno asserisce addirittura ad 80mila, ma finché Jakarta continuerà a disinteressarsi della sua provincia più remota, mentre i viaggiatori internazionali a considerare Papua un buco nero dell’atlante, fantasmi capricciosi non smetteranno di tenere in pugno gli abitanti locali.



Eppure la posta in gioco è altissima: osservando la forma convessa degli affioramenti rocciosi levantisi dalle acque, simili a bolsi giganti coperti d’alghe, non è difficile arguire che le pareti dipinte siano gli ultimi resti di grotte spezzatesi a metà, per poi collassare apocalitticamente nei fondali del Pacifico.
“L’inabissamento del continente della Sonda non è solo una leggenda – ammonisce Furir – e il caleidoscopio d’isole che costituiscono l’arcipelago indonesiano dovrebbe rappresentare già di per sé un argomento probante. A qualcuno però fa comodo sostenere altre teorie, credere che le tribù australiane abitino da sempre nei propri territori, tagliando fuori Papua da ogni spiegazione, quando in realtà noi siamo l’anello di giunzione per comprendere i grandi movimenti migratori dell’uomo e l’evoluzione della specie”.



Nelle parole dei Papua emerge immancabilmente un forte risentimento verso tutto ciò che è estraneo alla propria terra, dal momento che il mare ha in fondo portato sempre e solo sventure: i fucili dei Portoghesi nel ‘500, cui si deve il nome stesso dell’isola (Papua deriva dal portoghese papuas, aggettivo per indicare uomini scuri dai capelli crespi), le croci missionarie di fanatici tedeschi, il giogo asfissiante degli Olandesi, cui nel 1962 si è semplicemente sostituito quello dei Javanesi, ironicamente giunti per liberare “il buon selvaggio” dallo sfruttamento coloniale.



Oggi i proventi della miniera aurifera di Freeport, la più grande al mondo, vanno però a rimpinguare solo le tasche di Jakarta e di Washington, gas e petrolio sono appannaggio dei sudditi di Sua Maestà d’Inghilterra, mentre le multinazionali del legname divorano ogni giorno chilometri quadrati di lussureggiante foresta equatoriale.



Ogni risorsa viene incessantemente depredata sotto lo sguardo indignato dei locali, incapaci di opporre altro ai carroarmati del governo, fuorché archi e frecce, o sporadici atti di rivolta guidati dal Movimento per la Liberazione di Papua.



Quando Furir depone un mazzo di garofani ai piedi di due colonne basiche, probabilmente Mr Kapitan è lì a sbirciare. Poco importa capire chi esattamente sia. Se un marinaio dei secoli andati, rintanatosi nella grotta di Mamasa alimentando le fantasie delle tribù locali, o piuttosto un profugo della Seconda Guerra Mondiale. L’importante è che apprezzi l’omaggio tributatogli ed interceda sommessamente con una benedizione per lo straniero: perché una volta abbandonata la costa, Papua spalanca le porte dimensionali di un mondo rimasto fermo all’età della pietra. Duro e selvaggio. Dove la minima imprudenza può costare il morso mortale di una vedova nera o la freccia avvelenata di una tribù sconosciuta.



Isolata per secoli dai grandi sconvolgimenti storici, inaccessibile ai più, il suo ecosistema è riuscito a conservare meraviglie uniche al mondo: petauri volanti, dingisi timidissimi, casuari talmente pigri d’aver dimenticato come usare le proprie ali, o magnifiche creature dalle piume color arcobaleno, che - non temendo l’uomo - hanno finito per essere chiamate addirittura Uccelli del Paradiso.



Ovunque lo sguardo si posi, si ha effettivamente la sensazione di trovarsi in uno degli ultimi eden terrestri: le spiagge dell’isola di Biak sono accarezzate da sabbie immacolate, mentre nei fondali di Raja Ampat gli sparuti divers qui giunti raccontano d’aver visto creature impossibili. Enigmatici e silenti sono pure i megaliti zoomorfi che vegliano sulle acque del lago Sentani a Doyo Lama, le cui forme sfingiche, così come le incisioni sciamaniche da cui sono solcati, quasi li avvicinano ai resti di una civiltà aliena.



Il vero extraterrestre, però, è ancora l’uomo bianco, soprattutto se lo si vede arrivare dal cielo in piena jungla, magari a causa di un’avaria ad un motore dei piccoli Cessna missionari che osano inoltrarsi nel cuore tenebroso dell’isola.



In piccoli villaggi come Yaniruma o Mbasman si può ancora contare su una rete di contatti piuttosto solida, a tal punto che la presentazione del “suran jalan” alla stazione locale della polizia quasi regala la sensazione di una virile pacca sulla spalla: è il permesso che il governo rilascia per esplorare le zone di frontiera, quelle in cui le analisi geopolitiche cedono il posto ai racconti straordinari e dove la scienza torna a farsi mito.



“Là dentro potrai contare solo su te stesso – sono soliti ammonire impiegati dalle ascelle pezzate – perché t’aspettano giorni di duro cammino, con le gambe sprofondate nelle paludi sino alle ginocchia, un’umidità capace di ridurti ad una pozza d’acqua e zanzare malariche che non perdonano mai”.





Molti tremano e preferiscono tornare sui propri passi, magari a Wamena, dove nella splendida valle del Baliem va in scena ogni agosto il folkloristico festival delle tribù Dani, use a scagliare in aria lance e frecce, ma solo per gioco. Pronte ad offrire prove d’abilità nel cucire borse di caurio o nell’infilare conchiglie di ciprea, dimostrando in tal modo di non essere solo abili coltivatori di patate dolci, ma abitanti di capanne di paglia che conoscono arti sopraffine, come quella d’affumicare le mummie dei loro avi guerrieri e conservarle intonse per centinaia d’anni.







Oltre Yaniruma invece non si scherza. Ogni passo avanti è una benevola concessione dei capitribù Korowai e basta un movimento inaspettato, una parola di troppo o magari un sorriso incompreso, per farti sentire nudo come un casuario sulla brace. Le voci sul cannibalismo non sono solo dicerie.



Non appena in cima agli alberi appare una khaim, la tipica capanna che le tribù locali costruiscono sino a venti metri dal suolo per sottrarsi ai predatori (animali o umani), le foglie delle palme di sago iniziano a frusciare. Richiami gorgheggianti coprono il verso dei cacatua terrorizzati. Dieci, venti, cinquanta selvaggi dai nasi traforati con ossa d’uccelli e un guscio di ghianda a coprire i propri genitali sono già lì. Tutti attorno, ansimanti e spaventati. Ma anche dannatamente curiosi.



Qualcuno tenta di allungare la mano verso quella strana creatura bianca che molti considerano un laleo, un demone ghiacciato. Però la ritraggono subito. Meglio un approccio meno compromettente: annusare le ascelle, il collo e il petto li rassicura molto di più. Solo se non si è imbevuti di qualche deodorante. Il rischio, altrimenti, è che si possa esser scambiati per khakhua, stregoni da cui ci si libera solo divorandone il fegato, lo stomaco ed il cuore.



Aver avvicinato già tanto un Korowai dovrebbe comunque preservare da spiacevoli sorprese. Sono infallibili arcieri e, se davvero avessero timore del nuovo giunto, non ci penserebbero due volte a tendere una freccia dall’alto delle proprie abitazioni. Da quando hanno iniziato a riconoscere in lontananza il rumore delle motoseghe, anche la loro curiosità verso il mondo al di là della foresta è cresciuta a dismisura.



Sino alla fine degli anni ’70 nessuno sapeva della loro esistenza e loro stessi erano convinti che oltre il cerchio delle piante ci fosse solo il regno degli spiriti vaganti. A causa di un missionario olandese, un certo Van Ewk, oggi le cose sono un po’ cambiate. Tanto che la loro sopravvivenza potrebbe dipendere solo e paradossalmente dal turismo, pronto a preservare il fascino del “buon selvaggio”, purché questi abbassi la testa e accetti di mettersi in vetrina.



Qualcuno ha abbracciato la croce e si sta sforzando di parlare indonesiano bahasa. Altri si sono lasciati convincere addirittura ad indossare vestiti logori. Più si “civilizzano”, meglio è per Jakarta, che ha fame di legname e dollari. Capita dunque d’essere invitati a fumare le loro pipe oblunghe o prender parte alla lavorazione del sago, la principale risorse dall’alimentazione Korowai, offrendo il quale riescono a rompere un po’ il ghiaccio con gli stranieri. Eppure, potrebbe essere solo l’evoluzione di una tecnica di caccia più astuta e sottile.



Quando si riceve l’invito a cena da un presunto ex cannibale, il cui sorriso smagliante annuncia ai suoi un piatto speciale per la giornata, qualche terribile dubbio inevitabilmente s’insinua. Malacoscienza. “Fuori le teste di topo e le larve di scarafaggi. Oggi si festeggia!”.
Già, chissà sino a quando. E soprattutto: chissà in quale modo.



OPERASI KOTEKA



C’è chi lo chiama koteka, chi horim, chi ancora lonka lonka. Se si dovessero passare tutti i 250 dialetti di West Papua, l’elenco sarebbe spropositato. Di certo l’astuccio penico è il simbolo più importante delle culture tribali dell’isola, non solo per la sua funzione di status symbol all’interno della comunità, ma anche come elemento d’affermazione d’identità contro le battaglie ideologiche condotte da Jakarta. Fra il 1970 ed il 1971 il governo indonesiano lanciò infatti l’operasi koteka, una campagna di “modernizzazione dei costumi” che avrebbe dovuto costringere le popolazioni papuane a vestire abiti occidentali, anziché girovagare per valli e foreste completamente nude. Non ci fu verso di convincerle, tanto che scoppiò quasi una guerra civile, poi stemperata dal dietro-front del governo. Analogamente fallirono i missionari cristiani, instillando però il senso di vergogna nelle tribù coinvolte, visto che ancor oggi molte di esse corrono a prendere stracci e vestiti per coprirsi, non appena avvertono su di sé lo sguardo degli stranieri.
Comunque sia, al koteka non si rinuncia. Oltre a dimostrare la virilità dell’uomo, essendo sempre legato al bacino e al petto in posizione eretta, questa zucca cava serve spesso da bisaccia per portarsi appresso tabacco od erbe senza bisogno di borse, nonché come protezione indispensabile negli scontri corpo a corpo con le altre tribù. Può avere forma ondulata, ripiegata, essere rigonfio o artisticamente dipinto. Insieme alle corone di penne di casuario e alle ossa di maiale infilate nel naso, il koteka fa parte del corredo classico delle popolazioni Dani, mentre altre tribù, come i Korowai, preferiscono proteggere i propri genitali con un doloroso massaggio mediante cui il pene viene introflesso nel corpo, lasciando all’esterno solo il glande (protetto però da un guscio di ghianda).

WASUR NATIONAL PARK



Benché relegati ai margini della società, strettamente in pugno alle comunità javanesi trasferitesi a Papua tramite il progetto “trasmigrasi”, gli abitanti locali hanno saputo ritagliarsi a fatica spazi d’imprenditoria. Se il governo di Jakarta confisca periodicamente ampie fette di terreni papuani, per poi assegnarli ai residenti delle sovraffollate isole indonesiane meridionali (a condizioni di favore), le tribù Marind e Kanun della zona di Merauke hanno infine imparato il trucco. Anziché continuare a vivere separate le une dalle altre, nel 1997 si sono organizzate per fondere i propri terreni nel Parco nazionale del Wasur, sotto l’egida del Wwf. Oltre a proteggere il proprio ecosistema da bracconieri e taglialegna, qui sono libere di vivere seguendo i propri costumi e, soprattutto, di farli conoscere senza traumi ai visitatori.
Esteso per circa 413mila ettari, fra foreste allagate d’eucalipti e scabre savane, il parco presenta un’ampia varietà di specie sia floreali che faunistiche: fra le meraviglie della natura, spiccano enormi termitai alti sino a cinque o sei metri, utilizzati come forni per cuocere la carne di canguro. All’interno della riserva sono stati allestiti fra l’altro alcuni impianti per la lavorazione delle foglie d’eucalipto, dalle quali si ottiene un olio particolarmente concentrato: i Marind lo considerano una sorta di panacea contro tutti i mali. Lo usano per tener lontani gli insetti, per massaggiare i corpi doloranti, per curare i bruciori di stomaco bevendone piccoli sorsi, o addirittura per combattere la malaria. I soldi ricavati dalla vendita delle sue preziose bottigliette vengono poi reinvestiti nella salvaguardia del parco.

FESTIVAL PER TUTTI I GUSTI



L’antesignano è stato il festival di Wamena, nella valle del Baliem. In calendario ogni anno, verso la metà di agosto, questo appuntamento è stato capace di catalizzare da solo il poco turismo sviluppatosi a Papua a partire dai primi anni ’90. Durante i tre giorni di celebrazione, le tribù Dani mettono in mostra tutto il repertorio del loro folklore: danze spettacolari, canti selvaggi, simulazioni di battaglie, corse di maiali e prove d’abilità con archi e lance. Sull’onda del successo riscosso, l’amministrazione papuana ha deciso di pubblicizzare con decisione altri analoghi eventi: lo scorso giugno, ad esempio, è stata inaugurata la prima edizione del festival del lago Sentani, durante il quale vengono inscenate sulle acque spettacolari battaglie a bordo di navi a forma di coccodrillo. A pochi chilometri di distanza, la cittadina di Waena si trasforma a fine agosto nel punto di ritrovo di tutte le tribù papuane, chiamate a confrontarsi non solo a passo di danza, ma anche nell’arte mimica di rappresentare i propri miti. Di prestigio pari, se non forse superiore a quello di Wamena, è infine il festival della cultura Asmat, che si tiene fra ottobre e novembre nelle cittadine di Agats e Merauke. L’occasione è impedibile per ammirare le rinomatissime sculture delle popolazioni meridionali, giudicate fra le migliori di tutto il Pacifico. Oltre agli scudi e agli idoli di legno, realizzati in una serie infinita di smorfie per allontanare gli spiriti malvagi o catturare la fortuna, tipici sono soprattutto gli “mbis”: pali commemorativi che incarnano la cosmologia Asmat ed hanno valore apotropaico.

RISTORANTI



RUMAH MAKAN MICKEY
A due passi dall’aeroporto di Sentani, sul corso principale di Jalan Kemiri, questo piccolo ristorante cino-indonesiano è il punto di ritrovo preferito dalla clientela internazionale, per via dei suoi menù tradotti in inglese. Immancabile il nasi goreng, cioè il riso fritto condito a scelta con verdure al vapore, piccanti, blocchetti di pollo o gamberi. Singole portate a partire da un euro e mezzo.

RUMAN MAKAN MAS BUDI
Benché a Wamena abbondino i tradizionali warung indonesiani, tavole calde allestite alla buona per strada, questo piccolo ristorante alla periferia settentrionale della città – in Jalan Pattimura – riesce ad offrire pesce freschissimo, persino nella vallata dov’è d’obbligo il maiale alla brace. Ottimi i gamberoni piccanti con salsa di cocco. Prezzi compresi fra i 2 e i 5 euro a portata.

SANDRA CAFE’
Merauke è senza dubbio la cittadina più ordinata e pulita di tutta Papua, ma questo locale lungo Jalan Raya Mandala è sempre pronto a ricordare che la jungla si trova a soli pochi chilometri dalla strada. Immerso in un giardino lussureggiante, offre suggestivi tavoli su più piani, illuminati da candele e impreziositi da piatti di pollo fritto e caramellato. Irrisori i prezzi, che partono da meno di un euro.

HOTEL



SEMERU
A Sentani stanno nascendo hotel come funghi, di categoria sempre più elevata, ma sotto sotto solo sulla carta. Il Semeru resta ancora uno dei più quotati, non solo per l’estrema vicinanza all’aeroporto, ma anche per le sue camere semplici e pulite. Persino quelle col ventilatore, sono dotate di water classico e doccia, a dispetto di turca e mandi (una vasca da cui si raccoglie con un secchiello l’acqua lasciata in deposito per lavarsi). Prezzi a partire da 12 euro.

BALIEM VALLEY RESORT
Essendo il luogo più turistico di tutta Papua, Wamena può vantare anche l’unico resort (www.baliem-valley-resort.de) che possa dirsi tale. Situato 10 chilometri a nord della città, è immerso in una campagna incontaminata ed offre camere ispirate allo stile delle capanne Dani. Docce con pareti in pietra e pavimenti in legno. Costa tanto, 125 dollari a notte, ma è l’unico lusso che ci si potrà concedere per tutto il viaggio.

NAKORO
Un’oasi di pace dal traffico di Merauke. Nascosto in una stradina parallela al corso principale, questo grazioso hotel familiare ha camere intime e pulite, nobilitate dal sottostante giardino di profumati fichi. Incredibile ma vero, la colazione viene servita a letto. Prezzi a partire da 18 euro.

lunedì 24 maggio 2010

LA ROSA DEL WOERTHERSEE




Bastano 44 secondi per entrare nella storia di Klagenfurt. Tanti ne ha infatti impiegati Guenter Wand per vincere l’ultima Turmer Lauf: una forsennata corsa in vetta alla torre più alta del capoluogo carinziano, che ogni giugno invita a scalare 225 sottilissimi gradini per guadagnarsi una visione mozzafiato sulla città e gli immancabili baci della gloria. Un tempo sfruttato come punto d’avvistamento dei nemici e per lanciare l’allarme in caso d’incendio, ancor’oggi il campanile della parrocchiale è abitato da un sorvegliante che ha il potere di risvegliare i morti suonando il proprio corno verso sud, visto che già un suo predecessore fu capace di terrorizzare gli abitanti del posto quando si fecero burla del suo incarico.



La competizione, che affonda le radici nei riti scaramantici di San Silvestro e si ripete appunto a fine anno, è indubbiamente una delle tradizioni più amate dai locali, visto che rinnova il culto per l’eroe capace di oltrepassare i limiti umani. Proprio come un tempo toccò al fondatore di Klagenfurt, un giovinetto su cui nessuno avrebbe scommesso un soldo di cacio, eppur l’unico in grado di piegare sotto la sua clava il terribile drago Lindwurm, oggi imprigionato in un blocco di pietra da 124 quintali, che nel 1590 venne misteriosamente scolpito da Ulrich Vogelsang. Usando come modello il calvarium di un rinoceronte lanoso dell’età glaciale (cioè un cranio privo della mandibola, rivenuto 600 anni fa sul vicino monte Zollfeld), il lucertolone alato di Vogelsang potrebbe rappresentare infatti il primo tentativo “scientifico” di ricostruire un animale preistorico protagonista d’innumerevoli leggende. Su tutte, quella che lo voleva sbuffante e famelico nelle acque paludose tra il fiume Drava e il lago Woerther, il sito ove sorge appunto l’odierna Città del Drago.



I suoi abitanti non devono però aver rimosso del tutto la paura ancestrale del mostro, visto che qui continuano ad esser cresciuti superuomini d’acciaio: sono i cosidetti “Iron Men”, protagonisti del più famoso e massacrante triathlon europeo, che a luglio raduna da ogni dove atleti capaci di nuotare per quasi quattro chilometri, sfrecciare in bicicletta per altri 180, lanciandosi infine di corsa verso un traguardo lontano ancora 42 chilometri. Insieme ai “giorni del fitness”, in programma a fine agosto, non è che uno dei numerosi eventi ogni mese organizzati da questa cittadina sempre in festa e costantemente in forma, come ben dimostrano i tanti naturisti che affollano le oasi naturali dei dintorni, fra cui il Keutschachersee e gli Spintikteiche, ma anche gli innumerevoli mercatini enogastronomici, artigianali o natalizi, le performance artistiche e le kermesse musicali.



Chiamata la “Rosa del Woerthersee”, per via del suo clima mite e gaudente in riva all’amatissimo lago dell’artistocrazia asburgica, Klagenfurt preserva davvero qualcosa di magico. Una sorta di armonia cosmica che fonde in perfetto equilibrio Natura e Cultura, il grande sogno della filosofia germanica. Non è un caso che qui siano convenuti alcuni fra i più grandi geni di ogni tempo, a partire dallo scrittore Robert Musil e dalla poetessa Ingeborg Bachmann (ai quali è dedicato anche un meticoloso museo in centro città, in quanto natii del luogo), per arrivare alla penna di Arthur Schnitzler, che sulle rive del lago tentò di riscattare il tormento della Finis Austriae attraverso “La signorina Else”, via via sino all’inquieto compositore Gustav Mahler, di cui tuttora si conserva il piccolo studio ov’era solito ritirarsi per scrivere le sue sinfonie oniriche. Si trova pochi chilometri a ovest della città, celato in un bosco idillico che digrada dolcemente verso il Woerthersee, e rappresenta una tappa d’ispirazione per apprezzare a fondo l’itinerario musicale che nel 2010 celebra il 150° anniversario dalla sua nascita.



A differenza di Vienna, dove forte e intensa resta la nostalgia della dorata fine imperiale, Klagenfurt sembra invece vivere in un eterno presente: i suoi vivaci palazzi rinascimentali e barocchi non mostrano una crepa, una macchia; le vie sono costantemente affollate di giovani, soprattutto la sera, quando comincia il rendez-vous fra Le Passage e Checkpoint Charlie, fra il Carpe Noctem e il Renaissance, ridda di piccoli locali nel centro storico, protagonisti della curiosa quanto peculiare “movida carinziana”: un flusso di cultori del jazz, così come del pop o del rock, che sfrutta la rete tentacolare di cortiletti ad arcate grazie a cui ci si può proiettare velocemente dal laboratorio del “sandwich creativo” Fresh-The Deli Bar al birrificio della Schleppe, lasciandosi incantare dai giochi di luce riflessi sulle loro pareti immacolate.



Lo stesso Lendkanal, costruito più di 450 anni fa, funziona ancora perfettamente e rappresenta la via più romantica per spostarsi dal cuore della città al suo lido sul Woerthersee: qui si allunga la pittoresca penisola di Maria Loretto, dove al termine del breve viaggio in battello è d’obbligo concedersi una cena a lume di candela nell’omonimo ristorante (a meno che non ci si voglia imbarcare di nuovo per raggiungere le ville più defilate del lago).



Oppure si pensi alla vulcanicità creativa del museo d’arte moderna (www.mmkk.at), già collegio della nobiltà protestante nel 1586 e successivamente residenza dei burgravi carinziani, capace di consacrare oltre mille metri quadrati al puro gusto d’avanguardia: installazioni aeree dentro l’antica cappella affrescata del pittore barocco Josef Fromiller, laboratori creativi ogni finesettimana per le famiglie, visite gratuite alle personali degli artisti d’area alpino-adriatica ogni giovedì sera, nonché reading trilingue (in tedesco, in italiano e sloveno) e cinema alternativo in un cortile dai sorprendenti effetti risonanti.
Quest’incredibile vitalità cittadina è forse connessa al profondo legame che gli abitanti di Klagenfurt riescono a mantenere con la propria terra, sempre considerata a parte e irriducibile all’opera accentratrice dell’Impero asburgico. Quando il capoluogo carinziano venne infatti distrutto completamente da un incendio nel 1514, Massimiliano I dichiarò di non avere soldi per ricostruire le sue abitazioni e, caso unico nella storia imperiale, fu costretto a cedere lo scettro dell’autorità all’assemblea regionale, subito pronta a far rinascere la propria floridezza sotto l’elegante visione urbanistica dell’architetto italiano Domenico dell’Allio.



Forte della sua posizione di crocevia, trovandosi nel punto di confluenza fra le rotte commerciali e le spinte culturali latine, slave e germaniche, Klagenfurt ha così finito per maturare uno spirito molto indipendente, ma mai sdegnosamente aristocratico. Lo si avverte chiaramente nel trionfo araldico della Sala degli Stemmi, all’interno del Landhaus (Palazzo regionale): se ne contano ben 665 e rappresentano ciascun autorità amministrativa della Carinzia, ricoprendo per intero le pareti che guardano simbolicamente sul seggio del giuramento. Un blocco di pietra sbozzato senza troppe pretese, su cui il duca di Carinzia era chiamato a giurare davanti a tutti i contadini, affinché s’impegnasse a tutelare i diritti del popolo. Con buona pace di sovrani assolutisti come Maria Teresa, che tuttora se ne sta in mezzo alla piazza nuova, con gli occhi indispettiti oltre il Rathaus, cioè il municipio.



L’impronta popolare della città è talmente forte, che ogni suo angolo cela racconti timorati e moniti contro l’arroganza delle elite: al mercato benedettino, dove il profumo di ravioli carinziani si mescola a quello dello speck e del pane nero, ogni sabato mattina le bancarelle si raccolgono sotto l’emblematica statua del Pescatore, che ad una donna dubbiosa sulla correttezza dei suoi prezzi pare avesse urlato: “Che sia fatto pietra se ho pesato male!”. Detto fatto. Dal 1606 non si è più mosso di lì. Ancor peggio andò ai crapuloni della città che, incuranti della Pasqua, continuavano a sperperare le proprie ricchezze in vino e balli: più volte ammoniti da un ometto che girava con una botte sottobraccio, non se ne curarono finché questi decise di rimuoverne il tappo, travolgendoli in un profluvio d’acqua tale che finì per dar vita al lago Woerther. Ecco perché oggi i passanti s’affrettano a lanciargli con riverenza qualche monetina, non appena s’imbattono nella sua fontana all’ingresso del centro storico.



Quanto alla maschera imbronciata che solo i più accorti notano sul palazzo a fianco del vecchio municipio, pare sia sbucata dalla parete centrale per ricordare ai giudici che prima di esprimere una condanna, al di là dello status sociale di una persona, occorre sempre indagare sino alla verità ultima, senza farsi prendere dalla fretta o dai rancori: la sua smorfia ricorda appunto quella di un fornaio che fu accusato di aver fatto sparire alcuni denari affidatigli, venendo così messo alla forca, quando in realtà gli stessi furono poi ritrovati nel punto in cui l’innocente pensava fossero caduti. Questo spiega anche il perché di un nome tanto bizzarro per una città: “il guado dei lamenti”, la palude (furt) su cui si levavano le urla di disperazione (klagen) dei cittadini minacciati dal drago, ma anche dei colpevoli d’ingiustizia assaliti dal rimorso.



Ben vengano dunque l’attività fisica e la gioia di vivere a Klagenfurt, ma sempre senza stress. Senza mai eccedere. La grande virtù dei suoi cittadini risiede appunto in questo marcato senso della misura, che ha la meravigliosa capacità di adattare ogni cosa al reale benessere dell’uomo. Non sorprende scoprire allora come il centro storico sia stato anche il primo totalmente pedonale in Austria, sin dal 1961, o che le piste ciclabili corrano qui in totale sicurezza sia fuori che dentro l’agglomerato urbano, facendo della bicicletta o del cavallo il miglior mezzo per esplorare il circuito di castelli rinascimentali presenti nelle immediate vicinanze. Una città che pare davvero possedere l’anima di un fiore delicato e senza tempo, cui solo le parole di un poeta rendono giustizia. E, forse, il sorriso innocente di una ragazza cui sussurrare: “Coglierò per te l’ultima rosa del giardino, la rosa bianca che fiorisce nelle prime nebbie. Le avide api l’hanno visitata sino a ieri, ma è ancora così dolce che fa tremare. E’ un ritratto di te a trent’anni, un po’ smemorata, come tu sarai allora…”.



MAHLER CONTEMPORARY



“La tradizione è il dono del fuoco, non l’adorazione della cenere”. Prendendo le mosse da questa massima di Mahler, che invita a riaccendere la scintilla dell’ispirazione, dal 9 luglio al 1° agosto il festival “Mahler Contemporary” trasformerà l’area di Klagenfurt in un enorme palcoscenico musicale. Oltre 70 artisti provenienti da 10 diversi Paesi saranno infatti impegnati a celebrare il 150° anniversario dalla nascita del grande compositore (1860-1911), che a Maiernigg – nelle immediate vicinanze di Klagenfurt - scrisse la Quinta, la Sesta e la Settima Sinfonia fra il 1900 ed il 1907. Location di riferimento sarà l’ex abbazia cistercense di Viktring, un piccolo gioiello barocco nel cuore della campagna carinziana, ove saranno proposti i principali eventi d’intrattenimento, fra cui sei concerti serali di jazz e classica d’avanguardia, due videoperformance con esibizioni di danza, nonché le mostre “Mysterious Traveller” e “Immagini di una sinfonia”.



Anche la casetta di composizione a Maiernigg tornerà a riempirsi di musica, così come il conservatorio di Klagenfurt, dove già dal 10 maggio l’associazione Woerthersee Classics sarà impegnata in numerosi tributi, curati dal professor Alexei Kornienko (il programma intero è consultabile sul sito www.woertherseeclassics.com). La rassegna intende spingersi oltre i confini austriaci, dal momento che la piattaforma artistica internazionale “Mahler Quartett” sarà attiva anche in Italia, Slovenia e Germania del sud, in previsione delle iniziative che caratterizzeranno anche il secondo anno di giubileo. Nel 2011 si commemorerà infatti il centenario dalla morte di Mahler, un artista che seppe trasformare i tanti lutti e dolori della sua vita in un una musica dal volto sempre diverso, anticipando le più ardite sperimentazioni del Novecento.

L’EREDITA’ DEI KEVENHUELLER



Più che castelli, oggi somigliano a palazzi nobiliari. Sono almeno 23, uno diverso dall’altro, alcuni arroccati sulle colline, altri fastosamente decorati nei giardini di campagna. Nessuna delle antiche dimore di Klagenfurt può però competere con la fortezza di Hochosterwitz (www.burg-hochosterwitz.at), forse il massimo esempio di struttura difensiva di cui la Carinzia si dotò per scongiurare l’invasione dei Turchi. Menzionato per la prima volta nell’860, questo straordinario castello - asserragliato su una collina completamente isolata a una ventina di chilometri dalla città - consente di rivivere l’epopea cavalleresca fra alabarde, cannoni e collezioni di armature forgiate dalla stesso produttore che, ancor oggi, rifornisce le guardie svizzere papali. Vi si accede dopo aver varcato ben 14 portali che si succedono ininterrottamente dalla base alla vetta della collina, raggiungibile anche attraverso una scenografica funicolare.



L’ultimo erede della nobile famiglia Kevenhueller, da pochi mesi successo al padre nella conduzione del castello, ha fra l’altro deciso d’avviare una serie di lavori di riorganizzazione degli spazi interni, grazie ai quali sarà possibile assistere a ricostruzioni medioevali in costume, cene tradizionali, spettacoli cavallereschi e concerti sotto le stelle già a partire da quest’estate.

OASI DI BENESSERE



Talmente pura, da poter essere bevuta direttamente dal lago. L’acqua del Woerthersee, ma in generale di tutta l’area lacustre carinziana, è senza dubbio uno dei tesori più preziosi di questa regione, che già i Romani seppero apprezzare creando un importante impianto termale nella vicina città di Villach. Se l’azzurro intenso del più grande lido d’Europa riesce a catturare la maggior parte dei natanti, vero è che molti dei locali preferiscono la maggior intimità dei laghetti presenti nelle vicinanze, fra cui il Rauschelesee, l’Hafnersee, il Keutschachersee e i pittoreschi Spintikteiche, immersi in una fitta foresta alpina, ma dalle acque tiepide e balsamiche. Bastano infatti due o tre bagni per rigenerare completamente la propria pelle, regalandole una morbidezza e un’elasticità ignara del tempo. Queste oasi popolate di svassi, tuffetti e caprioli, sono comodamente raggiungibili a piedi, in bicicletta o a cavallo, partendo dal suggestivo parco dell’abbazia di Viktring. Pur distando pochi chilometri da Klagenfurt, mettono a disposizione una ricchissima offerta di stanze private (zimmer) ove pernottare e assaporare la tipica atmosfera di campagna carinziana: succhi naturali di mela, svariate qualità di salumi aromatizzati con paprika e pistacchio, funghi impanati e marmellate di bosco sono solo alcune delle leccornie direttamente prodotte sul posto.

IL PICCOLO TIBET



Proprio come il misterioso Shangri-La, il lingkor di Huettenberg (www.huettenberg.at) è uno dei gioielli meno noti e più affascinanti della Carinzia. Nascosto nelle vallate del Norico, a meno di un’ora d’auto da Klagenfurt, questo soprendente complesso tibetano è stato creato dall’esploratore Heinrich Harrer, che al cinema ha assunto il volto di Brad Pitt nel film “Sette anni in Tibet”, ispirato alla propria amicizia col Dalai Lama. Ponti di catene sospesi nel vuoto, coloratissimi fazzoletti votivi legati alle piante e stupa buddisti sono stati riprodotti nei pressi del museo dedicato al grande esploratore, ispirandosi all’architettura originale himalayana. Oltre che un luogo di preghiera e meditazione, Huettenberg è anche un polo di riferimento per i movimenti pacifisti austriaci, nonché una vetrina esclusiva sulle più remote culture tribali del mondo. Harrer ha infatti qui raccolto i reperti dei suoi incredibili viaggi di frontiera, che oltre al Tibet, toccarono la remota isola di Papua, l’Amazzonia, le Guyane e le Andamane, senza contare le sue numerose spedizioni nell’Africa Nera. Fra i visitatori più affezionati al sito va annoverato niente meno che il Dalai Lama, per anni rimasto legato all’amico con cui condivise il soggiorno giovanile nel Potala di Lhasa e l’esilio in India, prima della sua scomparsa nel 1996.

RISTORANTI



ZUM AUGUSTIN
(www.gut-essen-trinken.at)
Locanda di legno in tipico stile carinziano, si trova proprio a fronte della parrocchiale di Klagenfurt, in Pfarrplatz, ed è un punto di ritrovo storico della città, sia per bere una birra, che per pranzare o cenare. Fra le specialità della casa, zuppe di gulasch, bistecche di maiale in salsa di champignon, spaetzle al burro di ginepro. In estate è possibile sedere anche nell’arioso cortile interno. Un pasto si aggira sui 13 euro.

PUMPE
Nascosto nella stretta vietta che dà sulla piazza del mercato benedettino, questa birreria convenzionata con l’Hofbrauhaus di Monaco offre i piatti forti della tradizione germanica: zuppa di frittata ed erba cipollina, cotoletta di maiale impanata, ricche grigliate. Prezzi attorno ai 15 euro.

HOHENWIRT
(www.hohenwirt.at)
Chi volesse trascorrere una serata più intima può comodamente raggiungere questo elegante ristorante di collina, seguendo la strada che porta verso la Pyramidenkogel. Si affaccia su una terrazza che domina la regione dei laghi, mettendo a disposizione un buffet vegetariano come benvenuto. Imperdibili i suoi ravioli di spinaci ripieni al formaggio, la trota salmonata, le polpettine all’aglio e peperoncino, ma soprattutto i buonissimi dolcetti di farina e uova, da intingere nella marmellata di ribes. Prezzi sui 20 euro.

ALBERGHI

SANDWIRTH
(www.sandwirth.at)
E’ l’hotel più antico di Klagenfurt, attivo sin dal Cinquecento e che fra i suoi ospiti annovera gradi personaggi storici, fra cui Churchill e Hitler. Consta di 100 camere, 2 suite e 6 deluxe, in un originale mix di stile moderno e classico, mettendo a disposizione anche una piccola sauna ed area benessere. L’accogliente lobby di 180 metri quadrati, ricavata dall’antica posta, introduce al café più trendy di Klagenfurt, ove ogni sera si ritrova la creme della società. Prezzi in doppia a partire da 100 euro.

PRETTNER
(www.romantik-zimmer.info)

Piccola pensione privata sul corso principale di Klagenfurt, in Alter Platz 16, consente di soggiornare in uno dei folkloristici cortiletti ad arcate d’origine medioevale. Le stanze sono arredate alla carinziana, con inserti in legno e lino, mentre la colazione al mattino è a dir poco luculliana. Prezzi a partire da 42 euro a persona.

PICHLERHOF
(www.pichlerhof.co.at)
Se siete in cerca di pace e relax, quest’antica fattoria sulla collina che domina il Rauschelesee è l’oasi in cui riparare. Si trova nel villaggio di Hoeflein, lungo la strada diretta a Velden-Klagenfurt. Mette a disposizione sia stanze private che appartamenti, con tipiche colazioni a base di succo d’arancia, marmellate artigianali, affettati, uova fresche, paté e formaggi di produzione locale. Prezzi attorno ai 25 euro.