"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

venerdì 16 novembre 2012

LE MAPPE DI LOPE'


L’ordine è perentorio. Non una parola e tutti accucciati. All’ombra del Mont Brazza, d’improvviso il Gabon si rivela di una solitudine immensa. Una scabra piana capace di lasciar sgomento persino Pietro Paolo Savorgnan di Brazzà, l’esploratore italiano che nel 1875 regalò un impero alla Francia. Lontani sono i tambureggiamenti e le torce infuocate della Fête des Cultures, quando a metà agosto i Fang, i Bakà, gli Tsogo e le decine di altre etnie che popolano l’Africa equatoriale si riversano ululanti per le vie di Libreville. Inimmaginabili i palazzi avanguardistici della capitale, fatti di vetri scintillanti e torri asserpentate, figli di quel nero petrolio che da oltre cinquant’anni fluisce dritto dritto nelle tasche della famiglia presidenziale. Nessun profumo di croissant freschi, né champagne d’annata per dissetarsi. 

Nel cuore della riserva di Lopé, ritagliata esattamente dove le mappe segnano il centro geografico del Paese, non c’è spazio per capricci postcoloniali. Anzi, gli sparuti cartelloni elettorali di Alì Bongo, succeduto al padre Omar da “soli” cinque anni, sono un comodo bersaglio per le pietre scagliate dalle jeep di passaggio. Ma la fortuna gira anche per i politici corrotti.
Ora siamo io e le due guide della riserva un ben più facile target: spostarsi a piedi da una macchia di mogani all’altra, attraversando in fretta e furia le ampie radure d’erba rinsecchita, è ad alto rischio di carica. 

Gli elefanti potrebbero imbizzarrirsi da un momento all’altro, essendo a passaggio con i loro piccoli, mentre i branchi di sitatunga pare abbiano solo voglia di testare la resistenza delle loro possenti corna contro qualche curioso esemplare d’antilope bipede. «Non abbiamo molto tempo – bisbiglia Edith, l’interprete troppo robusta per l’afosa savana di Lopé - Se il sole si leva, potremmo trovarci faccia a faccia con le colonie di mandrilli o gorilla. A quel punto non saprei proprio se sia meglio rifugiarsi nella radura o sotto le piante».


Problemi di traffico mattutino in Gabon. Con la scusa per cui la riserva è una delle rare a consentire gli spostamenti senz’auto, le poche jeep a disposizione vengono sempre abbandonate nei posti più improbabili. Poco importa se tutt’attorno scorrazzino le più grandi colonie di primati dell’Africa equatoriale, o qualche elefante si faccia prepotentemente spazio per andare a succhiarsi i suoi 25 chili di sale quotidiano in prossimità del fiume Ogooué. Non siamo certo a Loango, l’ultimo parco nazionale creato per il sollazzo degli ippopotami che fanno surf sulla pancia, ma neppure a Mayumba, dove sono invece le balene ad accogliere i passanti con esuberanti tonfi sulle onde. 

No, no. Più ci si allontana dalla costa, più il Gabon perde contatto con la civiltà. Le fitte foreste d’ebano si riappropriano dei pochi spazi loro sottratti dalla mano dell’uomo, le cascate sollevano le loro roboanti risa di scherno, mentre la ferrovia devia intimorita verso sud, in quella Franceville delle meraviglie che, oltre a conservare simulacri del suo figliol prodigo Omar Bongo, si arrocca fra canyon dai colori impossibili. 

Da Lopé in su, all’interno dell’ipotetico triangolo che unisce le cittadine di Oyem e Makokou, c’è spazio solo per le danze delle tribù pigmee e del loro spirito della foresta Ezengi, per gli intagliatori di maschere consacrate al dio Mbudi e Okuni, per i sei metri di spirali con cui il temibile rock python stritola le sue prede e per il morso fatale della velenosissima vipera del Gabon. Là, lungo il fiume Minkébé e i suoi affluenti, l’uomo non mette piede volentieri: tutt’al più si spinge in canoa fino al salto di Kongou, il più imponente effluvio d’acque che il cuore dell’Africa conosca, o accatasta enormi tronchi d’ebano da traghettare sino agli estuari di Lambarènè e Port Gentil; sulla mappa i territori del nord-est restano tuttora un buco nero di cui ben poco si vuol sapere.



L’urlo di un mandrillo spaventato riporta tutti alla cruda realtà. Col suo naso rosso fiammeggiante e i canini in bella vista, non usa mezzi termini per segnalare il suo territorio. Batte il petto e lancia occhiate con aria tracotante. Non si avvicina troppo, ma fa capire pure che non indietreggerà. La riserva di Lopé è il suo regno e noi siamo solo intrusi che tanto somigliano agli scimpanzé sospesi sui rami più alti.
Non resta che ripiegare accortamente sino all’auto abbandonata e filare spediti sino a Elarmekora, a Lindili, o ancora un po’ oltre, verso Kongo Boumba ed Epona. In appena una trentina di chilometri, fra la riserva e la polverosa città dei taglialegna Ndjolé, il Gabon cela il suo tesoro più raro e prezioso: più di 1.200 petroglifi risalenti forse al Neolitico, forse a molti, molti millenni prima. Sono disseminati per le sperdute radure lungo il fiume Ogooué, su massi granitici spesso sepolti sotto le felci, e trovarli da sé è quasi impossibile.

«Stabilire una data certa non è per nulla semplice – osserva Saturnine, raddrizzandosi il berretto di guida ufficiale di Lopé e sputando i semini di un frutto tondo rubato ad un elefante – non tutti i segni sembrano incisi con strumenti di ferro. Alcuni riproducono forme geometriche, altri motivi animali. Si alternano insetti giganti e lucertole contorte, quasi ad evocare le figure totemiche di antichi riti, ma neppure i pigmei sanno più di che si tratta. Pare siano simbologie appartenute a tribù ancora più remote, cacciatori nomadi sulla via che dall’Africa occidentale portava alle vaste savane dei territori australi. Probabilmente mappe magiche per propiziarsi un cammino sicuro». Probabilmente. I pochi studi effettuati dal 1987 ad oggi non hanno offerto spiegazioni convincenti. Qualcosa non torna.


«A loro modo sono molto precise. Segnalano rilievi e avvallamenti riconoscibili ancor’oggi. Ci si potrebbe orientare senza difficoltà. Vedi questi cerchi? Se conti i livelli concentrici puoi ottenere addirittura l’altezza delle vette». Mi guarda perplesso e deglutisce a fatica. La prospettiva aerea non può essere frutto di menti primitive. L’uomo non volava allora. 
Chissà. Forse ha solo smarrito le ali. 





martedì 13 novembre 2012

IL COMPAGNO IVAN CHAI E' TORNATO


Vorkuta, ultima stazione. La voce che annuncia l’arrivo nella remota appendice della Repubblica di Komi, dopo 48 ore di treno da Mosca, mette ancora i brividi. Esilio. Lavoro massacrante. Gelo polare. Un giorno nella vita di Ivan Denisovich. Impossibile trattenere la tempesta di memorie che il solo nome dell’ex capitale dei Gulag riesce a scatenare. Eppure ovunque si aprono innocui sorrisi, quasi la visita in città fosse un’amabile cortesia anziché una picconata al cuore.


La solita Russia sfingica, sentenzierebbe Aleksandr Blok. Invece no. Sebbene i ghiacci imprigionino Vorkuta per quasi otto mesi all’anno, i suoi cittadini si sono davvero liberati degli spettri del passato e vivono ormai una città che vuole decisamente ripulirsi dalla tetra caligine delle sue miniere di carbone. Lo si capisce dall’entusiasmo stesso degli operai sospesi sul timpano del Palazzo della Cultura, in piazza Lenin, dove a colpi di vernice e pennello sta rinascendo l’orgoglio di quello che, un tempo, era il più importante avamposto sovietico della geologia industriale. 


Fra gli anni ’30 e ’50 del secolo scorso Vorkuta nacque e crebbe di pari passo con i prigionieri spediti a lavorare nei suoi enormi giacimenti minerari, ma solo una cinquantina di residenti può dire oggi di aver avuto familiari coinvolti nelle deportazioni di massa. I rari sopravvissuti se ne sono andati tutti, chi in cerca dei parenti agli antipodi della Russia, chi per dimenticare, chi semplicemente per regalarsi un futuro lavorativo diverso. A vegliare sul monumento alle vittime, un masso incompiutamente sbozzato e trafitto da filo spinato arrugginito, sono solo le orbite vuote delle abitazioni di Rudnik. Dal quartiere fantasma di Vorkuta lo si vede stagliarsi in vetta all’argine del fiume Usa, non lontano dallo storico hotel che porta il nome della città. 



E’ qui che ogni 31 ottobre si raccolgono le anime silenti della città. E’ qui che viene mantenuto vivo il ricordo di chi ha visto e ha potuto raccontare, grazie all’impegno del gruppo di volontari guidati dalla famiglia Mamulaishvili. Ed è qui, proprio qui, che Georgi Cherkov piantò nel 1931 la sua tenda da geologo d’avanscoperta, dando di fatto origine al primo nucleo della città. Forse il masso non è altro che un cuore a torace aperto, simbolo di una Vorkuta irrimediabilmente ferita e mutilata, ma capace ancora di palpitare.


“L’arrivo dei gasdotti da nord ha permesso alla città di trasformarsi in una porta d’accesso alle nuove ricchezze della Siberia – riconosce Marat, ingegnere in forza a Gazprom – e da quando ho dovuto stabilirmi qui per lavoro, ossia da quattro anni, la rete locale dei trasporti ha continuato a crescere: nuove strade, più treni, gente da ogni dove che va e viene, ma sceglie anche di restare. In fondo il costo della vita è molto più basso che in altre località della Russia artica, dove talvolta manca quel forte senso d’identità che si respira invece in ogni angolo di Vorkuta”. Parte del merito va senza dubbio riconosciuto al festival del folklore di Komi, che ogni anno, dal 1° a 7 novembre, richiama in città le numerose minoranze etniche sparpagliate sul territorio della Repubblica. Gare di slitta. Danze popolari. Mercatini artigianali. Un fitto programma di eventi al quale l’amministrazione locale ha scelto di dare un respiro sempre più ampio, a tal punto che nelle ultime edizioni non sono mancati contributi dalla Norvegia, dalla Svizzera o dalla Germania.


“Purtroppo siamo ancora in pochi a parlare inglese e gli investimenti promozionali non sono il punto forte dell’economia – confessa Ekaterina, impiegata presso l’agenzia turistica Vorkuta Tur – ma sarà necessario rimettersi almeno sui libri, dal momento che i turisti stranieri tendono quasi sempre a tornare in estate, desiderosi di approfondire la storia della città, di dedicarsi alla scoperta naturalistica dei vicini Urali o ancor più degli impressionanti idoli di pietra a Manpupuner. Trecento arrivi all’anno non sono ancora molti, ma sicuramente un primo importante passo per avviare nuove opportunità professionali, visto che di stagione in stagione i numeri continuano a crescere”.


Anche l’Italia è pronta a giocare la sua parte. Per la terza volta in pochi mesi, il direttore del museo etnografico di Torino è infatti tornato a Vorkuta, nel tentativo di completare la stesura di un libro sulla vita delle vittime dei gulag. Dopo tanta sofferenza, la storia è ora pronta a ridare quanto un tempo ha ferocemente strappato.


Attorno ai luoghi della memoria sta prendendo forma un toccante circuito di visita che qualunque scolaro di Vorkuta potrebbe già presentare: ogni anno l’amministrazione invita gli alunni a ripercorrere le vie della città, affinché il ricordo del passato si arricchisca di generazione in generazione. E così, quel che a prima vista appare oggi un fatiscente edificio classicista, si scopre essere il primo locale con docce pubbliche installato in tutta la Repubblica di Komi. Un fronzuto sentiero lastricato a margini del centro, i resti dell’asse portante di Vorkuta negli anni ‘40, l’orgoglioso Viale della Vittoria. L’architetto-prigioniero Ljuniov attende invece che le impalcature dei restauri si trasferiscano verso piazza Kirova, dove i suoi eleganti palazzi staliniani svettano a pochi passi dal primo grand hotel della regione.


Passo dopo passo Vorkuta si allunga, si allarga, si disperde verso i terreni incolti ai margini dell’abitato e si ritrova fra le rovine della cittadella di Jurshov, o sotto le ciminiere in mattone cotto di Severni Paselok: segue quei tortuosi itinerari che fiaccavano i corpi nella fatica e li logoravano negli scavi, sotto cumuli di carbone o in mezzo a fumi di scarico. Avanti e indietro. Avanti e indietro. Senza pausa. Senza speranza. Proprio come quei camion blu che oggi si rincorrono fra campi di lavoro ancora attivi e strade destinate a perdersi all’orizzonte. 







Fanno tremare il terreno ai margini della carreggiata con la stessa violenza con cui le urla degli aguzzini piegavano un tempo la volontà dei prigionieri. Incrinano le decine di croci che, all’altezza del cimitero dei tedeschi, cercano disperatamente di reclamare un nome trovato a fatica. Avvolgono nello smog assi senza più braccia per l’ortodossia.
Non importa. Il legno è fatto per marcire. Le statue votive non avranno mai il dono della parola. A tutti i caduti di Vorkuta, alle migliaia di vittime della follia dell’uomo, così come ai 53 minatori inghiottiti da una natura troppe volte violentata, non servono nuovi memoriali in campi di periferia: il compagno Ivan Chai avrà un pensiero per tutti loro. 



Ogni primavera torna a far visita alle anime senza tomba e a ciascuna, immancabilmente, dispensa il più dolce dei pensieri: il viola scarlatto dei suoi petali, nella terra dove tutto s’è fatto nero.

Persino la neve.     


  

domenica 21 ottobre 2012

IL TE' NELLA TUNDRA


Li hanno visti all’altezza della stazione numero 13. No, le ultime voci sostengono siano poco più sotto, verso Chralov. Di sicuro si trovano nei pressi di Laboravaya, dove la poetessa Anna Petrovna Nerkagi gestisce una scuola tradizionale dedicata alla cultura Nenets. O forse non più. Sono trascorsi almeno mille anni dai primi avvistamenti, ma i “nomadi” del Nord sanno ancora creare scompiglio sulle mappe della penisola di Yamal. Cercare di raggiungerli attraverso la nuova ferrovia gestita da Gazprom, un immenso binario di oltre 500 chilometri che si allunga dalla piccola stazione di Obskaya, poco a est di Labytnangi, al modernissimo impianto d’estrazione del gas a Bovanyenkovo, può rivelarsi infatti un’arma a doppio taglio. Troppo rapidi i loro spostamenti rispetto alla bolsa marcia del treno: le tende mya appaiono all’improvviso dal finestrino, asserragliate su qualche rara altura nel bel mezzo di una tundra insidiosamente acquitrinosa, ma sfilano via in modo altrettanto repentino. Quando si torna sul posto, anche a poche ore di distanza, potrebbe essere già troppo tardi.



Occorre armarsi di tanta pazienza e di un pizzico di fortuna. La vita del nenets non è affatto scandita dalle rivoluzioni del sole, che oltre il circolo polare artico dilata il tempo in una dimensione troppo evanescente per l’uomo crono-logico, né tanto meno da quelle umane: a dettare i ritmi è sempre e solo la sua inseparabile compagna, la renna. Molto più semplice, allora, confidare sui grovigli di licheni che pure d’estate imbiancano il terreno di Yamal.

Se sono abbondanti – suggerisce Jenia, giovane pastore nenets di passaggio a Chralov – sei quasi sicuro di trovare qualcuno di noi. Oppure devi affidarti alla pescosità dei piccoli laghi nelle vicinanze. Sono i due principali criteri in base ai quali un nenets sceglie di accamparsi, al di là dell’esposizione al vento: non esistendo barriere naturali, a volte soffia talmente forte che può ribaltare le nostre mya”. Sorride. “D’estate, comunque, corriamo meno rischi”. Ogni volta che conclude una frase, non manca mai di schermirsi. Forse per timidezza, dando talvolta l’impressione di sentirsi giudicato dallo sguardo un po’ perso dei visitatori; forse per l’inevitabile ingenuità delle domande che, agli occhi di un nomade, avvicinano l’uomo sedentarizzato a un bimbo curioso. D’altra parte a quattro anni il nenets è già un uomo fatto: sa mungere le renne, riesce a guidare una slitta, aiuta a montare le tende.

Dima è il mio settimo figlio – aggiunge, facendo segno verso un buffo fagotto avvolto in una tutina pelosa – ed è bravissimo col lazzo. Ogni giorno si esercita con i suoi fratelli e gli zii, dal momento che per gestire una mandria di renne come la nostra, formata da circa 300 capi, è necessario l’aiuto di almeno una decina di persone. Questa è la sua prima scuola: quando d’inverno ci spostiamo verso sud, ai mercati di Salekhard o Nadym, avrà poi occasione di familiarizzare con quella dei russi. Mentre lui studia, noi vendiamo i prodotti realizzati durante l’estate: guanti o stivali in pelle, oggetti di legno intagliati, talvolta renne. Ma con parsimonia. Ognuna di loro vale almeno 7.300 rubli!”.


Fuori dalla tenda le attività fervono. Un palo solitario mette alla prova l’abilità alla corda di tre giovani mandriani, mentre alcune ragazze fanno la spola dagli assembramenti di renne alle tende, trasportando pesanti secchi colmi di latte. Lo zio di Jenia non si è ancora mosso dall’angolo riservato alla conciatura delle pelli: da ore raschia con meticolosa insistenza il fianco di una foca catturata al mattino, affinché la carne d’affumicare sia più tenera e assorba meglio l’aroma delle erbe. Poco più in là, una slitta aleggia su soffici cuscinetti di muschio, trainata da cinque renne che devono vincere la paura di guadare i corsi d’acqua. Sul suo seggiolino sono distesi panni imbottiti e alcuni campanellini pendono ai lati, come se quel posto fosse in realtà riservato a qualcuno di molto importante, benché alla guida non ci sia nessuno. Corre in su, in giù, ma si tiene sempre ben lontana dalla ferrovia.

Agli occhi dei nenets è praticamente invisibile. Non ne parlano. Non la indicano. Non la vedono. Eppure il pane scaldato accanto al fuoco sotto la mya, così come il tè o i biscotti alla crema offerti agli ospiti, non crescono certo nella tundra. Da lì, semmai, arrivano le bacche maroshka servite in sugose piramidi arancioni, o alcuni inquietanti fegatini rossi e sanguinolenti, che nessuno osa toccare. Raro che gli abitanti della tundra si lascino oggi sorprendere mentre divorano le interiora crude di una renna, o quando sorseggiano il suo sangue caldo, ma è un’abitudine che non li abbandona sin dai tempi in cui i cosacchi diedero loro il nome di samoyedi. Cannibali.


Dal canto loro, i nenets controbattono scherzosamente appellando talvolta i membri del personale Gazprom come “i nuovi cosacchi”, anche se, per molte famiglie, la ferrovia rappresenta davvero un’anomalia del paesaggio da cui preferiscono tenersi lontani.
 Yamal significa fine del mondo – confida Jenia – perché queste sono terre dove l’uomo è solo ospite provvisorio e gli dei di casa. Almeno così racconta mio nonno. Lui se ne sta molto più a nord, in un altro accampamento, dove sono piantati alcuni totem che raffigurano i volti degli spiriti della tundra: lo aiutano a farsi obbedire dai cani e dalle renne, ma gli sono vicini anche quando la notte batte il tamburo attorno al fuoco e viaggia dove abitano i nostri avi”. Ride, arrossendo. “Mio nonno è un tipo strano! Pensa che le anime beate vivano a nord e a sud quelle da cui tenersi lontani”.

Quasi a scusarsi, solleva uno scialle blu, decorato con motivi geometrici a forma di corna di renna, sotto il quale appaiono alcune icone col volto di Cristo. Sono regali degli operai che lavorano lungo la ferrovia. “Dima passa le ore a guardarle. Adora i loro riflessi alla luce del sole”.
Lo sgrigiolare dei legnetti al centro della mya è l’unico bisbiglio che s’insinua nel silenzio profondo dell’accampamento. A volte pare quasi che l’intera tundra trattenga il fiato, sciogliendosi d’improvviso negli sbuffi meditabondi di qualche renna dal pelo bianco. 


Alcune di loro ruotano il collo verso un punto all’orizzonte. Dilatano le narici. Si agitano per qualche secondo. E’ in quei momenti che lo sguardo dei nenets si fa stranamente più vivo e attento, mentre un monotono tramestio, di gola in gola, prende lentamente forza. Li fa vibrare come fazzoletti colorati al vento. E così accade sotto la tenda di Jenia.

Il vecchio zio ha chiuso gli occhi e si dondola ora sulle ginocchia piegate; le nipotine lo imitano accodandosi con mormorii più acuti, il piccolo Dima atteggia le labbra in una “o” grassoccia. Piano piano il canto di famiglia s’intreccia in un’improbabile melodia, dando modo alla moglie di Jenia di avvicinarsi a un bauletto in legno decorato, senza farsi troppo notare. Estrae due corpi di pezza dalle sembianze umane e con loro scompare fuori dalla tenda. Il tintinnio di una slitta.

E’ di nuovo tempo di partire. La strada ha ritrovato finalmente la sua guida. 




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lunedì 24 settembre 2012

IL BALUARDO DELL'ARTICO


Al settimo giro di corsa attorno ad Alyosha, un plurimedagliato reduce abbandona il suo fiero contegno e mi sbircia con aria complice. 
Conosco bene quell’espressione, così simile al volto di ogni nonno che muore dalla voglia di raccontare della sua gioventù, ma non osa frapporsi all’oscuro armeggiare tecnologico delle nuove generazioni. 


Occhieggia la mia macchina fotografica, puntata come una mitragliera sugli oltre 40 metri del Difensore dell’Artico Sovietico durante la Grande Guerra Patriottica: di fronte a spie intermittenti e tasti mimetizzati non sa proprio che pesci pigliare. Pochi secondi dopo ritenta sfilando una sigaretta con le sue dita callose, forse deformate dai troppi colpi sparati contro le armate tedesche, ma indugia sulle scritte poco invitanti del pacchetto e ci ripensa. Quando una biondissima atleta sfreccia sotto il nostro naso per l’ottava volta, il suo asso è servito.



Eh sì…eh sì! Noi pure non mollavamo mai”. Ci siamo. Sta caricando le cartucce. “Pensa un po’: eravamo asserragliati laggiù, proprio dove sta guardando Alyosha: la Valle della Gloria! Così la chiamano oggi, ma non era che una distesa di ghiaccio sepolta di corpi, allora”. Nono giro. Neppure la bionda dà segni di cedimento. “Caspita, come corrono le ragazze! A Murmansk corrono tutti! Persino la città ha fretta, oggi! Quasi non la riconosco più: l’unico inamovibile è rimasto solo lui, Alyosha. Lo sai? Pesa cinquemila tonnellate: è la seconda statua più grande di tutta la Russia, dopo quella della Madre Patria a Stalingrado”. 



Sì, Stalingrado. Non Volgograd. Inutile fare il puntiglioso, ricordando che quel nome è stato cancellato già da molti anni. Per uomini come Viktor, che hanno ancora negli occhi l’orrore della guerra e il sacrificio dei migliori, Stalingrado è Stalingrado. Punto e basta. Vorrebbe farmi da Cicerone al museo della marina, ma è aperto solo da giovedì a lunedì, per cui alla fine si accontenta di descrivermi la possenza dei rompighiaccio e dei torpedo che presidiano l’Oceano Artico. Mentre sfiliamo sotto le lapidi che commemorano le medaglie all’eroica resistenza delle città sovietiche, Alyosha non fa una piega. 

































Chissà quante volte avrà risentito le storie di Viktor. Imperturbabile nella sua impressionante mole di cemento armato, continua a fissare l’orizzonte, col fucile a tracolla e il pesante mantello abbottonato sino al collo: lui e Viktor tengono sott’occhio ogni giorno le attività del gigantesco porto ai piedi della collina, dove decine di gru gialle sono impegnate a caricare carbone sui convogli in partenza verso est.

Qui è sempre stata la guerra a dettare le scelte” - aggiunge un po’ spiazzato l’anziano reduce. “Murmansk è nata per rifornire le truppe russe nella Prima Guerra Mondiale, poi è stata usata per foraggiare la controrivoluzione contro i Bolscevichi, poi per passare aiuti contro l’invasione tedesca, poi di nuovo per ospitare la flotta sovietica. Tutto merito della Corrente del Golfo, che mantiene navigabili le acque vicine al porto: ora però il clima sta cambiando e anche il resto dell’artico russo è libero dai ghiacci per diversi mesi”. Gonfia il petto. “Già. Murmansk sarà presto lo scalo più importante e veloce per raggiungere l’America via mare”.

L’impacchettamento dello storico hotel Artika, che si staglia più in alto di tutti nella skyline dell’ultima città fondata dall’impero zarista, è il segno manifesto che i tempi grigi sono finiti: dopo il trasferimento dei sommergibili atomici nella vicina base di Severomorsk, ai tempi della dissoluzione dell’Unione Sovietica, Murmansk aveva subito un pesante colpo. Per le vie del centro, però, ogni giorno aprono nuovi caffè, empori di lusso sfoggiano vetrine scintillanti, persino il numero degli hotel è decuplicato negli ultimi cinque anni, mentre l’amministrazione locale ha dovuto lanciare un portale in inglese per far fronte alla domanda in continua crescita dei visitatori stranieri (clicca qui). 


Poco conta, allora, che il mastodontico progetto “Lapponia Russa” sia incorso in un’inaspettata battuta d’arresto: anche se non è stato possibile raccogliere tutti i fondi per completare i lavori d’allestimento di un complesso sciistico ed etnografico nei pressi del lago Krivoe, dal valore di 700 milioni di rubli, gli arrivi turistici hanno già superato il traguardo delle 40mila unità all’anno.




























Olga è invece al decimo giro. Piegata sulle ginocchia per tirare il fiato, mette in evidenza un’originale maglietta blu su cui corrono motivi a zig-zag gialli e rossi. 


“Viene dal festival Alluring Worlds – mi spiega con vivo entusiasmo. “Si tiene ogni anno a fine agosto, nella piazza a fronte del Palazzo della Cultura Kirov. In realtà a Murmansk è tradizione festeggiare i popoli Saami e Pomor durante l’inverno, ma il costante arrivo di turisti sta spingendo a organizzare molti eventi nel periodo estivo: se vuoi familiarizzare con danze e cori dei popoli indigeni, o semplicemente ammirare i loro stupendi costumi, ora non serve più aspettare sino al Nord Festival di marzo. Da quando sono stati scoperti nuovi petroglifi nei pressi del lago Kanozero, qui è esploso un vero e proprio revival delle culture tradizionali. Devo scappare, però: mi sto allenando per i campionati di mountain bike”. 
































Pronti, via. Una scia di profumo e Olga non c’è più. Guardo Viktor e forse inizio a capire davvero cosa intenda quando dice che la città corre. D’altra parte la pendenza di Murmansk è più che un invito a far sport: se il dislivello fra la collina di Alyosha e la sterrata via Cheluskintzev ha dato vita a un circuito agonistico urbano per mountain bike, spostarsi a piedi da un quartiere all’altro obbliga a essere in piena forma. 


La città si abbarbica sopra lievi alture che regalano ovunque una vista cristallina sul porto, ma i gradini da salire e scendere ogni giorno non sono per nulla pochi. I più giovani si sono ingegnati con l’uso dello skate, a tal punto che la scalinata a fronte della stazione ferroviaria è ora diventata un ritrovo per acrobati delle tavole. Alcune signore preferiscono invece ricorrere ai cavalli, lasciandoli pascolare bizzarramente fra le rigogliose aiuole che si aprono sui sobbalzi.  

















Ogni angolo offre opportunità per testare la propria condizione fisica: la disposizione a semicerchio dei palazzi residenziali, così costruiti per assecondare meglio la morfologia ondulata del territorio, ha infatti permesso d’allestire un insolito numero di parchi pubblici attrezzati, dove a qualsiasi ora s’incontra qualcuno intento a praticare esercizi o allenamenti. Nessuna sorpresa quando, a fianco di via Lenin, si spalanca all’improvviso lo stadio del Sever Murmansk, la squadra di calcio più a nord del mondo.



Il grande porto oltre il Circolo polare artico si conferma a pieno titolo capitale russa degli sport invernali, benché siano sempre più coloro che lo reputano soprattutto un’ideale base per la scoperta dei tanti tesori disseminati nella Penisola di Kola: le gemme di Apatity, la biosfera Lapland, il museo degli gnomi a Mochengorsk o i misteriosi labirinti neolitici delle montagne Khibiny. Forse è proprio a questo cui pensava Alyosha, mentre i suoi occhi si chiudevano sotto le granate tedesche. 






All’ineguagliabile luce rosa che fa avvampare la notte e delicatamente s’insinua nel cuore, lasciando che gli amanti a passeggio si sussurrino una timida promessa. Monamourmansk.