"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

venerdì 15 dicembre 2006

PARADOSSI DELLA FISICA CHERUBINA


Gerusalemme - Raccolto all’ombra degli infidi ulivi di Getsemani, oppur sdraiato ad amoreggiare sulle terrazze del quartiere armeno, di uno sguardo non potrà mai privarsi il profano in visita a Gerusalemme. Come un Sole che tinge d’eternità il risveglio del mattino, la dorata cupola d’Omar non irraggia verità alcuna, eppur chiama a sé con muta meraviglia. E’ sempre lì, ovunque ci si trovi: con un’ostinazione tale, che nessuna mano babilonese sarà in grado di rimuovere a 2.600 anni dall’ultima offesa al Tempio, né tanto meno la spada di un nuovo Tito. Perché nella Città Celeste nulla è come appare: i muri scompaiono alla vista, ma continuano a vivere nel ricordo; i muri dividono le genti, ma la fede nel Verbo resta pur sempre la stessa.

Se si lascia la porta di Sion, già si ode il lamento di un popolo che i Turchi trucidarono per quasi un terzo; se si cammina per il bazar, è inevitabile cogliere nei becchi delle teiere d’ottone l’eco di un lontano muezzin; se si cercano le ossa di Adamo nella chiesa del Santo Sepolcro, ci si accorge improvvisamente di essere in cima al monte Golgota: sfaccettature illusorie dello stesso universo, che danza in circolo fra vesti rosse e blu, tenendosi per mano attorno ad un centro che nessuno vede. O forse, solo giochi ambigui che tendono le ombre delle troppe candele, accese non appena la notte incombe sui portoni di casa, in omaggio alla festa di Anukka. Destinata a protrarsi solo per una settimana e un giorno nel mese di Kislev, benché conti sette fiamme e nulla più che la lingua di un servitore, la celebrazione della vittoria dei Maccabei sulle forze dei re seleucidi ha in sé qualcosa di umano e metafisico al tempo stesso: nelle otto braccia del Menorah arde l’orgoglio di chi non si piega alla legge del numero, di quanti sono capaci di ritagliare la propria identità nella melliflua sabbia del deserto mediorientale, che trasforma le dita del tramonto nei petali di una rosa.

Nella terra di David esser se stessi costa infatti enormi sacrifici, al pari di lacrime amare: significa resistere come uno scoglio all’infrangersi della storia, essere disposti ad alzare il pugnale sul proprio figlio, in nome di un credo che incarna tutta la propria essenza; significa avere il coraggio di versare lacrime sulla sordità di un muro, quando tutti stanno a guardare impudentemente la tua debolezza e s’interrogano sulla torà dischiusa.

Ma è proprio l’umiltà del silenzio a riscattare l’anima dei vinti: non è per i banchetti estivi di Erode che la roccaforte di Masada fa parlare ancor’oggi di sé, bensì per quel manto di morte indotta sotto cui riparò l’anima dell’indomito Zelota, per tre lunghi anni capace di tener testa al più perfido degli assedi. Scarno come un interrogativo, il monte del supplizio si staglia solitario nel deserto al confine con la Cisgiordania, a pochi passi da quello stesso mare che nel suo nome porta l’olezzo del cadavere, eppur già la speranza di una vita rigenerata: bastano venti minuti appena per scoprire quanto il sale sia alimento della terra, o fuoco che arde nelle ferite, sino a farti polvere della polvere.

Roma vinse la battaglia allora, ma è la guerra che ha infine perso. Il suo impero si è sgretolato, i figli di Salomone sono tornati alla terra promessa. In ritardo di due millenni, i nuovi guerrieri della Luce non hanno più avuto bisogno di riparare nelle scure grotte di Qumram, né le acque dei loro bagni sacri hanno preservato lo spirito dalla sozzura del tempo.

Eppure un vessillo bianco e blu si dispiega sopra le palme di oasi nascoste come Ein Gedi; svetta sulle acque salate di un lago che divora i suoi figli e sputa fango su chi si crede puro; è lo stesso vessillo che scruta l’aquila scolpita sulla terrazza panoramica di Haifa, ancor incredula di fronte alle geometrie Bahai che s’intrecciano al suo cospetto con l’audacia pirotecnica dei razzi Hezbollah, mentre disegnano eleganti vasche per le voluttuose ancelle di un sovrano voyeur: forse di quello stesso re che non credette all’uomo capace di mutare le acque in vino, ma dové piegare il capo alle onde riversatesi sul suo palazzo; alle bianche schiume che hanno lasciato in piedi un anfiteatro dove nessuno più acclama attori profumati d’olio, che hanno sagomato il nome di una città in cui echeggia il ricordo dei Cesari tramontati, che hanno reso il mare un po' meno nostrum.

Dare, ancor prima di prendere: ecco l’inaudito della parola messianica, che tanto turbò il proselitismo di Giustiniano, pronto a riconquistare i natali di Betlemme, per elargirvi però la contraddittoria grazia di una chiesa ortodossa. Lapidi per commemorare S. Girolamo, primo autore della vulgata biblica; severe colonne corinzie, sacrificate a sostenere il peso dell’orgoglio cristiano; icone dorate, per manifestare lo splendore della virtù d’Oriente: e sotto a tutto, quasi in disparte, la mangiatoia di una grotta che ancor oggi solleva l’enigma del Dio fattosi carne. Perché il regno dei Cieli comincia proprio dal belato di una pecora che attraversa la piana dei pastori, senza curarsi di fili spinati e barriere di cemento armato, senza badare alle lontane torrette d’avvistamento, oltre le quali il sogno della condivisione si è piano piano irreggimentato nell’efficienza del kibbutz. Nati nel 1909 come chicchi lanciati fra le sterpi del deserto, i campi del lavoro collettivizzato si sono trasformati in cellule sempre più complesse e totalizzanti, non esenti dai rischi di un tumore che fa del contadino un bracciante del fucile e dell’uomo un animale a sé dalla propria specie.

Una copula, nonostante tutto, capace di toccare la Luna con un volo alato e camminare sulle acque della “grande cetra”; pronta a farsi esplodere in un mercato di Tel Aviv o a silurare un paralitico dall’alto dei cieli. Misteri della fisica cherubina. Paradossi della gravità dello spirito.

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