"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

mercoledì 23 maggio 2012

L'Uzbekistan che sogna


Chissà che fine avrà fatto, Dima. Nove anni fa ci eravamo lasciati proprio lì, alla fermata della metropolitana Kosmonavtlars, col timore che molto presto sarebbe tutto cambiato. Aveva messo in piedi un bed&breakfast di fortuna poco più a nord, nel quartiere Chorsu, dove l’odore delle palline rapprese di latte di capra si mescola a quello di anguria fresca e shashlyk fumante nel più grande bazar di Tashkent. 

L’affitto di una camera da letto nel suo appartamento ovattato dai tradizionali tappeti suzani, su cui rose rosse stellate cercavano allusivamente di sottrarsi alla morsa dei tralci di loto, rappresentava l’ultima speranza per continuare a vivere in Uzbekistan: nel grottesco tentativo di trovare un capro espiatorio al declino dell’economia nazionale, il governo di Kharimov aveva finito per puntare l’indice anche sulla sua sospetta cattedra di psicologia sociale. Come per tutti i cittadini russi di stanza nel Paese centroasiatico, improvvisamente il mercato del lavoro si era fatto troppo stretto: giovani uzbeki scalpitanti, alla pari dei cavalli lanciati da Tamerlano alla conquista dell’Asia Centrale, avrebbero dovuto far piazza pulita degli ultimi avamposti della burocrazia sovietica. 


Peccato che, dal 1991, sia l’ex segretario del Pcus nazionale a sedere sempre allo stesso posto, mentre i giovani continuano a sognare un posto di lavoro oltrefrontiera e le conquiste del loro illustre avo a rimanere perdutamente lontane. Il tempo degli alibi facili è finito, ma a guadagnarci davvero sono state proprio le vittime del passato: gli slavi messi in fuga hanno infatti ritrovato nei gasdotti siberiani quelle promesse di benessere che il Partito aveva troppo a lungo disatteso.


Inutile, dunque, attardarsi davanti ai dischi di ceramica che celebrano il mito dei cosmonauti ormai solo sottoterra. Dima non apparirà più, né a Kosmonavtlars, né in alcun’altra delle scenografiche fermate metropolitane. Se n’è andata per davvero, col suo passo da donnone energica ma dagli occhi timidi. E’ solo un ricordo che incrina di nostalgia le geometrie taglienti del Palazzo dell’Amicizia dei Popoli. Un sospiro che spande polvere rossa sulle colonne staliniane del teatro Navoi e riapre crepe d’onestà sotto le impalcature dei palazzi neoclassici in ristrutturazione. Le maioliche di cui si veste l’Uzbekistan d’oggi sono troppo cristalline per l’anima faccendiera dei suoi commercianti, i cui denti d’oro servono piuttosto per abbagliare durante gli estenuanti baratti. Non hanno lo stesso azzurro terso dei cieli che, impassibili, accompagnano il moderno carovaniere dai pregiati allevamenti equestri della valle di Fergana alle fortezze fantasma dell’aridissimo Karakalpakstan


Sì, ammettiamolo pure: ora sono tornare ad impreziosire le quattro cupole del defilato Chor Minor di Bukhara esattamente come il panciuto minareto Kalta di Khiva, ma ben poco tradiscono del travaglio che fu. A Samarcanda cercano persino di occultare le ferite del mausoleo di Bibi Khanum, favorita di Tamerlano fattasi baciare sciaguratamente dall’architetto al servizio del despota e costretta poi a suicidarsi, là dove un leggio di pietra accoglie ora le donne in cerca di fertilità. E che pensare delle innumerevoli botteghe dove i cappelli in pelo di montone degli antichi predoni s’impilano docili gli uni sugli altri? Come non stupire di fronte alla nitidezza delle acque che riempiono le hauz senza più lavandaie, quando nelle stesse vasche pubbliche un tempo fermentava la peste? O al cospetto dei lindi portali dell’Ark, che ben nascondono il sangue dei diplomatici britannici dati in pasto ai topi e scaraventati giù dalle possenti mura della fortezza degli emiri?

Non c’è dubbio. L’antica Via della Seta ha recuperato i suoi antichi fasti, ma l’Uzbekistan delle urla al mercato e dei tondi visi nicchiosi, quello che suda e non s’imbelletta, è fuggito altrove. Lontano dalle stazioni carovaniere. Al riparo delle grotte buddiste di Termez, fra i bachi e i filari di gelsi di Kokand, nelle stanze dimenticate del museo d’avanguardia di Nukus.  

Quando sulla via per Shashkribaz la strada comincia a punteggiarsi di scalcinate Zigulì sovietiche e all’orizzonte fanno capolino i baluardi sdentati della città natale di Tamerlano, il tempo ricomincia per fortuna a scorrere. I voluttuosi vapori dell'hammam Bozori, dove visitatori e cittadini di Bukhara si ritrovano spalla a spalla come ai tempi di Marco Polo, cedono volentieri il passo ai possenti archi della residenza estiva dello "Zoppo", sulle cui piastrelle sbrecciate sembra abbia appena infierito la gelosia dell'emiro Abdullah Khan II, a caccia di un trono che mai riuscì ad eguagliare quello del padrone dell'Asia. Fra queste rovine abbandonate a se stesse, si avverte la stessa sensazione di marginalità che si respira nell'umile mausoleo di Ismail Al-Bukhari, appena 30 chilometri a nord di Samarcanda: qui le preghiere sommesse dei pellegrini che, a piccoli passi, girano attorno alla tomba dello studioso islamico non hanno nulla in comune con l'ostentata devozione di piazza Registan, pronta a celebrare la fede con smisurate madrase per gli insegnamenti coranici o mosaici dagli eretici leoni ruggenti. 



Di nuovo appaiono quelle lunghe fila di donne in abiti dagli ipnotici motivi geometrici, che al passaggio di uno straniero scoppiano immancabilmente in risa a crepapelle, preoccupandosi di coprire col foulard il carminio acceso delle loro labbra anziché i rotolini di grasso ai fianchi. Più ci si spinge verso la fornace desertica del Khorezm e le smunte abitazioni in mattone cotto di Khiva, l'oasi fortificata che ancora tiene in catene le anime degli schiavi, più l'Uzbekistan riscopre il suo lato di debordante ospitalità. A differenza di quanto accade nelle fumose chaikhana, le sale coperte di tappeti dove si centellina tè sdraiati su basse panche intarsiate, la generosità delle donne uzbeke si manifesta in pile di cibo disumane.  

Basterebbe chiederlo ad Adrian, indimenticabile compagno di tavola stroncato da un peperoncino di troppo. Sudato, consunto, incurante dei suoi giovani anni, ma ossessionato dalle navi arrugginite che il lago d’Aral arena nelle sabbie della sua inesorabile ritirata: così si era presentato il bizzarro fotografo parigino, mentre rientrava pieno di escoriazioni da una partita di calcio sui tetti dei magazzini di Bukhara.


Pensava di averla fatta franca, essendo riuscito a trovare un appiglio all’ultimo secondo, proprio quando una voragine cieca se lo stava inghiottendo, ma non aveva fatto i conti con una temibile maestrina d’assalto. Allora non lo sapevamo, ma far la spesa al bazar in compagnia di un locale è un rito cui ci si dovrebbe sottoporre con estrema prudenza in Uzbekistan: non tanto per le scene truculente dei macellai che procurano freschissima carne a colpi di mannaia, quanto per il rapporto di scambio costantemente sproporzionato fra ospite e ospitato. Se i costi irrisori del cibo danno modo di onorare la propria cuoca con ampia generosità, lei ricambierà sempre e comunque più di quanto si possa immaginare.

Avremmo dovuto capirlo subito: cortesemente confinati in un salotto arredato da emireschi sofà e bollenti samovar zaristi, non apparivamo poi tanto diversi dagli emissari di Sua Maestà alla corte del perfido Nasrullah Khan. Ad un piatto di verdure ne seguiva immediatamente un altro, quasi fosse un crimine avanzare una fetta di cetrioli salati o un raviolo ai cavoli; e mentre osservavo il suo ventre gonfiarsi, così come il sudore imperlargli la fronte, d’improvviso trascolorò pure il volto: l’amorevole maestrina stava arrivando con un piatto sormontato da una montagna di plov, straordinariamente somigliante al picco Lenin nel vicino Pamir. 


Una vera e propria piramide di riso tempestata di scaglie di carote, brandelli di bue ed agnello, insidiose cipolle bianche e misteriosi quantitativi di pepe e cumino. Sotto a tutto, spudoratamente camuffati, peperoncini rossi di micidiale potenza. Alla terza portata del glorioso piatto nazionale, Adrian riuscì appena ad urlare un disperato “Mon amì, vive la France!”. Quindi un botto, un rantolo e il riso volò nell’aria come un sacchetto di coriandoli rovesciato a tradimento. Addio Adrian: te ne sei andato anche tu come la timida Dima, come l’Uzbekistan che ancora guardava alle illusioni di Mosca e non al portafoglio di Pechino, come un riso di gioventù fascinosamente rievocato dai misteriosi Maestri del Sogno.


Soltanto uno di loro sarebbe infatti in grado di riaprire i portali del tempo, ma pochi osano sfidare le ombre di Afroasiab al tramonto, il più antico nucleo di Samarcanda addormentato di fronte al museo archeologico della città, lungo la strada che conduce alla misteriosa tomba del profeta Daniele. Già il fatto che qui sia conservato un sarcofago lungo 18 metri, capace di crescere ogni anno di pochi centimetri, dovrebbe mettere in guardia sui poteri loro riconosciuti. Fra le polverose colline rosse che sommergono gli strati più remoti della civiltà sogdiana, non è infatti raro imbattersi negli eredi degli originari culti sciamanico-zoroastriani dell’Asia Centrale. 

Si definiscono sufi; uomini di profonda saggezza che invitano a condividere immagini oniriche e ricordi, in modo tale da poter rimuovere ogni male dal profondo dell'uomo. Ancor'oggi considerano Samarcanda lo “Specchio del mondo”, il luogo d’epifania della magia, la città dove Tamerlano avrebbe dovuto ricostruire i più straordinari monumenti conosciuti durante le sue conquiste ai quattro angoli della Terra. 


Loro sono i padroni assoluti delle verità dell’inconscio, dischiuse dal contatto epiteliale fra le mortali spoglie e i resti eterni di Afroasiab. Dagli scavi sono emersi crani oblunghi di aspetto poco umano; alcuni ossari sopravvissuti appaiono solcati da simbologie enigmatiche, mentre qua e là si scorgono basi delle sinistre torri del silenzio, all'interno delle quali i corpi privi di  vita venivano lasciati in pasto agli avvoltoi, affinché liberassero le ossa dalla mortificazione della carne. A differenza di quanto sta emergendo dagli scavi nel Karakalpakstan, riesce piuttosto difficile indagare questi culti a Samarcanda: la potenza degli imperi moghul preferì scrutare nelle stelle le sentenze del fato, almeno sino a quando la lascivia degli emiri non ritenne la scienza uno strumento utile solo per i propri sollazzi.


Quasi a ribadire la netta presa di distanza dalle pratiche sacre dell'antichità, eppur confermando segretamente la magia del sito di Afroasiab, un chilometro più a nord sopravvive ancora l'enorme sestante fatto costruire dal nipote di Tamerlano, il sovrano-astronomo Ulug Beg. S'inarca per 30 metri nelle viscere della terra ed è tutto quello che rimane di un astrolabio di tre piani, attraverso cui nel Quattrocento furono studiate meticolosamente costellazioni, stelle e astri. Oggi viene apprezzato soprattutto per la sua posizione privilegiata sopra la città vecchia, aprendo ad un magnifico spettacolo sulle cupole delle moschee e delle madrase locali, ma un tempo servì a determinare persino l'anno siderale, con uno scarto di appena 58 secondi. 


Gli emiri che succedettero a Ulug Beg non furono altrettano illuminati, ma sfruttarono le meraviglie della scienza per sollazzi assai meno nobili: il gioco di specchi ricavato all'interno del palazzo dell'ultimo emiro di Bukhara, ad esempio, non serviva affatto a contemplare il mistero dell'universo, bensì a scovare angolazioni pruriginose che rivelassero le forme proibite delle sue concubine, nude e beatamente a passeggio nell'harem di Makhosa





A questo gusto per l'autocompiacimento e l'esotismo pare condannato lo stesso Uzbekistan odierno: se il perverso Alim Khan ha lasciato in eredità un campionario incredibile del kitsch, ovvero un palazzo con finestre a forma di cuore, bizzarre porcellane e costumi appariscenti, il ritrovato sfarzo delle grandi città carovaniere rischia di apparire tanto celebrativo, quanto privo di anima. Una sequenza di musei all'aperto, che tanto richiama la silente eleganza dei viali di Shan-i-Zinda: la necropoli di Samarcanda dove le spoglie degli aristocratici timuridi gareggiano fra loro, esibendo mausolei intarsiati di ceramiche blu e lapislazzuli, colonne in fiore e vetri policromi. 


Peccato che, nel frattempo, la nuova Via della Seta stia volgendo lo sguardo ai lunghi gasdotti e alle veloci ferrovie che uniscono Pechino a Istanbul, spostando irrimediabile l'asse strategico dell'economia al di là dei confini uzbeki. La dura legge del mercato dovrebbe allora ricordare alla terra di Tamerlano quel che in fondo è sempre stata. Un'immensa e sbalorditiva piazza d'incontri, dove tutto si compra, ma nulla si svende. Caso mai si conquista. 




Nuova vita per l'Aral!

Dato ormai per spacciato a causa della forte evaporazione delle sue acque, il “mar” d’Aral sta tornando a sorridere. Grazie ad un rivoluzionario progetto patrocinato dall’Unesco, si è infatti scoperto che l’ampia coltivazione dell’Indogifera Tinctoria (la stessa pianta da cui si ricava l’henné nero per la tinta dei capelli o del corpo) può desalinizzare facilmente il terreno e contribuire al ripopolamento florofaunistico della regione. Ristabilendo il corretto equilibrio minerario del suolo su cui un tempo si stendeva il lago, il sale non si spande più nell’aria: un fattore che, nel tempo, aveva portato ad evacuare la zona per via delle malattie respiratorie provocate. Sostanzialmente abbandonato a se stesso dopo il disastro ecologico causato dal governo sovietico, che per alimentare i campi di cotone aveva ridotto sempre più il flusso di acque dolci verso il bacino lacustre, l’Aral è dunque tornato ad attirare visitatori in cerca di paesaggi estremi. Buone notizie giungono anche dalla sponda settentrionale, dove la costruzione di una diga su suolo kazako ha permesso di rialzare il livello delle acque. Permane invece un alone di mistero sull’isola interna al lago, tuttora inaccessibile, dove l’appartato militare dell’Urss dovrebbe aver lasciato in eredità notevoli quantitativi di armi biologiche.



Folte capigliature 
Impossibile non notarli. Enormi, neri e pelosissimi, i “caracalpaki” adornano spesso il capo di fieri passanti ai mercati pubblici.Questi straordinari copricapi non danno solo il nome al popolo che vive nell’arida regione a sud-est del lago d’Aral, ma sono uno dei loro principali simboli di distinzione all’interno della multietnica società uzbeka. I Caracalpachi rappresentano infatti una minoranza d’origine turca che, nel tempo, è riuscita a ritagliarsi una propria autonomia amministrativa, anche in virtù delle sue radici tribali e guerriere. Nel Medioevo servivano infatti come guardiani di confine per i principati russi dell’Asia Centrale, ma ancor oggi seguono uno stile di vita più vicino a quello dei popoli nomadi che sedentari, preferendo ad esempio vivere nelle yurte (le tende della steppa). Lo si intuisce in particolare dalle storie che portano in scena attraverso le loro strepitose esibizioni di danza, dove lo scarno suono degli sturmenti a corda viene accompagnato da potenti urla di richiamo, mentre bimbi anche piccolissimi si cimentano nel popolare passo scalciato di cosacca memoria. 

Cavalli per il paradiso
Il parassita Patafillaria multipapilosa ha portato davvero fortuna agli abitanti di Fergana. Benché i loro resistentissimi cavalli godessero d’ampia popolarità già prima dell’arrivo dell’inviato imperiale cinese Zhang Qian, nel 126 a.C., fu lui a celebrarne per primo la “mistica sudorazione”. Esattamente come narrato nella mitologia mandarina, i bradi locali traspiravano sangue dalla pelle, segno della loro capacità di condurre direttamente alle porte del Paradiso. Oggi il parassita sanguinario è stato debellato, ma i cavalli sono ancora fra i più apprezzati per esplorare la magnifica valle di Fergana o dar vita alle spettacolari partite di Uloq (il polo che usa la carcassa di una capra al posto della pallina). 

Sapori  e Ospitalità




Caravan - 22 Abdullah. Kakhar ulitza - Tashkent - tel. +998.71 55 62 96 - caravan.uz
Grazioso art-café arredato in stile tradizionale uzbeko, dove gustare shashlyk, zuppa di spinaci o pollo al forno avvolto in foglia. Per i palati difficili non mancano però piatti europei. Si trova vicino all’ambasciata d’Israele. 

Old Arba - 92 M. Kashgariy - Samarcanda - tel. +998.66 233 80 20
Atmosfera molto familiare e piatti per tutti i gusti, persino vegetariani. Da provare le zuppe di zucchine, ma anche i famosi piatti di carne speziata o la tipica dymlama, composizione di riso, cipolle, carote e blocchi d’agnello. Vicino alla chiesa di St. Aleksy.

Silk Road Spices Tea House  - 5 Halim Ibodov ulitza - Bukhara - teahouse.silkroadspices.org
Considerata la tea house per eccellenza della città, grazie alla sua posizione nel cuore del centro storico, permette di degustare té allo zafferano accompagnato da noccioline caramellate, così come piattini di verdure fresche. Alle pareti sono appesi straordinari tappeti suzani, mentre ai bassi tavoli si siede su lettighe tradizionali

Tashkent Palace Hotel - 56 Buyuk Turon ulitza - Tashkent - tashkentpalace.com
Il miglior albergo della capitale, comodamente ubicato di fronte al teatro Navoi e nelle vicinanze del centro fiere/congressi. Dotato di ogni lusso, permette anche di pasteggiare dalla panoramica terrazza all’ultimo piano.

President Hotel- 53 Shokhrukh ulitza - Samarcanda  - uzhotelpresident.comi
Esattamente a cavallo fra il centro storico e quello business, è un elegante 4 stelle che segue la passione per le linee di design curve e offre un accogliente salotto da conversazione proprio al centro della hall d’ingresso.