"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

martedì 27 dicembre 2005

BRASILE



DIETRO LA MASCHERA CARIOCA

Recife - In Brasile sembra davvero tutto facile. Troppo facile. Non hai neppure il tempo di controllare il timbro sul passaporto, che già un roboante corteo di maracatu e caboclo irrompe colorato nel cuore della notte, trascinandoti tuo malgrado per le antiche vie di Recife. Sono loro i famosi guerrieri dalla testa enorme e dal fiore in bocca, i meticci indo-africani posseduti dalla frenesia ancheggiante del frevo, i volti di quella superba aristocrazia coloniale che, al giorno d’oggi, se ne va in giro con un microscopico top unisex, impreziosito da assurde maniche a sbuffo e corredato da un minuscolo ombrellino regale. Cantano, ballano, tambureggiano sin nel cuore dell’Avenida Guarapes, come se fosse Carnevale. Il fatto è che si potrebbe essere in qualunque altro periodo dell’anno, ma a loro non importa granché. Ogni pretesto è buono per far festa, a tal punto che attendere un anno intero per sfoggiare di nuovo maschere e costumi costerebbe troppa pazienza: ad ottobre i recifendes si sono inventati addirittura un secondo appuntamento ufficiale per aizzar baldoria – e i due milioni di perdigiorno che accorrono puntuali in città danno loro volentieri man forte – ma l’avvallo della burocrazia è un optional quanto mai volubile.



Si può ridere e scherzare di tutto, sia che si tratti delle catene degli schiavi ancora in mostra al Museu do Homen do Nordeste, che della prigionia imposta nella Casa da Cultura: ovattato eufemismo per indicare quell’imbarazzante mercato dove bancarelle e statuine di terracotta riempiono le celle in cui, sino al non lontano 1979, languiva il popolo dal triste volto. Sarà certo e anche effetto del fumo dolciastro che inebria i vicoli di Polo Bom Jesus, storico quartiere protetto da canali e case cornice, nel quale la samba si fonde inspiegabilmente col raggie, il tabacco con la marjia, e il forrò incalza con prepotenza ovunque: proprio come accadeva durante le serate goderecce nelle basi militari americane qui impiantate, quando il suo ritmato due/quarti era ancora lungi dall’ispirare Luiz Gonzaga, compianto maestro del tamburo zabumba. Eppure le orge notturne odierne sono ancora capaci di recuperare l’originaria filosofia yankee delle feste “For all”. O, come dicono i brasiliani, “forr ò(ll)”.



Gira e rigira, il paradosso è sempre lo stesso: il tempo passa, ma qui la storia sembra non lasciare tracce dei suoi voltafaccia. Né colpa va imputata al filantropismo dell’Unesco, che ha fatto della vicina città di Olinda un museo splendente ed impeccabile. Lassù, sulla collinetta che domina la baia della capitale del Pernambuco, case secentesche si succedono come colori appena piovuti dall’arcobaleno: gialli albeggianti, blu oltremare, ocra verecondi, gli ineguagliabili azulejos dell'Igreja do Amparo; e ancora, maliziose ragazzine che dipingono nei laboratori artigianali, barracas che vendono collanine di cocco e sesso a buon mercato, del tipo: “Hai qualche dollaro? No? Facciamolo lo stesso, sei così carino!”; e poi profumi di carne do sol sprigionati da incantevoli pousadas, dove le fette di vitello vengono fatte essiccare al vento e cosparse di sale, secondo l’antica ricetta delle baracche del Rio Grande do Norte. Dell’incendio che gli olandesi appiccarono qui nel 1636, in ritorsione alle continue rivolte dei proprietari di piantagioni cattolici, non c’è però più traccia. Delle frustate inflitte agli schiavi africani mentre sfibravano le canne da zucchero, nessuna parola. Dei segreti della loro danza mortale, solo pittoresche esibizioni che fanno della capoeira un piacevole intrattenimento per turisti. Delle favelas, una vergogna da occultare meglio del proprio pube.







Forse il Pernambuco è davvero uno degli ultimi paradisi terrestri. Prova ne è l’arcipelago di Fernando De Norohna, con le sue acque cristalline, i suoi panorami tropicali, le sue 24 specie d’uccelli marini, riuscito sorprendentemente a scampare alla furia edilizia, proclamando il 70% della propria superficie parco nazionale protetto. D’altra parte avvisaglie di un destino felice si erano già scorte nel 1504, quando il nobile portoghese che dà il nome a questo remoto Eden atlantico, circa 500 chilometri a est della costa, ne ricevette in dono la proprietà da re Dom Maoel e tanto l’apprezzò, da dimenticarsene completamente. Aristocratiche sviste. Considerando la sua posizione strategica, a metà strada tra Europa e Nuovo Mondo, lunghe furono però le contese fra francesi, olandesi e portoghesi, che qui vi costruirono decine di forti oggi andati in rovina, perdendo non pochi relitti carichi d’oro. Ma tant’è: chi se ne ricorda più?



E come indugiare di fronte alle dune sabbiose di Natal, alle partite a domino sotto le capanne da spiaggia, o al più grande albero di acagiù del mondo, custodito a Pirangi do Norte, ed il cui groviglio di rami continua a crescere ben oltre i 500 metri della sua circonferenza?

C’è davvero qualcosa di magico ed inspiegabile sulle rive di questo mare dalle acque calde, sulle cui onde giunsero in tempi arcani alcuni biondi navigatori in cerca della Nuova Atlantide.

Sorseggiando in spiaggia un cocktail di açai, persi nel roseo tramonto di Porto de Galinhas, una sottile inquietudine non può tuttavia far a meno d’insinuarsi nell’ipnotica litania dell’oceano.

Questa volta non tocca ai macabri ricordi dei soliti neri perdenti, qui maltrattati e segretamente barattati a mo’ di “galline” ben oltre il 1888, anno d’abolizione della schiavitù; non è il dosaggio poco accorto di miele, cereali e guaranà che offusca il sapore di bosco nel nostro aperitivo; non è neppure il dubbio che la bronzea ragazza dal fondoschiena ammiccante e in misteriosa attesa di un segno all’orizzonte, possa rivelarsi a tradimento un trans al lavoro. No, nulla di tutto questo.



E’ semplicemente il dubbio che là dietro, oltre le colline, fra le palme e le mangrovie, si apra già quel grande nulla chiamato Amazzonia: l’ultimo regno capace di dare un senso alla vita e alla morte, dove la verità si consuma con la stessa ineluttabile tragedia del rito d’accoppiamento delle anaconde: aggrovigliate per settimane in una viscida matassa nella quale la femmina è concupita da più maschi, d’improvviso le future madri rivelano il loro vero volto, divorando i pretendenti con la foga di chi altro non desidera, se non di procreare in santa pace.

venerdì 2 dicembre 2005

IL TAM TAM DELLA SIBERIA/3


SULLA CARDINALITA' DELL'ANIMA

Pare proprio che ogni anima abbia un suo luogo cosmico: nulla a che vedere con strampalati mondi trascendenti; è piuttosto un sentirsi segretamente orientati verso la cardinalità dell’orizzonte. Una consapevolezza che nasce nel momento in cui ci si accorge di aver viaggiato per i quattro estremi del mondo e per i suoi sette mari, o forse un primordiale richiamo inscritto nella propria carne, ben al di là dell’incanutirsi del tempo.

Difficile argomentare una propensione tanto metamorfica: da una parte, l’altrove verso cui si tende effonde malia proprio perché totalmente altro, inarrivabile al passo, remoto ed arcano quanto l’irrazionale desiderio che impone ogni qual sorta di sacrificio; dall’altra avvince semplicemente perché è il nostro più proprio, il nostro da sempre, la culla obnubilata nell’estinguersi dell’ultimo vagito.

Ebbene, quella culla è per noi il nord-est, trasversale e leggermente ambiguo, perché al margine di qualunque incrocio. Là sono gli spazi sconfinati e vergini, i silenzi carichi d’attesa e rotti solo dallo scalpiccio dei bradi nomadi. Là è il verde rigenerante e l’intima pulizia del ritorno a sé, il respiro liberato dalla balsamica frescura della taiga.

Il nord-est non è propriamente il rigore morale dei ghiacci eterni, né il manicheismo della notte e del giorno. Non è neppure il mistero dell’inaccessibile. Seppur immacolato, nelle sue vene scorre l’irrequietudine dell’adolescente, la sete del non compiuto, la pretesa di lanciarsi nella luce albeggiante alla ricerca del loto dischiuso.

La sua dimensione è dunque l’anelito e il suo focolare la tenda, peregrina ma sempre accogliente, grave di ricordi lasciati e al contempo leggera come piume di sciamani danzanti.

Il nord-est ha occhi sottili, perché scruta in lontananza, senza lasciarsi turbare da improvvisi sobbalzi, avendo dentro di sé la grandezza d’animo degli spazi infiniti.

Qui fremono le betulle, come ninfe inviolate al primo audace tocco; qui batte il tamburo sordo e penetrante, rimbalzando il cuore sino ai remoti confini del noto e dell’ignoto. E’ per questo che le anime del nord-est mai disdegnano di travalicare la propria cardinalità, ma più da essa si allontanano, più avvertono stringersi tutt’attorno una dolce malinconia, tanto simile alla deriva dell’oggi nel domani mancato.

Oltre il nord-est la terra si fa negra e buia, perché là tramontano i sogni dai profondi sospiri.


giovedì 1 dicembre 2005

IL TAM TAM DELLA SIBERIA/2



MA TUVA DOV'E'?

La Repubblica di Tuva è una piccola escrescenza della Mongolia che sorte vuole sia stata racchiusa in territorio federale russo, nel punto in cui la taiga cede il passo alla steppa. Protetta alle spalle dai monti Sayan, è abitata da circa 310mila pastori nomadi, che credono in una forma religiosa a metà strada fra lo sciamanesimo ed il buddismo. Per secoli è stata terra di conquista: di qui sono passati gli Uiguri della Cina, i Turchi dell’impero kirghiso, senza dimenticare il terribile Gengis Khan. Proprio il ceppo mongolico è quello radicatosi sul territorio con maggior insistenza, tant’è che i Tuvini sono considerati “cugini” dei Mongoli: parlano un dialetto affine, suonano i tipici violini moohrin khuur (“teste di cavallo”), cantano di gola e nei giorni di Ferragosto organizzano le piccole olimpiadi di Naadim. Corse a cavallo, lotta a corpo libero, tiro con l’arco intrattengono locali e turisti alle porte della capitale Kyzyl, presso il cui teatro municipale viene organizzato il folkloristico concorso di bellezza Miss Tuva. La città è anche nota per essere il centro geografico esatto dell’intero continente asiatico e, non a caso, conserva un singolare obelisco piantato da un misterioso inglese nel XIX secolo: segno che ne attesta l’accesa spiritualità. Possiede diversi centri di studio sciamanico, dov’è possibile consultarsi con “medici” che guariscono da ogni sorta di malattie e predicono il futuro. Dotata di alberghi di stampo sovietico, in seguito alla riscoperta del best-seller americano “Tuva or Bust” di Leighton, così come del fortunato cd di canti di gola “Voices from the distant steppe” (ripreso da Frank Zappa), da qualche hanno si sta aprendo al turismo di nicchia con una rete di bed&breakfast ed artigianali agenzie d’incoming (www.ecotuva.ru; ecotuva@tuva.ru). Oltre all’organizzazione d’incontri con sciamani, con tanto di traduttori multilingue, vengono proposte escursioni a laghi salati terapeutici e alle fonti sacre della regione (contraddistinte da pile di pietre e fazzoletti colorati, chiamate ovoo). Viene data anche la possibilità di pernottare nelle tradizionali tende a cerchio chiamate “yurta”, apprezzando la cucina dei locali e loro esibizioni di canto.

IL TAM TAM DELLA SIBERIA


Stregoni. Guaritori. Veggenti. Come già faceva notare lo storico Mircea Eliade nella sua monumentale opera, “Lo sciamanismo” (Ed. Mediterranee), sono molti i nomi e le funzioni riconosciuti ai medici della tradizione siberiana. Eclissatisi nel periodo sovietico, stanno piano piano riemergendo e riportando in auge una spiritualità animista mai sopita, oltre che metodi di cura di stampo olistico: danzano sino alla trance per ricercare i pezzi d’anima smarriti dai propri pazienti nei Tre Mondi, leggono il futuro passando le scapole di capra sulle fiamme, acquisiscono poteri dagli animali e dialogano con le anime dei morti. Giudicati pazzi e imbroglioni dai bolscevichi, gli sciamani vengono oggi considerati l’ultima àncora di salvezza dai fallimenti del razionalismo occidentale, oltre che il simbolo di un’identità etnica troppo a lungo schiacciata.

A volte ritornano. Relegati nelle appendici più remote della Russia asiatica, dalla Yakutia alla Buriatia, dall’Evenkia alla Kamcatka, gli sciamani dagli occhi a mandorla si sono infine scrollati di dosso 70 anni d’ateismo di Stato, ricacciando lo spettro del Comunismo in qualche defilato antro del Mondo Inferiore. Lotta lunga ed umiliante, che ha mietuto vite con la stessa ineluttabilità delle trebbiatrici rosse, cui la collettivizzazione per troppo tempo li ha costretti, sempreché fossero scampati alla morsa dei gulag: all’inizio del XX secolo, solo nei territori al confine con la Mongolia si contavano almeno 20 monasteri buddhisti occupati da quattromila lama. Dispensavano responsi, guarivano da gravi malattie e presiedevano ai solenni eventi delle rispettive comunità, stando spalla a spalla con duemila sciamani. Medici per antonomasia: del corpo, così come dell’anima.


Poi la luce degli stupa si è oscurata. I fuochi rituali si sono spenti. Le preghiere sono state azzittite. Ma solo apparentemente; perché sotto le ceneri ha continuato a covare quella fiamma della predestinazione sacra che, per divampare, attendeva solo il vento secco del sud. E’ arrivato da Ovest, ma ugualmente ha fatto terra bruciata di un credo che non voleva accettare la sua fine: oggi sono ben cinque le società sciamaniche di rilievo a Tuva, il cuore della rinascita degli antichi culti nomadi, e a loro fanno capo più di duecento affiliati, decisi a ristabilire il corretto equilibrio fra il mondo dei vivi e quello degli spiriti.


Ancora troppi spettri vagano inquieti per le lande del dolore. Lo sa bene Saylyk-ool Kanchyyr-ool, l’uomo al quale il padre lasciò in eredità cinque cicatrici sul collo a forma di zampa d’orso: animale di potere cui ha scelto di consacrare il proprio centro cultuale a Kyzyl, oggi capitale della piccola repubblica tuvina al confine con la Mongolia. Sa che in periferia c’è qualcuno che si lamenta. Urla per le paludi, lancia improperi, tende sinistre trappole. D'altra parte, sotto le acque mefitiche che lambiscono la cittadina siberiana sono annegate non poche vacche.

Loro pretendono rispetto ed attenzione – ammonisce con voce grave, mentre raccoglie legna per un falò sacrificale – perché nessuno li ha più ricordati da quasi un secolo a questa parte. Li hanno assassinati sotto queste betulle, contorte dal dolore, semplicemente perché non volevano credere alla parola dei bolscevichi, ma a quella dei loro avi. I loro corpi sono da qualche parte, qui sotto, nel fango, ma le loro anime non vogliono lasciarci soli. O forse, non vogliono restare sole”.

China il capo alla notte. All’orizzonte nessuno, ma chi ha occhi da Cosacco non vede mai bene. Veste un costume in pelle d’orso, da cui pendono piume d’aquila e lembi di cuoio simili a serpenti. Piccoli totem di metallo tintinnano sul petto. Preludio alla convulsa danza che il suo tamburo a tracolla sta evocando attraverso un antico canto alghisc: “Lascia che il tamburo risuoni e di nuovo il vento chiami; lascia che sgombri la soma della sofferenza, sino alla radice più profonda; lascia che il tamburo rulli la sua melodia e mormori il battaglio; lascia che l’inquietudine se ne vada col vento. Per sempre…”.


Saylyk-ool Kanchyyr ha abbandonato questa terra. E’ vero, ancor si muove davanti agli occhi dell’ordinario, ma i suoi passi non hanno più nulla di umano. Cambiano ritmo, non trovano appoggio, lo giocano a terra. I suoi occhi sono eclissati dietro lo strazio delle rughe. La sua voce è greve e distorta come il muggito delle vacche, appese per le costole sulle bianche piante della paura. Il suo indice è ritto, a dispiegare il vuoto di una ferita che solo la memoria potrà colmare.

Ma non sono solo gli spiriti dei vecchi pastori a chiedere un po’ di conforto, anelando il fumo delle primizie loro offerte sul fuoco. C’è chi fugge dal neon dell’Occidente, chi cerca una nuova via preclusagli dalla sordità della propria chiesa, c’è chi ha avuto paura di perdere il proprio potere, come il vecchio zar Boris o il suo pupillo Vladimir. Per Kyzyl sono passati in tanti. Forse troppi. Lo sciamanesimo non è mai stata la panacea di ogni male, bensì un laborioso tentativo di raddrizzare ciò cui la volontà ha mollemente rinunciato. Eppure qualcuno sembra essersene dimenticato. Oppure finge. Finge di non sapere.

Ay-Churek Oyun ha fatto della sua vocazione una professione. Sotto le piume del suo costume tiene in tasca un bigliettino da visita, tradotto in inglese e russo: “Chairwoman of the Centralized religious organization of Tuva’s Shaman Tos Daar”. E’ una sciamana con tanto di certificato internazionale. Quando non chiede soldi ai turisti in cerca di facili emozioni, organizza conferenze o simposi su problemi psico-spirituali in tutto il mondo. Stati Uniti, Francia, Svizzera. Persino in Italia. Non corre buon sangue fra lei e Saylyk-ool Kanchyyr-ool. Uno sciamano ha bisogno della sua terra per conservare i propri poteri. Altrimenti è solo teatro e parole. Chiacchiere e distintivo.

E a Kyzyl inizia ad esserci troppo rumore: sarà perché il concorso di Miss Tuva promette ogni Ferragosto di premiare la ragazza più bella della Siberia; sarà perché assistere al festival del Naadim è un po’ come proiettarsi al tempo di Gengis Khan e dei suoi arcieri a cavallo, ma gli sciamani – quelli veri - sono tornati a mettersi in cammino. Verso nord, lontano dagli strepiti, vicino alla montagna sacra di Buyan Tugad, diretti alla gola che si apre sull’isola di Olkhon, sperduta nel cristallino Bajkal; o ancora più in là, oltre i torrioni cambrici dell’immensa Yakutia, proprio là, dove ogni interrogativo s’azzittisce nel ghiaccio eterno. Quel ghiaccio che ieri soffocò la marcia dei Mammuth ed oggi spregia l’oro dei compromessi.


MA TUVA DOV’E’?

La Repubblica di Tuva è una piccola escrescenza della Mongolia che sorte vuole sia stata racchiusa in territorio federale russo, nel punto in cui la taiga cede il passo alla steppa. Protetta alle spalle dai monti Sayan, è abitata da circa 310mila pastori nomadi, che credono in una forma religiosa a metà strada fra lo sciamanesimo ed il buddismo. Per secoli è stata terra di conquista: di qui sono passati gli Uiguri della Cina, i Turchi dell’impero kirghiso, senza dimenticare il terribile Gengis Khan. Proprio il ceppo mongolico è quello radicatosi sul territorio con maggior insistenza, tant’è che i Tuvini sono considerati “cugini” dei Mongoli: parlano un dialetto affine, suonano i tipici violini moohrin khuur (“teste di cavallo”), cantano di gola e nei giorni di Ferragosto organizzano le piccole olimpiadi di Naadim. Corse a cavallo, lotta a corpo libero, tiro con l’arco intrattengono locali e turisti alle porte della capitale Kyzyl, presso il cui teatro municipale viene organizzato il folkloristico concorso di bellezza Miss Tuva. 

La città è anche nota per essere il centro geografico esatto dell’intero continente asiatico e, non a caso, conserva un singolare obelisco piantato da un misterioso inglese nel XIX secolo: segno che ne attesta l’accesa spiritualità. Possiede diversi centri di studio sciamanico, dov’è possibile consultarsi con “medici” che guariscono da ogni sorta di malattie e predicono il futuro. Dotata di alberghi di stampo sovietico, in seguito alla riscoperta del best-seller americano “Tuva or Bust” di Leighton, così come del fortunato cd di canti di gola “Voices from the distant steppe” (ripreso da Frank Zappa), da qualche hanno si sta aprendo al turismo di nicchia con una rete di bed&breakfast ed artigianali agenzie d’incoming (www.en.tuvaonline.ru). Oltre all’organizzazione d’incontri con sciamani, con tanto di traduttori multilingue, vengono proposte escursioni a laghi salati terapeutici e alle fonti sacre della regione (contraddistinte da pile di pietre e fazzoletti colorati, chiamate ovoo). Viene data anche la possibilità di pernottare nelle tradizionali tende a cerchio chiamate “yurta”, apprezzando la cucina dei locali e le loro esibizioni di canto.

lunedì 14 novembre 2005

DANZANDO CON GLI SCIAMANI/5



SPETTRI RASPUTINIANI

C’è chi sostiene che Rasputin sia ancora vivo. Ripensando alle parole incredule del conte Jusupov, il nobile che tentò di assassinarlo nella notte del 16 dicembre 1916 prima col veleno, poi sparandogli più colpi di pistola, finendo per annegarlo disperatamente sotto il ghiaccio, l’idea non sembra poi tanto peregrina. Il monaco nero, colui che per oltre un decennio riuscì a stregare la famiglia zarista manovrando le fila della Russia, l’impenitente predicatore del sesso libero come rimedio contro i demoni carnali, si aggira per le strade del paese natale sotto falso nome. Viktor Prolubshikov ha gli stessi occhi penetranti di Rasputin, la stessa scriminatura fra i lunghi capelli corvini e la folta barba, ma soprattutto viene ritenuto dai concittadini di Pokrovskoe il diretto discendente dello starec.

“La mia bisnonna lavorava al suo servizio come cameriera – biascica cercando di non ruzzolare a terra, dopo l’ennesima sbronza di vodka – e inevitabilmente finì sedotta dalla sua personalità. Lui aveva il potere di capire perfettamente cosa una donna desiderasse in un determinato momento, un po’…un po’ come in quel film holliwoodiano con Mel Gibson”.

Sogghigna come se la sapesse lunga, nonostante abbia perso la casa da pochi giorni. Vinto dai sopori dell’alcool, ha lasciato cadere un mozzicone di sigaretta nella sua dacia di legno, bruciandola in pochi minuti, ma riuscendo miracolosamente a mettersi in salvo. Proprio come soleva capitare al suo presunto avo, capace di sottrarsi per anni a ripetuti attentati, sopravvivendo ad ogni eccesso.

“La gente viene qui a Pokrovskoe per vedere la casa di Rasputin – aggiunge – ma è stata abbattuta dai Comunisti nel 1980, temendo pellegrinaggi stranieri nell’anno delle Olimpiadi di Mosca. Ora al civico 78 vive mio cugino, mentre di rimpetto è stato creato un museo dove tutti vanno a vedere sempre e solo una cosa. Ma decido io se farla vedere o no”.

Da anni si dice che in una delle teche lì conservate sia stato messo in visione il gigantesco “orgoglio” dello starec, ma come abbia fatto a preservarsi sino ad oggi nessuno lo sa. Forse è l’ennesima trovata pubblicitaria di Viktor, per strappare al turista una bottiglia di vodka in più. In fondo, come diceva il suo avo, l’importante è dare all’uomo un motivo per cui credere. Adagio tipicamente siberiano, che lega per lo stesso filo il “barone pazzo” von Ungern-Sternberg (che si credeva la reincarnazione di Gengis Khan ai tempi della lotta contro i bolscevichi) all’odierno Vissarion (un ingegnere russo che, proclamatosi vero Messia cristiano, ha fondato in Kakhassia una “città del Sole” ultraecologica ed isolata dal mondo).

DANZANDO CON GLI SCIAMANI/4



MISS TUVA

Non c’è visione sciamanica più illuminante, che assistere alla consacrazione di una dea in carne ed ossa, ovvero Miss Tuva. Il concorso di bellezza che ogni anno ha luogo a Kyzyl, a cavallo dei giorni di Ferragosto, è indubbiamente un’ottima chance per farsi un’idea del tipico clima dei festival siberiani. Se in Yakutia l’appuntamento cardine si chiama Ysyakh, nella piccola repubblica al confine con la Mongolia è conosciuto piuttosto come Naadim. Per quanto il primo vada in scena due mesi prima (durante il solstizio d’estate), le due celebrazioni si somigliano e si richiamano per molti aspetti: a nord i locali danzano in circolo con gioielli d’argento sulla fronte e sciamani vestiti da lupi alle spalle, si sfidano in gare di lotta libera o a cavallo, bevono latte fermentato di giumenta (kymus) ascoltando i cantastorie narrare l’epopea dell’eroe Olonkho; a sud prevale una vena più agonistica, poiché gli uomini si sfidano in prove volte ad esaltare le qualità della caccia e del combattimento tipiche dei nomadi.

“Dal Kazakistan alla Yakutia, passando per il Kirghistan e la Mongolia, siamo tutti figli dello stesso ceppo altajco-mongolico – ha spiegato Suzannah Mongulek, promoter ufficiale della cultura tuvina in quanto ultima vincitrice del concorso di bellezza locale – e, al di là delle prove d’abilità, è senz’altro la musica a mostrare meglio le nostre comuni radici. Un vero mongolo dev’essere in grado di suonare correttamente il morin khuur, una sorta di violino costruito in origine con costole e criniera di cavallo, proprio come saper cantare gli höömi, basati su profondi suoni di gola, laringe, stomaco e palato, i quali danno modo di emettere contemporaneamente due melodie separate”.

A Tuva una miss non può aspirare al titolo se non sa muovere passi di danza tsam, impersonando ad esempio Tserendug (un vecchio sciamano canuto), se non è capace di memorizzare le più insigni poesie degli avi o improvvisare lodi in rima per la propria terra, se non ha idea di come si costruisca un beshiks, tipica culla di legno ad archi. Per un nomade tutto dev’essere guadagnato con le proprie forze. Persino la bellezza. Una bellezza morale, ancorché estetica, che tanto somiglia ad una verità perduta.

DANZANDO CON GLI SCIAMANI/3




KALAMNIE!

Non c’è modo di conoscere davvero, se non viaggiando. Per gli sciamani siberiani il viaggio è tuttavia qualcosa di assai differente da quanto noi intendiamo; non a caso manca un termine appropriato per tradurre il loro concetto di “kalamnie”. Difficilmente se ne viene a capo, se ci si accanisce ad inseguire per taighe solitarie e steppe desertiche le scorbutiche guide spirituali yakute. Al fine di poter accedere ai veri “riti di passaggio”, non basta sborsare qualche dollaro in uno dei posticci centri sciamanici che stanno affiorando nella “nuova” Russia, ma sottoporsi ad un lungo apprendistato presso i maestri di Tuva, altra piccola repubblica sul confine nord-occidentale della Mongolia, universalmente riconosciuto come centro geografico dell’Asia, esattamente come polo propagatore dello sciamanesimo stesso.

Insieme a Kara-ool Dongun, attempato tuvino che ancora porta sul collo l’impronta della mano con cui il padre gli ha infuso i propri poteri rituali, nonché consulente di Elsin e Putin, ho dovuto così trascorrere lunghe notti ad imparare a riprodurre i richiami degli animali delle foreste, onde acquisire fisicamente le loro virtù; ad assorbire la linfa vitale ed il ritmo della natura avvinghiandomi nudo sulle betulle, ad inalare fumi di licheni bruciati per purificare il mio corpo, a confezionare “eeren” (cioè feticci in cui esteriorizzare il nostro doppio) con stoffe e sostanze organiche. Al termine di prove sempre più bizzarre, è però giunto il sospirato invito.

In una notte di plenilunio sono stato condotto nelle paludi fuori Kyzyl, la capitale di Tuva, ove teschi e carcasse di vacche appese alle piante segnalano la presenza di un sito sacro in cui vennero assassinati due pastori. Dongun lo ha saputo attraverso voci ascoltate in sogno, mentre dormiva in quel luogo; le ricerche poi condotte in città gli hanno confermato l’omicidio lì commesso oltre ottant’anni fa da un gruppo di bolscevichi, contrari alle “superstizioni” dei locali.

Dopo aver acquistato salami, latte e biscotti da riporre in un altarino di legno costruito al centro di un ovoo, il cerchio sacro dove evocare con libagioni gli spiriti trapassati, Dongun si è trasformato insieme alle fiamme votive. Con indosso un costume di penne di falco e pelle d’orso, ha iniziato a suonare il proprio tamburo ad un ritmo sempre più frenetico, danzando scompostamente e intonando gli antichi alghisc tuvini. Ebbro di fumi, col sangue che pulsava nelle tempie sin quasi a scoppiare, la voce deformata in suoni spaventosamente baritonali, Dongun è caduto a terra contorcendosi con gli occhi ribaltati, la bava alla bocca. E l’indice sinistramente alzato. Nella notte tuvina non eravamo più soli.

DANZANDO CON GLI SCIAMANI/2



LENSKY STOLBY

Al cospetto degli impressionanti torrioni del fiume Lena, colonne basaltiche del periodo Cambrico alte decine di metri, si ha l’impressione di essere giunti nel regno degli Elfi mostrato nel film “Il Signore degli Anelli”. Un alone di magia avvolge effettivamente queste straordinarie creazioni dei processi tettonici, sagomate da terremoti ed erosioni millenarie, così come dagli scalpelli dei cacciatori nomadi rifugiatisi fra le caverne qui dischiusesi. Le concentrazioni più spettacolari si trovano circa 200 chilometri a sud di Jakutsk, la capitale della Repubblica di Sacha fondata dai reggimenti cosacchi di Golovin e Glebov nel 1638. Incorniciano a mo’ di severi guardiani le rive del fiume Lena, che ghiacciando d’inverno rappresenta la principale via di scorrimento della Yakutia: grazie ad un letto esteso per 4.400 chilometri dal lago Baikal all’Oceano Artico, centinaia d’uccelli nidificano qui, mentre nelle acque del fiume vivono oltre 36 specie ittiche, fra cui il temuto “taimen”, il cosiddetto pesce-tigre (oltre che un enorme ittiosauro preistorico in un lago nei pressi della sua foce). Questa traiettoria, che mette in comunicazione le fonti vergini dei Monti Sayan a sud di Tuva, i monoliti a forma di ombelico presso Salbyk in Kakhassia, nonché le barriere rocciose del nord, pare ben più che un’autostrada naturale.

“I torrioni della Lena sono un sito sacro – mi ha ammonito uno sciamano locale, medico e guida spirituale per gli yakuti – tant’è che, inoltrandosi per le intercapedini della roccia, inevitabilmente affiorano pitture ed incisioni dedicate a dei ormai sconosciuti: sono i resti di una civiltà preneolitica a noi superiore, che, in coincidenza del Kali-Yuga (la quarta epoca di decadenza dell’umanità iniziata circa seimila anni addietro), pare essersi ritirata dalla superficie terrestre, rifugiandosi nelle cavità sotterranee di cui molte tradizioni narrano”. Si tratta di raffigurazioni talvolta sorprendentemente simili a certe saghe wotaniche preservatesi sulle pietre runiche della Scandinavia. Soggetti solari, che fra svastiche, frecce e coppe iniziatiche (dal soma degli Indù all’Haoma dei Persiani, sino al sangue di Cristo, una bevanda d’immortalità è quanto di più prezioso l’umanità abbia da sempre perduto), alludono segretamente ai misteri di Agharti.

Gli sciamani yakuti indicano questa località come uno dei punti più recettivi per la raccolta d’energia (analogamente a quanto avviene per altri sistemi rocciosi “line-up”, come Externstein in Germania), affinché sviluppando appieno la facoltà percettive del corpo si consegua la capacità di penetrare nei tre mondi in cui il cosmo è diviso.

DANZANDO CON GLI SCIAMANI/1




OLTRE LA YAKUTIA

Conquistare la Yakutia è molto più semplice nella realtà che a Risiko, gioco per il quale questa sperduta regione siberiana è riuscita a ritagliarsi l’unica notorietà di cui gode nel nostro Paese. Un italiano fra i suoi confini è un evento così straordinario da indurre ad aprire qualsiasi porta, persino quelle del Ministero al Turismo della sua capitale Jakutsk: è qui che lo scorso agosto ho infatti ottenuto l’autorizzazione ad inoltrarmi nelle parti più recondite del continente asiatico, dopo aver rassicurato rappresentanti di etnie quali gli Eveni, gli Evenki, gli Yukaghiri e i Ciukchi di non essere uno Yeti biondo, ma un “homo brianteus” in vacanza.

Estesa su una superficie di 3 milioni di chilometri quadrati alle appendici nord-orientali della Russia (quasi un quinto della sua superficie), la Yakutia si è così trasformata improvvisamente da leggenda in realtà: dopo aver anelato i suoi inverni impossibili, che nella cittadina di Oymiakon vedono scendere la temperatura oltre i 70 gradi (cifra record per un luogo abitato); dopo aver sognato della festa che il lappone Santa Klaus qui celebra ogni marzo col collega russo Den Moroz e a fianco di Chyskhann, il Signore dei Ghiacci; e ancora, dopo aver fantasticato attorno ai diamanti, all’oro e all’avorio delle mastodontiche zanne dei mammuth preistorici, intrappolati per millenni nella neve del permafrost, sono riuscito a tener fede alla promessa strappatami da uno sciamano buriato due anni prima. “Vedo un’aura dorata attorno al tuo capo – si era stupito nel darmi la benedizione al termine di un rito propiziatorio – è un segno: chiunque possieda una spiritualità tanto forte, è destinato a conoscere i segreti del Grande Nord. Lascia che il passo ti guidi lassù”.

Allora non gli diedi retta, proseguendo il mio viaggio lungo la ferrovia Transmongolica. Eppure, col passare del tempo, un richiamo sempre più forte mi ha attratto verso “quell’immensa distesa a est del cuore”, che il poeta francese Philippe Jaccottet ha così deliziosamente cantato nei suoi versi. Movendo dalla Mosca dei cosmonauti sovietici verso Yekaterinburg, la città ove il 16 luglio 1918 vennero giustiziati lo zar e la sua famiglia, quindi alla volta di Pokrovskoe, villaggio natale dell’ambiguo monaco Rasputin, sempre più in là, sino alla sperduta Jakutsk cosacca, questo viaggio a ritroso nella storia russa ha piano piano assunto le sembianze di un’inconsapevole regressione verso gli abissi dell’io, fagocitandomi nel pozzo del sapere da cui ogni cultura è scaturita: lo sciamanesimo.

Proprio attraverso un lungo apprendistato nelle tecniche sacre dell’estasi si è infine manifestato il senso di un’esperienza tanto estrema: non la mera riscoperta di uno stile di vita votato ad omaggiare le meraviglie della natura, come predicano le arrembanti mode “new age” che ciclicamente tornano nell’asfittico Occidente, bensì l’iniziazione ad una tradizione esoterica antichissima, propria dell’intero genere umano.

Lo scrittore Saint-Yves d’Alveydre ne ha parlato curiosamente in un’opera oggi ormai quasi dimenticata (“Mission de l’Inde”, 1910), l’ex funzionario menscevico Ferdinand Ossendowski ha acceso l’attenzione sui suoi aspetti più eclatanti (“Bestie, Uomini e Dei”, 1924), ma solo lo storico René Guenon ne ha probabilmente analizzato le implicazioni nel modo più lucido e coinvolgente (“Il re del mondo”, 1958): il mistero dei misteri, l’eterna fiamma che arde in ogni anima faustiana, risponde al nome di Agharti, l’inaccessibile mondo sotterraneo ove una schiera di dodici eletti regola le sorti della Terra sotto un’unica guida. Che si tratti di una potente rappresentazione simbolica delle leggi universali, o piuttosto di un vero luogo cosmico, solo rari iniziati hanno avuto il diritto di pronunciare l’ultima parola a riguardo: decine di esploratori ed archeologi, dall’intrepido Sven Hedin ai visionari di Himmler in forza all’Ahnenerbe, si sono affannati nel cercare l’accesso o le prove che attestassero l’autenticità degli indizi custoditi nei testi sacri di tutte le religioni storiche, dai Veda indiani alla Bibbia cristiana. I più sono morti sottoponendosi a rischi inconsulti; altri sono impazziti nell’impossibilità di venire a capo dell’enigma; solo alcuni hanno trovato la via per la discesa ad Agharti, ma mai più quella del ritorno. Tutti con la stessa certezza: la Yakutia è il luogo delle risposte.

domenica 30 ottobre 2005

YEMEN




I MILLE ED UNO YEMEN

Sana’a - Masticano, masticano e ancora masticano. Sempre con la stessa imperturbabile flemma orientale, che non si scompone di fronte alle schiene piegate delle donne di ritorno dai campi, così come all’incalzare del tempo. Nel quotidiano rito di degustazione del qat, magiche foglioline verdi capaci d’infondere un insospettabile stato d’eccitazione, non si condensa solo l’enorme bolo che arrotonda folkloristicamente le guance degli yemeniti, ma l’essenza stessa di un paese in bilico fra storia e leggenda, sogno e realtà. Qui le clessidre scandiscono minuti dilatati come evi, a tal punto che uno sbadiglio può evocare il ricordo di un viaggio in carovana lungo la via dell’Incenso, vecchio di 3000 anni e sollecitato magari dalla regina di Saba in persona, al pari della messa in pensione del marxismo, utopia che per poco più di due decadi (dal 1967 al 1990) ha illuso i mussulmani nello specchio dell’Occidente.

Ma è una calma apparente: quando l’effetto della chata edulis entra in circolo, scoppia una festa al pari di una rivoluzione. Le strette vie di Sana’a, gioiello dell’Unesco in cui svettano orgogliosi palazzi dagli inserti d’alabastro, vetro colorato e pietra, si riempiono d’improvviso di un brusio carico d’attesa, proprio come lo sguardo invitante del venditore di jambjie (tipici pugnali ricurvi intarsiati), che nicchia dietro le bancarelle del più fascinoso suok mediorientale. Il passo paziente degli asini che risalgono i crinali di arcane roccaforti ad oltre 3000 metri d’altezza, dai minigrattacieli a secco di At Tawila alla fiera veduta di Kowakaban, dalla frescura delle cisterne di Hababa agli spruzzi delle fontane sotto l’ineguagliabile Wadi Dhar (il sontuoso “palazzo nella roccia” che fu sede estiva dell’Imam sin dal lontano 1786), si trasforma nella corsa dei cammelli lanciati verso le saline del Tihama, dove fra dune immacolate, palme dum e tetti di capanne in paglia, affiorano echi di un’Africa mai così vicina.

Nel carattere degli yemeniti si riflette qualcosa della forte contraddittorietà ambientale, che lascia coesistere la semplicità beduina del deserto con la cristallina fantasia del mare, ma digradando sempre per fiorenti terrazzamenti, sino alle vette su cui i falchi si cimentano in araldiche evoluzioni. Sommerso dalla polvere dei secoli, il porto di Al-Mokkha conserva infatti un suadente aroma di caffè che ancora parla dei frenetici traffici grazie ai quali i salotti illuministi d’Europa conobbero il piacere del chicco nero, mentre ad Hodeida squali di dimensioni abnormi balzano da una nave all’altra, accendendo i visi di meraviglia e colorandoli di emozioni variopinte quanto i legni delle dhow (le affusolatissime navi arabe da pesca). Ma l’ameno silenzio che lambisce le coste coralline dell’isola di Kamaran, raggiungibile dopo aver volato per quasi un’ora in motoscafo sulla cresta delle onde, è figlio delle stesse mute preghiere che riempiono le vie di Zabid, dietro le cui porte intarsiate gli studenti del Corano se ne stanno sdraiati su tappeti da “Mille e una notte” (non a caso Pier Paolo Pasolini realizzò qui il suo omonimo film all’inizio degli anni ’70), accanto a lucenti narghilè, intenti a sfogliare le pagine di volumi un tempo forieri dei segreti dell’algebra (venuta qui alla luce per la prima volta).

All’ombra dei minareti dagli intonaci colorati di Taiz o Jibla, che nei loro preziosismi decorativi fondono in un’originale koiné islamica influssi siriano-turchi, egizi, persiani e moro-andalusi, a distanza di quasi mille anni riposa ancora il corpo della regina Arwa, fattasi seppellire nella splendida moschea del Venerdì: le sue discendenti forse non siedono più su troni merlettati, come un tempo capitava ai sovrani di Marib (ove è conservata una gigantesca e spettacolare diga dell’ottavo secolo a.C.), perché ogni giorno rivoltano il grano affidandolo al soffio del vento, o tessendo nelle fresche stanze di case di fango. Ma celate nei loro neri veli, lasciano affiorare dita sottili dipinte di henné ed occhi ambrati che tradiscono piaceri proibiti. Con una sola e fatale preghiera, cui non si può che assentire: “avanti, scoprimi!”.

giovedì 25 agosto 2005

SIBERIA

Sgambetti lungo il volo di un falco miope
- transustanziazione yakuta -

“Tramontammo agli antipodi dell’universo, eppur le nostre ombre ancor si baciano”
(anonimo di Jakutsk)



Mosca, Skulptury park – 27 Luglio 2005, h. 17.17

Invocazione alla falsa icona
Ed eccoci qua, con un cetriolo in bocca e S. Nicola sulle spalle. Proteggi almeno me, icona del viaggiatore, sfrattata dalla cattedrale che Stalin fece tornare polvere, eppur malvista dal pingue pope. Guarda laggiù; neppure un raggio di luce. Neppure una lacrima di pioggia per quegli eroi da piedestallo. Anche loro sono stati relegati in un limbo d’indifferenza, che brucia più di ogni candela morente. Hanno rotto loro il naso, sono stati falciati in piazza Ljubjanka, li hanno gettati nella spazzatura delle anticaglie. Quant’è capriccioso il vento della rivoluzione! Ma se ad esso solo votiamo il nostro cuore, uniamoci allora al sorriso del buon Don Chisciotte, disarcionato ad un soffio dal grande balzo; lui non demorde. La sua Dulcinea è il furtivo bacio di una vecchina che si posa sulla fede perduta; il suo cuore è lo sguardo di una fanciulla che interroga il tramonto. Come cavalieri di bronzo usciti dalla penna di Pushkin, prima o poi le anime indomite spezzeranno l’incanto per tornare in sella….

Yekaterinburg, tomba degli zar – 31 Luglio 2005, h. 18.18

Fuoco! Una parola appena: ed un mondo fu cancellato. Ha pagato davvero cara la sua audacia, Yekaterinburg, piegatasi all’indice di Sverdlov sino a perdere la propria anima. Sotto i fucili bolscevichi, in quel lontano 16 luglio 1918, non cadde solo il molle zar e la sua famiglia tutta, ma la ghigliottina dell’anonimia. Si potranno infatti erigere cappelle posticce in onore dei Romanov, ricomporre i frammenti dell’aerospia di Gary Powell, o addolcire il ferro degli Urali in baldacchini funerei, ma il talamo cittadino rimarrà inevitabilmente vuoto.
Il ripudio di un nome è peggio di un parricidio. A kto, a kto? E chi? E chi? Echeggia sinistro il ritornello degli Uma Thurman, osannati nella loro Seattle di Siberia: appunto, chi? Chi ti ridarà un volto, soglia bifronte? Non sei in Europa e neppure in Asia, non sei Yekaterinburg e neppure Sverdlov. Sei solo un fotogramma da esibire incrociando la dita, come si ostina la dolce Tanya; quella donna russa dal viso di bimba kazaka, che non si stanca di portare la tua fatua poesia sui banchi di Mosca, la burocrate.

Jakutsk, ruota arrugginita del Kulturny Park – 4 Agosto 2005, h. 22.22

Non sporca, ma grezza sì. Come un diamante incastonato nella taiga dei tesori nascosti, Jakutsk richiede tempo e fatica per essere ripulita dalle scorie del provincialismo. Eppure, giorno dopo giorno, diviene sempre più vanitosa: anela palazzi di vetro in cui specchiarsi, si vergogna di camminare nel fango del permafrost, tira a lucido le facciate kruscioviane, ma fa la cresta sui cortili. Questione di trucco, nulla più. Non ci si lamenti allora se i figli non tornano nella sacra casa degli sciamani e se persisterà l’odore di vernice sulle isbe ricostruite, o ancora se ritroveranno i canti Jsyk solo sui manifesti pubblicitari. Sventurata città, schiava di una politica da bacheca che ti portati nel sangue da 400 anni: gli occhi sgranati erano allora per le rosse giubbe cosacche; oggi per il forestiero che vedi rifranto nelle illusioni della grande solitudine: non è un semidio, eppur lo imbalsami nell’ennesima vetrina da museo, accanto alle zanne di mammuth, ai pelosi stivali degli Evenki, ai gioielli di Tynda. Non lasciarti ingannare dalle virtù del ghiaccio eterno: anche i diamanti non sono per sempre.

Kangalassy, ponte galleggiante – 5 Agosto 2005, h. 14.14

Aspettiamo. E aspettiamo ancora. Spingersi ad Oriente è un po’ come attraversare l’inevitabile crisi nervosa di una cura disintossicante. Tutto a portata di mano, apparentemente. Basterebbe mettere in moto il sudaticcio mikriki per partire alla volta di Druzba, ma lungi resta il numero minimo di passeggeri che giustifichino la corsa. Basterebbe levare le ancore sul farraginoso traghetto ormeggiato sul fiume Lena, ma qualcuno potrebbe ancora arrivare. Sembra proprio che non si possa fare a meno del pieno, della rotondità dell’essere. Fuori le canne da pesca, allora! Via le magliette per prendere il sole! Andiamo a scambiare quattro chiacchiere con la venditrice di piroshki, arroccata su un seggiolino di fortuna per contemplare quanto fine possa essere la sabbia. E quanto lungo il tempo.
Che si arrivi a destinazione è fuori di dubbio. Ma guai a chiedere quando. Sarebbe un po’ come fissare il giorno del proprio funerale. Affidiamoci dunque alla clemente mano del caso: chissà che non sorrida, sfoggiando i denti d’oro di una babushka ignara dell’età, o le medaglie al valore di un reduce stupefatto, per cui una giornata di sole è già la più grande benedizione che ci si possa augurare.

Druzba Park, teatro dello sciamano – 6 Agosto 2005, h. 21.21

Intermezzo sciamanico
Un palco senza attori, ma teste di cavallo che fissano l’orizzonte in un oscuro presentimento; mani strette in una segreta intesa; vasi scoperchiati in cui si riversa il sangue del tramonto. Chi si cela dietro la messa in scena? Tace la civetta. Dorme la foresta.
O forse finge. Nell’impercettibile fruscio che disegna spirali fra gli steli d’erba, lo sciamano ha cominciato la sua danza ubriaca. Alziamo un inno alla nudità dell’assenza, perché al calar del sole, annegati nel pozzo delle paure inconsce, sapremo infine qual è davvero il nome cercato.

Torrioni della Lena, grotta dell’amnesia – 7 Agosto 2005, h. 16.16

Com’è lontana Berlino, di fronte a questi invalicabili muri di roccia! Qui la guerra fredda non è mai arrivata, ma solo il gelo artico che ammutolisce indistintamente i tiranni della poltrona. Qui non c’è ovest da agognare o est da insultare, ma solo pietra aspra che guarda tutti dall’alto. Qui è l’ultima cesura, invalicabile barriera che prelude ai misteri di Agarthi. Petroglifi senza nome che paiono sberleffi o maledizioni, se vero è che gli occhi dei torrioni condannano le navi ai fondali del fiume. Eppure l’uomo si ostina a lambire questo sacro limite d’ogni ardire, ad occhieggiarlo e puntarlo, in attesa del momento propizio che guiderà il suo passo oltre. Non sa che il varco è un’oscura gola, che inghiotte verso isole di beati ove si consumano cocktail di vodka e morte, nell’orgiastica celebrazione di simposi ineluttabilmente proibiti alla parola .
Fra Hytyk Haya e Diamanty Park, sentiero cieco – 9/10 Agosto 2005, h. 13.13

Più che rinvigorire il focolare dell’ospitalità, una visita fra i cacciatori della taiga ha il vago sentore di prendere parte ad un’imboscata, dove non si capisce bene chi sia la vittima designata. Forse loro stessi, che temono ogni guizzo di spontaneità per naturale timidezza, o forse perché la lontananza dagli spazi si è qui trasformata in margine esistenziale. O ancora, perché sotto sotto l’arte di vivere nient’altro è che arte venatoria. Ma allora, a ben guardare, le vittime siamo noi sedentari, dimentichi dei proni onori alla soglia idolatrata e ignari delle libagioni da offrire al fuoco custode, ormai irrimediabilmente soffocati dal grasso della consuetudine. Siamo colpevoli perché giungiamo a mani vuote e pieni solo di domande, laddove i coltelli della cortesia conoscono solo la legge dello stomaco, mentre il suono vibrante del kymus tradisce l’impazienza per un’occasione sottratta alla perpetuazione della stirpe.
Non c’è gusto per la sorpresa, non c’è meraviglia nello sguardo, quanto piuttosto una morbosa fissità che attende il passo falso. Nulla di personale, per carità…ma in tempi di magra non si sa mai. Qui l’estate della vita dura il tempo di uno sbadiglio.

Novosibirsk, a fianco della triade proletaria – 11 Agosto 2005, h. 19.19

Piazza Lenin è ben più che il centro della città. E’ il balletto dell’Operà fattosi sorprendentemente architettura, il trionfo dell’equilibrio che porta all’inevitabile pietrificazione. Gelidamente perfetta come l’azzurro dipinto da Rurich, a sua volta ingabbiato dal mito di Shambalah, sino a trasformare i suoi quadri in una catena di montaggio. Sarà il fatto di sentirsi al centro di tutto eppur lontani da ogni dove, sarà il bisogno di capire il perché la propria testa accademica sia rimasta da un giorno all’altro senza corpo, sarà la trasparenza della scienza sovietica che riduce all’osso la vita, ma Novosibirsk sa davvero troppo. E come ogni sapiente che lambisce il tutto, non riesce più a venire a capo di un’equazione infinita. Così quel che era armonia del suono oggi pare sincope del ritmo, mentre il gusto dell’aneddoto inconscia ripetizione: sia che si muovano passi in discoteca, che all’ombra di un museo all’aperto. Ma se mai altrove la Terra abbia contemplato ragazze più belle che a Novosibirisk, allora non lontana è la chiave d’accesso al cuore di questo freddo cristallo: il desiderio scatena il caos, da cui sgorga ogni multiforme verità.

Salbyk, kurgan del guerriero perduto – 13 Agosto 2005, h. 14.13

Spirali di pensieri si avvinghiano ai monoliti di Salbyk, per parlare sempre e solo della morte. E’ qui che il nomade ribelle scopre di non avere più direzione, ma non per colpa della pietra maledetta, la cui leggenda vuole prometta sventura per ogni dove: tornare sui propri passi significa guardarsi in faccia e farsi carico delle responsabilità sempre scansate. Eppure chi si imbatte nel peso di questi macigni, muore innanzitutto a se stesso, dovendo rinunciare alla vita che scalpita oltre, semplicemente per spiegare quanto non è più. Il circolo è vizioso, proprio come la presa di coscienza, attraverso cui quanto pareva casuale finisce per assumere improvvisamente un senso predefinito: non più massi dispersi, non più anima al passo, ma segni del sacro che dispiegano la verticalità dell’orizzonte.
Giro su giro, il nuovo diviene l’uguale e l’avventura del sé il cammino di tutti: alza lo sguardo, guerriero maledetto. Guarda ora come la terra imputridisce. Non sono verdi colline dietro cui fuggire, quelle che scorgi laggiù, ma bubboni mortiferi chiamati kurgan. Non importa quanti anni hai: si è vecchi, terribilmente vecchi, ogniqualvolta impariamo a leggere.






Kyzyl, betulla dello scheletro – 15 Agosto 2005, h. 23.59

Per una vera kalamnie.
Come sono profonde le rughe di uno sciamano, al chiaro di luna. Come suona disperato il suo ululato agli spiriti della notte. Ora so perché i suoi occhi stanno chiusi. Non sono le carcasse appese alle piante a terrorizzarlo, né le insidie delle paludi, ma il dubbio altrui, che rende il silenzio dell’universo ancora più muto di quanto egli non voglia sentire. Ti ho visto spiarmi, quando sei rantolato al suolo. Ti ho visto pregarmi, perché io credessi. Ma non m’importa se ciò che vedi sia solo un sogno o verità: quello è il tuo mondo, comunque sia. Nasce dal tamburo e muore nella fiamma, danza nel vento e respira oltre la betulla, che congiunge cielo e terra attraverso parole in libertà. Ma io ho catene che pendono dalla mia stessa lingua, sono cresciuto dietro pareti che mi hanno reso miope, ho perso le ali quando ho chiesto di volare. Siamo riflessi di uno stesso specchio, fatto a pezzi da Dioniso ed eternamente ricomposto da Apollo, ma non abbiamo il coraggio del solo gesto che davvero dischiuderà gli abissi dell’oltre: legare un corda al collo, cavarci un occhio ed immolarci ad Yggdrasil.

Pokrovskoe, a caccia di un numero civico – 18 Agosto 2005, h. 16.32

Nel fango di Pokrovskoe si perde il conto delle orme. Magari sono rimaste impresse quelle del suo illustre starec, magari quelle di un operaio tribolato: ma come inutile è distinguere il prima dal dopo, così assurdo è disputare attorno al civico 78 o 79. Ovunque sia vissuto, Rasputin ha predicato una sola grande verità: non siamo padroni di nulla, tanto meno di noi stessi. E se c’è chi colse la palla al balzo per donarsi alla legge del piacere, giusto è ricordare anche gli eredi che non hanno più
casa dove tenere sotto chiave i ricordi del monaco. E allora tanto di cappello al signor Viktor, che perpetua la parola del suo presunto predecessore, ogniqualvolta esala alcool: un mozzicone traditore l’ha costretto alla strada, è vero, ma ha più diritto lui ad un tetto che tutti gli abitanti del villaggio. Perché lui sa ancora ingannare la vita, mentre gli altri vivono solo d’inganni.












A bordo del Byran, - 23 Agosto 2005, h. 19.30

E’ caldo il sole che bacia le labbra dell’adolescenza e scintilla sul destriero delle galassie agognate. E’ dolce, come lo sguardo di una ragazza sconosciuta che spia la danza della tue ali. Se solo potessi sfiorarle, ti delizieresti della loro incomparabile morbidezza, poiché con sé portano l’attesa dell’alba e i sogni del tramonto.
Come nunzio di favole dimenticate, lascia che l’astro della luce risvegli in te l’anelito di una terra vergine ed assopita, il cui nome è Sibir. Un’immensa distesa a est del cuore, da sempre in attesa di quelle promesse che il cielo ci ha sottratto, ma che le nebbie del ricordo gelosamente cullano. Avanti, non temere il candore delle nevi o l’ebbro profumo delle primavere: anche tu ne sei figlio, benché non ricordi. Noi tutti vagheggiamo tardive avventure e pronunciamo parole inaudite, ma possiamo davvero condannare la felicità del folle? Non c’è più nessuno con cui ballare ora e il proscenio è lontano, quasi quanto gli anni perduti: non ci resta che muovere passi audaci sulle tegole del mondo, esclusi per sempre dalla stanza in cui furono interpellati i nostri desideri, ridotti in fumo senza aver avuto neppur la gioia di ardere al sicuro; ma nonostante tutto, in volo verso le stelle…

giovedì 31 marzo 2005

GUATEMALA

OCCHI PUNTATI SUL GUATEMALA

Guatemala in appena una settimana? Non è impresa impossibile. Benché un viaggio di media durata nel Paese centro-americano richieda solitamente una quindicina di giorni, appoggiandosi alle indicazioni e agli itinerari forniti dall’Ente del Turismo nazionale (www.visitguatemala.com, con filiale a Roma, penciobri@tiscali.it) si può certamente risparmiare tempo e denaro. Diversi sono infatti i temi d’esplorazione prediletti dalla clientela italiana: esiste un Guatemala coloniale, che vanta nell’antica capitale, Antigua, una delle città architettonicamente più affascinanti dei due continenti americani (grazie alle sue minute case colorate e ai vialetti in ciottolato, ininterrottamente impreziositi da splendide rose); esiste un Guatemala pre-colombiano, che attraverso i siti di Iximché o Quirigà celebra il suo imponente trionfo nelle piramidi di Tikal, immerse nella jungla nebbiosa; esiste anche un Guatemala d’incantevoli paesaggi naturali, come la cornice vulcanica del lago Atitlan, sulle cui coste fiorisce il millenario artigianato Maya; ma c’è poi e soprattutto un Guatemala di puro folklore, col caotico e profumato mercato di Chichicastenango, alle pendici del monte Pascual Abaj, ove ancora si celebrano riti sciamanici commistiati a tradizioni cattoliche. Né, infine, va dimenticata la regione caraibica di Livingstone, dove a suon di sarabanda i neri Garifuna hanno dato vita a una comunità a sé stante rispetto al resto del paese: qui i verdi declivi cedono il passo alle calde acque del Rio Dulce, una riserva ornitologica che fra ninfee e sorgenti sulfuree cela l’ultimo baluardo della resistenza spagnola ai pirati inglesi, il secentesco castello di S. Felipe.


AMPIA RICETTIVITA'
Muoversi per il Paese, sprovvisto di ferrovie ma rallegrato dai variopinti “chicken” bus, è diventato molto più semplice da quando governo e guerriglia hanno siglato un accordo di pacificazione nel 1996 e le risorse economiche hanno iniziato ad essere copiosamente investite nel rifacimento delle strade, così come delle infrastrutture: basta scorrere velocemente alcuni degli hotel o resort che rappresentano l’offerta alberghiera guatemalteca, per rendersi conto di come i tempi bui siano ormai alle spalle. 

Il gruppo “Villas De Guatemala” dispone di strutture coloniali, al pari di abitazioni lignee stile “tropical” per tutto il Paese, ma non mancano esemplari di raffinatissimo gusto internazionale come il “Gran Tikal Futura Hotel” di Guatemala City, per arrivare al curioso esperimento jungle dell’ “Hotel Longarone”, gestito da un titolare veneto fuggito sul Rio Hondo a Zacapa.