"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

martedì 12 luglio 1977

L'ULTIMA FERMATA, OVVERO LA CAREZZA.

Avvertii subito la sensazione di essere tornato a casa. Chissà perché. In fondo si trattava solo della stazione periferica di un paesino sperduto, immerso in un sonno profondo quanto i misteri della culla. L'ora tarda aveva indubbiamente contribuito a creare un clima d'intimità all'interno della sala d'aspetto, ove singolari figure si erano raccolte per trascorrere la notte, più che per attendere le corse successive.

Un ubriaco, il cui pesante russare copriva persino il ticchettio dell'orologio a muro, si era disteso lungo la fila di sedili traforati che disegnavano il perimetro della stazione; poco più in là, rannicchiata vicino a una colonna dall'intonaco scrostato, una vecchietta era intenta a mettere ordine in alcuni sacchetti di plastica. Lungi dall'invadere i loro appezzamenti, decisi di assestarmi su un trenino in legno che, durante il giorno, doveva essere preso d'assalto dai bambini più irrequieti: le prime tre carrozze erano ampie a sufficienza per imbastire un letto di fortuna, mentre il vagone ristorante avrebbe ospitato senza problemi l'enorme zaino che mi trascinavo ovunque.

Scrupolo del tutto inutile. Preannunciati da risa incontenibili, due monelli balzarono fuori dalla gradinata che conduceva ai binari e, scartandosi reciprocamente, conclusero una fulminea azione di football calciando con violenza al centro della sala. La pallina di carta, ormai logora, sfiorò la paccottiglia della donna e andò a conficcarsi nell'intercapedine della macchinetta per il rilascio dei biglietti. In un battito di ciglia si fecero seri e maturi: "tanta bravura per nulla!" – commentò il più
grande con stizza. A testa china raggiunse l'ubriaco sulle seggioline, portò le mani alla testa, simile a un pensatore dell'antica Grecia, e rimase chinato sulle ginocchia con fermezza granitica. Dal lato opposto, il suo amico lo fissava assorto. Per un attimo credetti che il tempo si fosse fermato, fotografando la trascurata armonia di un'improbabile famigliola notturna.
La vecchietta aveva infatti rivolto uno sguardo accondiscendente ai due giocatori, accarezzandoli con la pacata saggezza dell'età, quasi volesse prevenire una reazione un po’ sgarbata da parte dell'uomo macilento.

Di tanto in tanto, la porta a vetri scorrevole si apriva, introducendo sulla scena nuovi personaggi per apparizioni fugaci. Sembrava di sedere a teatro, a una di quelle stupende commedie dell'assurdo in cui erano gli emarginati e i bizzarri ad accattivarsi la simpatia della platea, ironizzando sulle loro piccole tragedie quotidiane.

"Come mai non dormi?" – domandò il più grande dei due monelli - "Hai riordinato le tue cianfrusaglie per ore, come se dovessi accamparti qui per sempre, e poi te ne stai lì ritto a fissare il vuoto".
Era sbucato alle spalle senza fare rumore. Il suo compagno gli stava accanto divertito, giochicchiando con un accendino raccattato in qualche cestino dei rifiuti.
"Non so. Sono contento di trovarmi qui, in vostra compagnia. E' da settimane che continuo a viaggiare ininterrottamente, vagando di porto in porto alla ricerca di qualcosa che non sono mai riuscito a trovare. E ora, quasi per caso, sento che trascorrerei volentieri molto tempo in questa stazione".
"Ti siamo simpatici? Ehi Billy, abbiamo un nuovo amico!". Il bimbo con l'accendino s'illuminò di gioia: tenne la fiamma accesa per qualche secondo e rise di gusto. Anche la vecchietta ci fissò soddisfatta.

"Cosa intendevi dire, prima, quando hai gridato "tanta bravura per nulla"? Ti piacerebbe diventare un giocatore professionista?"
"E' giusto un sogno. Non ho mezzi, né istruzione. Mi hanno abbandonato quando avevo la sua età! - e indicò amareggiato Billy, i cui grandi occhi azzurri pendevano dalle sue labbra. Benché mi avessero affidato in custodia a un signore con una pancia smisurata, ho preferito darmela a gambe: meglio vivere per proprio conto, che accanto a una persona insulsa”. Sbuffò. Non andava fiero della sua vita passata. L'unica vera consolazione, per quanto non volesse darlo a vedere, era stato l'incontro con Billy, certo più sfortunato di lui e molto più fragile. Lo trattava come un compagno di sventura, ma era un bambino. Lo sapeva bene: inconsciamente si sentiva in dovere di proteggerlo e se talvolta rimediava qualche barretta al muesli, il pezzo più grosso spettava sempre a lui.
"Abbiamo girato un sacco di stazioni - riprese con spavalderia – finché il caso ha voluto che proprio questa divenisse la nostra casa. Non chiudono mai, neppure di notte. Inoltre conosciamo tutti gli habitué del posto: ad esempio quell'ubriaco, che vedi là steso, ci racconta un sacco di storie spassose, mentre Babuccia una volta ha messo in fuga dei tipacci: volevano rubarci un coltellino, ma lei si è messa a gridare e li ha spaventati. E' in gamba, Babuccia!"
"Già! In gamba la nostra Babuccia" - fece eco Billy, annuendo a braccia incrociate.

La stanchezza iniziava a pesarmi sulle palpebre, ma era ormai impossibile accomiatarsi dai due. Volevano sapere dei miei viaggi, delle località strane che avessi mai visitato, della mia vita. La curiosità li divorava. Alla fine ritenni più opportuno girare le domande rivoltemi senza interruzione, in modo tale che potessi sonnecchiare a occhi aperti, mentre si sforzavano di ricordare le loro avventure. Billy insisteva nel dire che il suo compagno era ancora più bravo dell'ubriacone nel raccontare certe storie. Lui si schermiva, ma dentro di sé gongolava per quei piccoli riconoscimenti. "Dai, raccontagli di quella signora! Sei così poetico quando parli di lei". Arrossì, ma trovò infine il coraggio di confidarsi.      
 
"Beh…ho delle immagini confuse e poi lo sai che mi commuovo. Ricordo il suo volto, il suo profilo inondato dalla calda luce di un tramonto come tanti altri. Ricordo il suo sguardo, che un tempo aveva scintillato in occhi d'ambra, sino al giorno in cui si smarrì nell'ultimo volo delle rondini estive, senza fare più ritorno. Di fronte alla tavola sfatta, su cui non rimanevano che inquietanti spoglie di una grigliata insipida, la sua figura stava accasciata sulla vecchia sedia di paglia. Immota, quasi presentisse l'avvicinarsi di un istante fatidico, lasciando che solo i suoi capelli fini e diradati assecondassero le danze della brezza serale".

Era sconvolgente. Riuscivo persino a udire il sibilo suadente degli steli d'erba, cullandomi sulle note ingenue della sua giovane voce. La brezza era stata una vera e propria benedizione dispensata dopo giorni d'afa insistente, che avevano dapprima costretto la donna su un divano di raso purpureo, quindi in un letto dalle ruvide lenzuola di cotone, come se la pelle ingiallita e grinzosa dovesse abituarsi gradualmente ad asprezze di ben altro genere.

"Parlava poco, lei così loquace; sorrideva ancor meno, ma mi dicevano che di nascosto, nell'intimità della sua mente sagace, aveva iniziato a interrogare i moti degli astri, i cachinni – sì proprio questa era la parola che usavano - delle  fronde di quercia, i colori stinti dell'alba di pianura". Billy aveva ragione. Il suo amico era un pittore nato: vidi chiaramente lo sguardo della donna mentre tornava a posarsi sulle briciole della cena, che disordinatamente affollavano la tovaglia macchiata. Con un’impercettibile contrazione delle labbra, pareva essersi indispettita del fatto che in nessun modo, comunque le si osservasse, potessero essere raccolte in un'ipotetica forma geometrica. Abituati a scorgere allusioni e assonanze in grappoli di lettere morte, se non arcane formule nella successione di cifre cieche, quelle briciole, loro malgrado, manifestavano il tragico destino della casualità! Erano sopravvissute alla vorace ingordigia del tempo e presto sarebbero state spazzate via da un breve colpo di vento, venendo dimenticate per sempre.

Eppure, proprio ora che lo scorcio di una vita a fior di pelle iniziava a farsi abbagliante per occhi stanchi e velati, erano le piccolezze quotidiane ad alimentare il calore del ricordo: "la spesa dal vecchio prestinaio, l'odore del tè servito sempre con una punta di miele, la trasmissione televisiva condotta dall'impareggiabile re del quiz. Frammenti di un'esistenza scomparsa chissà dove, ormai invisibile, ma in ogni caso percepibile nello scorrere impetuoso del sangue per le vene.

"Non era sola, non lo era mai stata – proseguì con gli occhi umidi in cerca delle rotaie - benché, tutt’attorno, i suoi cari si affaccendassero ai fornelli o al lavabo; ma quel tramonto non poteva che appartenere a lei sola. I richiami della sera, le moine delle betulle e le parole più dolci la sfioravano con la stessa fragile delicatezza profusa dai petali dei mandorli d'Oriente”. L'incanto suscitato dalla trascurata bellezza del ciclico ritorno aveva infine assunto la nobile solennità del banale. Non vi erano più confini da oltrepassare, ora, né orizzonti da scoprire: tutto pareva tornare all'abisso dell'origine, con la stessa immediata semplicità che aleggiava sui quesiti dei primi anni. Nel disco tagliato della stella più amata non scorgeva macchie, né irregolarità. Il suo bagliore non respingeva l'occhio del peccatore, costretto a subire l'umiliazione del diniego, a tollerare nell'ombra il decomporsi di vergogne ancestrali; invocava bensì accondiscendenza, affinché il bagno di luce, così a lungo atteso, cancellasse ogni cicatrice e dissolvesse le asperità dei desideri mancati.

"Non vidi mai più nessuno accomiatarsi dal mondo con tanta aristocratica grazia". Timide lacrime solcavano le guance del ragazzo. L'amarezza che, da tempi immemorabili, gli aveva impedito di buttarsi a capofitto sul primo vagone di passaggio, abbandonandosi agli scherzi del destino, era inevitabilmente affiorata. Sinché quell'immagine avesse conservato nella sua memoria il carattere effimero del sogno mancato, della culla perduta, nel mondo non avrebbe scorto altro che squallide stazioni di periferia, lontane anni luce dalla meta desiderata. Eppure, qualora avesse scorto anche un piccolo appiglio cui avvinghiarsi, avrebbe certo trovato la forza per riscattare lo sguardo stanco di Babuccia e i bonari rimbrotti dell'ubriacone

"La ricchezza del legame. L'eredità del tempo". Pronunciai quelle parole quasi inconsciamente. I due monelli mi guardavano seri, probabilmente in attesa di una spiegazione a enigmi dal sentore allettante.
"Più volte ho considerato queste parole con l'astratto distacco del filosofo, utilizzandole quali meri tasselli per pensieri distorti. Come se godessi del privilegio di scrivere della mia vita, o dell'altrui, basandomi solo sui miei sogni, senza occuparmi di viverla sino in fondo. Poi, leggendo il diario di viaggio di un grande uomo, rimasi sorpreso dall'immediatezza di una frase che si legava benissimo a quanto abbiamo vissuto".

I due ragazzini si strinsero accanto, sfiorandomi con i loro capelli spettinati e le loro magliette logore. "Che cosa diceva?"
"Parole semplici: proseguo, dunque, portandomi nello zaino dell'esistenza il testimone dell'amore, della sensibilità e della saggezza affidatemi dall'ultima carezza materna".
Sapete, sembra quasi incredibile che un gesto, un solo fugace gesto, possa racchiudere il significato di una vita intera. Eppure, grazie a esso, riesco a rileggere ora il passato sotto un'ottica più serena. E di quel che ancora faticherei a pronunciare con occhi non arrossati, sono però riuscito a scrivere con vividezza".
"Billy, ti rendi conto? Abbiamo conosciuto uno scrittore!"
“Magari lo fossi! Io sono solo un biografo”.

Si erano avvicinati anche Babuccia e l'ubriaco. Non era notte per riposare, osservarono, e il sole sembrava non voler proprio sorgere. Al gruppo si era fra l'altro aggiunta una certa Simone, provocante cubista di cui il maggiore dei monelli si era da tempo invaghito. Ogni notte, alle tre meno un quarto, faceva irruzione nella stazione, compiacendosi nel veder la meraviglia e la venerazione dipingersi sul volto del ragazzo. Quelle stesse virtù che inutilmente ricercava nei volti paonazzi del pubblico assiepato sotto il palco, in attesa che si mostrasse il suo salvatore. E per quanto non perdesse occasione di schernire il ragazzo, a poco a poco si era convinta che, un giorno o l'altro, sarebbe fuggita proprio al suo fianco. Stringendolo al seno.

"Prima di lasciare mia madre -  scrisse quell’uomo nel suo diario di viaggio - ho accarezzato il suo viso, come da anni non avevo più osato fare. Esattamente nello stesso istante, ho avvertito la sua mano distendersi sul mio volto, morbida e delicata quanto il ricordo della mia fanciullezza. Pochi secondi. Forse un attimo, appena. Ma in quel momento ho avuto l'impressione di essermi fatto specchio della sua immagine. Un'immagine - buffo a ripensarci - di perfetta simmetria. I suoi occhi si sono riflessi nei miei: da un lato, il passato, la memoria, l'origine; dall'altro, il futuro, la possibilità, l'incertezza. E in quella carezza, la soglia spalancata del presente: tutta la sua eredità nel gesto più dolce cui potessi anelare.  

Non ho pianto, perché non volevo tradire quel che allora era stato solo un oscuro presagio. Una paura remota che ho ingenuamente rifiutato, che ho voluto scongiurare con una fuga disperata: mi ero quasi persuaso che la mia lontananza potesse esercitare il magico influsso di un amuleto, rappresentando lo stimolo più ostinato per tener vivo il desiderio di una madre che vuole rivedere il proprio figlio, prima di abbandonarlo per sempre. Confidando in quell'assurda speranza, avrei voluto prolungare in eterno il mio viaggio: più lontano sarei andato, più intenso sarebbe stato l'istinto di sopravvivenza di mia madre.

Non è stato così. Quando l'ho riabbracciata dopo il mio repentino rientro, come un raggio inaspettato che buca le nubi, ha dipinto un fugace sorriso. Quindi il buio dell'inconscio, il vuoto dell'oblio, essendo ormai irrimediabilmente soffocata dai dolori lancinanti del suo male".

I due monelli cercarono l'abbraccio dei loro vicini. Anche Simone, questa volta, non disdegnò di stringere al cuore il suo ammiratore. Ognuno cercava quel calore e quell'affetto famigliare che, in un modo o nell'altro, era stato loro sottratto da una vita beffarda. Non importava da quali strade fossero giunti. Non contava puzzare d'alcool o avere vestiti logori. Destini simili li tenevano legati saldamente, sebbene la scure della fortuna potesse abbatterli o mutilarli in qualsiasi momento. Nessuno, però, si sentiva così insensibile da rifiutare una carezza al vicino, o un buffetto consolatorio. Insieme erano forti. O almeno lo credevano.

"Si è poi chiesto - ripresi - se avesse sbagliato tutto. Se si fosse comportato nel modo più insensato, pur non potendo prevedere una crisi tanto repentina e devastante. E ha pensato a quante parole avrebbe potuto spendere in quegli ultimi giorni al suo fianco. Ha ripensato alla sua carezza e al suo sorriso. Alla profonda stima e all'orgoglio che sempre aveva nutrito nei confronti di lui. Al suo invito a vivere con gioia l'esperienza del viaggio. Un viaggio ben più lungo di quel che potesse immaginare.
Forse non avevano più nulla da dirsi. Forse tutto si era già consumato nell'etereo splendore di quell'attimo tanto soave, quanto irripetibile. E proprio in quel gesto ha voluto riconoscere la sua benedizione, il legame più profondo che unirà per sempre madre e figlio, il passaggio del suo testimone carico di feconda eredità. Ma, soprattutto, il simulacro più sacro di quelle parole che, sono certo, avrebbe voluto sussurrargli: "ti voglio bene". Avrebbe anche potuto aggiungere "fai il bravo", "sii forte", o "tagliati i capelli": in ogni caso custodiva già tutto il suo essere dentro di sé. Da allora in poi, la sua casa divenne il mondo".

Dopo averli accarezzati a uno ad uno, li vidi allontanarsi nel radioso sorriso del alba, tenendosi per mano. Fu quella la loro ultima fermata e la prima, titanica bugia cui avessero mai prestato fede.                     


 

   

sabato 4 giugno 1977

ALLA SALUTE!

Un fiotto di vino scuro e corposo inondò le fenditure del tavolino traballante. Franco non era riuscito a trattenere nella mano callosa l'ultimo calice della serata. Inspiegabilmente era sfuggito alla sua presa, come già i sogni della giovinezza. Pochi secondi prima lo aveva ammirato tenendo le orbite spalancate: luccicava solitario sul legno rigonfio dell'unico angolo di mondo che sapeva prestare ascolto al suo canto di disperazione. Ma non appena si era deciso ad allungare la mano per agguantarlo rabbioso, la sua immagine si era sdoppiata: una, due, tre volte addirittura.


Ora non aveva la più pallida idea di dove fosse rotolata quell'estrema illusione, perché le palpebre si erano abbassate con la stessa inesorabile impertinenza delle saracinesche da osteria, ponendo fine ad amari festeggiamenti. Si lasciava cullare dal profumo di vite cotta al sole, scagionato violentemente dai rivoli purpurei lungo i quali si spegnevano le sue lacrime invisibili.

Il gestore del locale lo fissò con aria di compatimento da dietro il bancone. Ora poteva tornarsene a casa, gettarsi fra le morbide consolazioni del suo finto baldacchino e cancellare i ricordi di una giornata incolore. Come al solito avrebbe lasciato la copia delle chiavi del locale accanto a Franco, in attesa che si risollevasse dalle spire del tavolino, un po’ più lucido. Almeno non avrebbe corso il rischio di essere investito nelle vie del paese, ove era solito gironzolare senza meta. Nonostante tutto, di lui si fidava. Lo conosceva da anni: mai si era permesso alcuna licenza nel suo locale, pur avendo la possibilità di servirsi senza remore della dispensa. Rimaneva in quella posizione per tre o quattro ore; poi, quando gli spifferi della notte iniziavano a insidiare i vapori dell’inconscio, si alzava sorpreso e sconsolato, si massaggiava con vigore il volto ancora pregno di vino, finché trovava la forza per sciacquare le spoglie dei suoi bagordi. Al mattino, il suo migliore amico avrebbe trovato il locale perfettamente in ordine, pronto per accogliere nuove delusioni.

Fu forse in seguito ai propositi di rivalsa che cercavano di riscattare notti come queste, che mi capitò di leggere gli scritti di Franco. Sino ad allora ne avevo sentito parlare solo vagamente e di lui avevo maturato un’immagine poco definita.

Lo incontrai faccia a faccia, per la prima volta, nei corridoi di una scuola elementare, sul far dell’alba. Erano ancora in corso gli scrutini per le elezioni: al di là di qualche rappresentante di lista, intento a fumare fuori dai seggi, l’edificio appariva deserto. A me era toccato il compito di raccogliere sul posto i dati da trasmettere alla redazione del giornale per cui scrivevo. Stordito dalle divagazioni sindacaliste di un anziano con problemi d’insonnia, che desiderava a tutti i costi redarguirmi sulle sorti del paese, venni salvato dall’arrivo di Franco.

“Sigaretta?” - aveva chiesto barcollando
“E’ l’ultima. Goditela lentamente”, rispose infastidito l’attivista canuto
“E sia!”

Non so perché, ma lo scambio di quelle semplici battute, cadute all’improvviso fra immagini di rivolte luddiste e braccia incrociate, mentre milioni di persone giacevano nei propri letti ignare delle sorti del mondo, mi regalò una sensazione d’incredibile leggerezza. Fuoriuscito dalle ombre più infide, portandosi appresso l’odore del vizio, un uomo sconosciuto aveva l’impudente innocenza di domandare ancora. Di sollecitare un peccato che lo aiutasse a dissolvere la sua richiesta nella soave impalpabilità del fumo aromatizzato.

Prima di andarsene soddisfatto, ghignò facendo gravare il suo sguardo sul vecchio insonne: “Augusto, troppa prosa stanca!”. Possedeva l’indubbio fascino del ribelle decaduto, privo di mezzi, umiliato nella dignità impettita, ma nonostante tutto sferzante. Senza contare la galanteria dei suoi gesti, accentuata dai volteggi ossequiosi di uno smunto cappello di panno o dalla vigorosa stretta di mano, immancabilmente accompagnata da un leggero inchino.

Passarono mesi prima del secondo incontro. Franco, questa volta, apparve in mezzo alla folla accorsa per il rinfresco d’inaugurazione dell’ufficio postale, mimetizzato fra le pesanti pieghe di un cappotto fuori moda, quanto mai utile per preservare la sua cagionevole salute dai rigori d’inizio dicembre: un pesce fuor d’acqua, in mezzo alla calca di persone che lottavano a denti stretti per impadronirsi di una tartina in più, mentre sciorinavano complimenti asfittici per il nuovo visone del vicino.

“Scrivi su qualche giornale, non è vero?” , domandò alticcio
Una collega dell’ufficio stampa, intenta a decantarmi con audace civetteria i pregi della sede appena aperta, si allontanò a capo chino, lanciandomi un’occhiata allibita.
“L’ha dedotto dal blocchetto per gli appunti?”
“Sei conosciuto, ormai!” Obiettò con l’indice rivolto al cielo
“Senti; anch’io scrivo, ogni tanto. Versi, poesie, talvolta riflessioni che scottano: roba un po’ scomoda. Dai un’occhiata a questo materiale” - e sfilò dalla tasca del cappotto alcuni fogli spiegazzati - “magari si può pubblicare qualcosa”.

La scena aveva stuzzicato le male lingue di paese. Udivo dei cicalecci alle spalle, ma ancora infastidito dalla vigliacca fuga della mia collega, cercai di adottare un contegno professionale mai conosciuto prima, dispensando tutta la stima e l’onore che il contatto con un giornalista, adulato zerbino pronto a regalare briciole di notorietà a chiunque, potesse riversare su una persona comune.

“Ne sono molto onorato” - osservai accogliendo il plico – “ma forse dovrà attendere qualche settimana. La cronaca furoreggia in questo periodo. Per ogni evenienza mi lasci pure un suo recapito”.

Quanto avrei dato per potermi voltare di nascosto e sorprendere mille espressioni di gelosa stizza sugli abbronzati visini di tutti quegli ipocriti! Resistetti alla tentazione, pregustandomi una vendetta molto più sottile.

Inaspettatamente fu però Franco a telefonarmi. In qualche modo era riuscito ad ottenere il mio numero di casa: più temporeggiavo, più le sue richieste di chiarimento divenivano di giorno in giorno insistenti e squillanti. Domandava senza nutrire alcuna pretesa. Desiderava semplicemente sapere. Gli sarebbe bastato un giudizio. Null’altro. Al contrario, io mi ero riservato di utilizzare il suo materiale sul numero del giornale di maggior impatto.

Gli fissai un’intervista per un venerdì sera, nell’osteria a lui tanto cara. Ancor prima di mettere piede nel locale, tuttavia, cambiai idea. Lo prelevai mentre degustava un bianchino, deciso a condurlo segretamente nella defilata redazione del paese. Celati dalla notte come due temibili massoni. Non nevicava; anzi, soffiava un vento alquanto leggero, fine, poco adeguato all’atmosfera natalizia che le sinuose cascate d’illuminazioni erano chiamate a soffondere per le vie del centro storico. Ciononostante, rapito dalle melense suggestioni dell’Avvento, mi sentivo come un angelo precipitato fra taverne fumose e muri crepati, mosso dall’irrefrenabile desiderio di salvare un’anima peregrina.

L’idea della redazione si rivelò un’arma a doppio taglio. Fui costretto a svolgere l’intervista in mezzo ad alcuni appassionati di montagna che saltuariamente, il venerdì sera, condividevano lo stesso locale.
“Quando ha iniziato a scrivere? Ha mai pubblicato qualcosa, in precedenza? A chi sono rivolti i suoi testi?” - infilavo una domanda dietro l’altra, consapevole del fatto che le mie parole si stemperassero in flebili acuti, non appena giungevano alle orecchie di Franco, amplificandosi centinaia di volte, quando, al contrario, un sorriso malizioso faceva capolino sulle labbra degli uditori disinteressati.

Le rughe del suo volto parevano scolpite nel granito. “Insomma!” - sbottai esausto “perché compone poesie?”.
“Per lasciare un segno”.

Avrei dovuto costruire un articolo su quattro parole. Una sfida al limite dell’ermetismo. Ma nel momento in cui Franco mi strinse la mano, fissandomi con gli occhi lucidi, realizzai che non avevo alcun bisogno di altre informazioni. Era stata una stretta vigorosa, calda, attardata. Quasi volesse aggrapparsi alle dita cui aveva affidato la speranza di una vita intera. Di fronte alla fuga degli anni, persino lo sprezzo che riservava alle istituzioni si era ormai stemperato. Per preservarsi, la memoria doveva soggiacere ai capricci del caso.

Giunto profugo da un paese in guerra, era cresciuto in un ambiente inospitale, ancora lungi dal benessere che, di lì a poco, avrebbe addolcito il pianto di una nuova generazione. Voci anonime mi avevano confessato che, sin da giovane, era solito vagabondare fra le macerie delle case distrutte o nei vicoli privi di luce, in cerca di uno sguardo che lasciasse trasparire, con spontaneità, l’orrore per l’annientamento e l’incontenibile gioia della vita. La rabbia della miseria, al pari della forza d’animo. Quel sottilissimo margine di contatto che scandisce il confine fra il bianco e il nero, in cui ogni ragione affonda, per poi riemergere consapevole del vuoto abissale.

Accomiatandosi sulla soglia della redazione, ormai lontano dai suoi denigratori, in un impeto di evanescente lucidità, Franco mi confessò la sua paura più oscura.

“Bianco. Ostinatamente bianco. Per quanto mi sforzi di scrivere, il foglio su cui calco oggi la mia penna ostenta, di volta in volta, un sovrano distacco. Quasi avesse l’ardire di rispecchiare il candore delle nuvole estive, il silenzio dei ghiacci, la purezza dell’origine intonsa. Proprio non avverte l’impercettibile ansia che mi rode, che si contorce nel disegno ricurvo di lettere misteriose. Attende beffardo, perché sa bene che qualunque segno io tracci sul suo manto, è comunque destinato ad affondare lungo pieghe annoiate. Non sono che macchie, per il suo aristocratico sdegno”.

“Ma io ho apprezzato il materiale che mi ha consegnato” - obiettai compassionevole – “non l’ha forse scritto di recente?”

“Appunto. Non ha sapore. Non è figlio di alcuna emozione, bensì di ricordi annebbiati, di fumi ottenebranti. Ho ricercato a lungo il mistero della vita e della morte, convinto potessi sostenere la sua vista. Ho perso dapprima il lavoro, quindi una moglie. Sono stato abbandonato da amici e parenti. Intendo dai veri amici, dai congiunti di spirito”.

“Ma, ma ci sono persone che apprezzano realmente i suoi lavori. Mi hanno detto che lei distribuisce nelle osterie del paese copie delle sue poesie. Non le ha lette anche il quartetto che gioca a scopa d’assi? Non è stato proprio lei a volere  i suoi compagni di bevuta come unici destinatari, quale uditorio privilegiato? La sua poesia è rivolta a loro, a chi non ha ancora smesso di sognare, a chi sa riconoscere in un bicchiere di vino rosso l’occasione per stringersi accanto al vicino, per confidarsi senza veli. Mi creda, è molto più che un’effimera consolazione!”.

“Forse dovrei solo abbandonarmi a un insulso peregrinare fra le invisibili dune dei fogli” - riprese con sguardo assente “ove il tempo è condannato a dissolversi in nervose spirali. Eppure m’invitano di continuo! Dio mio, quanto pesa una confessione, quant’è arduo aprire il nostro cuore al severo sguardo della ragione, sottrarsi ai trabocchetti della retorica, rivoltando la cruda insoddisfazione che avvelena il passo trascinato. Sai, spaventa l’idea di non avere alcunché da raccontare: siamo aridi, siamo diventati aridi, senza avere l’umiltà d’ammettere che fra le dita, oggi, stringiamo solo un’arma spuntata, cigolante e arrugginita. Oh, sono ridicoli i virtuosismi fuori moda! Ci rendono grotteschi e imbolsiti. Dov’è dunque fuggito il nemico?”.

Si allontanò a capo chino. Ero la sua ultima speranza.

Già, il nemico. “Il nemico non si è presentato al duello!” - avrei dovuto controbattere. Lo abbiamo aspettato con trepidazione, benché odioso. Non ci siamo mossi di un centimetro dalla nostra solida postazione. Per anni interi. Ma lui ha disertato. Probabilmente non ci reputa neppur degni d’incrociare il suo sguardo sprezzante. O forse sta chiedendo di mettersi in cammino, di stanare le sue orme allusive e sfidarlo alla luce del sole, lontani dalle infide suggestioni che una fantasia offesa tesse nella penombra. Ebbene sì, ha paura. Teme l’olezzo della nostra anima ammuffita, ancor più di un fodero bucato.

Franco non aveva neppur avuto la fortuna d’inforcare le pale di un mulino. L’alcool aveva fatto presto terra bruciata. Non c’era più alcuna via di ritorno dalla terra in cui si era smarrito, gettandosi con leggerezza all’inseguimento delle sue insidiose tentazioni. Lucidamente conscio del rischio che avrebbe potuto correre.

Non so che cosa abbia visto oltre le sue dune, se il gioco sia valsa la candela. I suoi vecchi scritti, gli scritti per cui la gente del paese lo aveva esorcizzato disprezzandolo, si erano consumati sotto le bottiglie delle osterie. Finendo in cassetti disordinati. Dietro mobili polverosi. Ormai erano solo schegge, frammenti dispersi di un passato senza memoria. I versi di oggi  erano l’ombra scavata del suo ingegno: un bambino diligente avrebbe saputo cantare altrettanto, se non di meglio. Ma di certo non l’avrei data vinta a quella massa di stolti, che non aveva saputo cogliere i fragili fiori di Franco, semplicemente perché assillati dalla necessità di sfornare mattoni e sradicare erbacce dagli orti di casa.
Scelsi una delle sue poesie natalizie. La presi per mano, le diedi una veste rispettabile, la incorniciai al centro della pagina, affinché nessun lettore del mio settimanale potesse scansarne la vista.

L’effetto finale non mancò l’obiettivo. Titoli sontuosi, rabbia scoppiettante e piumata delicatezza avevano finalmente riscattato le rughe di Franco. Come per magia, le parole stampate avevano orientato i riflettori della ribalta sull’eterno buffone, sull’immarcescibile anonimo dell’osteria all’angolo.
Sprofondato nella mia poltrona di velluto, potevo dunque attendere i rintocchi del Natale con gli occhi chiusi e il capo reclinato. Cullato dal mio carezzevole filantropismo. Il suono delle campane fu però anticipato dal telefono.

“Si?”
“Salve, sono io, Franco!” - la sua voce tremava, eppure distinguevo chiaramente la sua immagine, potevo persino intuirne le più minute reazioni “E’ stato un articolo davvero ben fatto. Ho solo una parola: grazie!”.

Grazie. E ancora grazie. L’eco di quel mugugno un po’ catarroso fu sufficiente per riempire i silenzi d’interi decenni. Di una vita che non si era persa nell’indifferenza della beffa.
“Ma…perché non fai un salto qui, in osteria?”.

Il sangue mi si ghiacciò nelle vene. Il cuore, per un attimo, smise di battere. Che cosa significava quel “ma”? La storia era finita, il lieto epilogo natalizio ne sanciva la favola, la poesia era tornata a risplendere fra gli aghi degli abeti addobbati. Eppure Franco mi voleva al suo cospetto. Chiusi la porta, tornando sulla strada che iniziava a ghiacciare.

La sedia mi attendeva severa, appena discosta dal solito tavolino traballante e illuminata dalla fioca luce di una vetusta lanterna. Il freddo siberiano aveva fatto saltare l’interruttore dell’impianto generale.
Mi guardai attorno perplesso. Non c’era nessuno. Franco sedeva infagottato nel suo cappotto fuori moda, con le dita bluastre saldamente avvinghiate alla bottiglia. Accanto, due bicchieri ancora vergini. Ormai non potevo far altro che accomodarmi.

“Ma…quella non era la mia poesia”.

Non ebbi il coraggio di sostenere il suo sguardo. Si ergeva coriaceo e tozzo di fronte alla mia figura contrita. L’idea di aver sfregiato in quel modo orribile la sua dignità d’artista, non mi aveva sfiorato neppure per una frazione di secondo. Mi ero dimostrato più ottuso degli stessi compaesani che tanto a lungo avevo disprezzato. 

Per un po’ udimmo solo il ticchettio delle gocce che, con ossessiva regolarità, cadevano nel lavandino del piano bar.

“Dunque ho commesso un errore. Già, che sciocco! Il peggiore degli errori”. Non avevo lottato per Franco, ma solo per me. Non avevo riscattato la poesia, ma avevo pugnalato la fiducia di un innocente.
“In fondo non è colpa di nessuno” - biascicò stanco – “vivendo nella mediocrità, a poco a poco, senza neppur accorgercene, diventiamo terribilmente miopi. Anzi, no: direi presbiti. Guardiamo lontano e confondiamo le linee dello spazio, semplicemente perché abbiamo perso di vista ciò che ci sta sotto il naso. A me sarebbe bastato lasciare una sparuta testimonianza nel tempo. Un’impronta mia, solo mia. Per quanto disdicevole o meschina. Non m’importa della gloria”.
“Non so che dire. Sono mortificato”.
“Non ha importanza. Per una volta cerchiamo di prestare davvero ascolto al silenzio, senza nutrire la pretesa di colmarlo con tante futilità”.

Versò del vino in entrambi i bicchieri. Quindi mi allungò il calice della conciliazione.

Ho scelto, di essere amico nel mondo nemico; poca sarà la ricompensa, ma grande l’amore! Malgret tout!”

“Era fra i tuoi fogli. E’ un verso bellissimo”.
“Già, oggi ancor di più. Sai, i medici mi hanno imposto di non toccare più una goccia di vino. Hanno detto che potrei lasciarci la pelle. Da un momento all’altro. Ma tant’è! Alla salute, amico mio!”.
“Alla nostra!”

Mentre faceva ritorno sulla strada, mi chiesi per quale motivo avesse deciso di tenere sotto braccio il foglio di giornale su cui avevo pubblicato l’articolo. Non l’ho mai saputo. Pochi metri fuori dall’uscita, Franco rantolò a terra. Senza sorridere, né piangere.
 
 


     


 

  


domenica 8 maggio 1977

TRE DITA ALZATE


Voi due, venite qui. Ho da farvi un discorsetto”.  Non ci fu neppure il tempo per salutare l’allenatore. Sollevò la mano con noncuranza e si allontanò insieme alle indiziate verso il quadro svedese. 

Appena messo piede in palestra, mi ero accorto che il programma della lezione doveva aver subito una variante inaspettata. I ragazzini stavano provando i salti in modo nervoso, mentre il loro osservatore continuava a fissare l’orologio e a fischiare con insistenza.

Mi ritirai intimidito negli spogliatoi, pronto a togliere la felpa prima del consueto riscaldamento. Benché avessi gettato solo una rapida occhiata al gruppo degli atleti sparpagliati sul tartan, intuii che la squadra non era al completo. Qualcuno aveva disertato, a pochi giorni dalla competizione più impegnativa.

Quando feci ritorno sul campo, le luci parevano essersi sbiadite, l’aria gravava umida e pesante: accovacciati in un angolino, il mio allenatore e due ragazzine si stavano fissando negli occhi con aria di sfida. Li raggiunsi in silenzio, cercando di capire cosa fosse accaduto, senza mostrare segni di invadenza.

Il vero problema – sbottò infine sconsolato – è che bisogna parlare apertamente, dire le cose in faccia. Se nei giorni scorsi vi eravate accorte di esser state trascurate, sarebbe bastato presentarsi ai preparatori e chiedere di essere seguite meglio. Siamo in tanti: purtroppo non è facile comprendere le esigenze di tutti, perciò dobbiamo collaborare, darci una mano reciprocamente. Mi capite?

Non siamo poi tanto stupide: è lo stesso discorso che ci hanno fatto prima. Ma che colpa abbiamo noi, se lei ha scelto di andarsene? Il nostro gruppo si allenava distintamente dal suo. Non avevamo molti contatti

Già, ma dopo tanti anni condivisi nella stessa palestra eravate pur sempre amiche. Vi conoscevate e sapevate anche che lei era disposta a sacrificarsi, pur di conseguire ottimi risultati. Il gruppo delle sue affezionate si era dileguato, è vero… ultimamente, poi, le lezioni non avevano più seguito un programma rigido, ma diamine…abbiamo perso uno dei nostri assi! Un’amica, una ragazza straordinaria!

Ci dispiace

Non dovete sentirvi in colpa. Sappiate solo che noi siamo sempre pronti ad ascoltarvi. E ora andate: vi ho già sottratto minuti preziosi. In gamba, ragazze!

Si sollevò ostentando un sorriso affabile, ma con gli occhi velati dalla delusione. In fondo, cercare un colpevole era quanto di più errato si potesse fare in quel momento. Tutti, nel bene o nel male, eravamo responsabili.
Avevamo perso la sfida più impegnativa e lei, purtroppo, non sarebbe più tornata. Anzi, avrebbe iniziato una nuova, luminosa carriera nelle fila di una società concorrente.

Pronto a sgambettare?” – domandò affabile.

Certo. Come sempre”. 

Non era vero. Qualcosa, nello spirito di gruppo, si era rotto in modo definitivo. Le settimane a venire non sarebbero più state le stesse, nonostante la dipartita di una singola atleta potesse apparire irrilevante, agli occhi dei più. Iniziammo dunque a girare attorno all’isolato, seguendo il solito quadrato residenziale avvolto nel buio e nella nebbia. Nessuno aveva voglia di parlare. Udivamo solo i nostri respiri affaticati, lo scalpiccio delle suole sulla ghiaietta dei marciapiedi. Non so per quanto tempo continuammo quella farsa, ma il dolore alla milza ed il tremolio delle gambe servivano a farci sentire ancora vivi. Eppure, mai come quella sera ebbi l’impressione di girare a vuoto. Di correre senza uno scopo.

E’ dispiaciuto al capo?” – biascicai all’improvviso. 

Lui mi guardò sorpreso, avendo creduto, forse, che fossi rimasto totalmente estraneo alla vicenda. In realtà, più di ogni altro, avvertivo un nodo alla gola. In palestra, quando avevo realizzato che la discussione ruotava proprio attorno a lei, dovevo essere arrossito d’imbarazzo. Fortunatamente nessuno se n'era accorto.

L’ironia del destino” – avevo pensato fra me e me, mentre le due ragazze rimproverate tenevano il capo chino. “Proprio questa sera doveva capitare, dopo averla incitata nell’ultima gara, dopo averla incontrata nel fine settimana in mezzo a mille persone, dopo il suo saluto ricercato e interrogativo… basta, se n'è andata. Così, senza preavviso. Senza dirmi ciò che da mesi pareva angustiarla”.

Lui è abituato – commentò asciutto - di atlete ribelli ne ha viste tante nella sua vita. Alla fine è un po’ come a scuola: arrivano, crescono, se ne vanno. Fa parte del corso degli eventi. Resta però il rammarico di una partenza prematura.
Sai...in genere capita quando una ragazza ha già raggiunto i diciotto, i diciannove anni; ormai il cammino è compiuto. Lei, al contrario, aveva ancora molto da donare a noi tutti”.

E’ buffo. Ne parli quasi fosse morta

Beh, la differenza non è poi molta. Sarà difficile rivederla. E’ uscita dalla nostra vita. Non ci saranno più gare da condividere, né gite di gruppo durante le quali ridere a crepapelle. Come quest’estate, ricordi? Quanto ci siamo divertiti nella pensione vicino al lago! Tutto finito”.

Rientrammo mesti in palestra. La corsa ci aveva sfiancato, ma alla fine ne eravamo quasi compiaciuti. Avrebbe aiutato a dimenticare. “Mio dio, dimenticare! – inorridii muto – dimenticare! Era come se la stessi condannando al confino. Forse è solo il rimorso che spinge a occultare il corpo del reato, a storcere lo sguardo dalla ferita sanguinante…”.

Prima di varcare la porta d’ingresso, mi mise una mano sulla spalla. “Pazienza. Ci si abitua a tutto”.

Aveva capito. L’inflessione della sua voce tradiva una consapevolezza sin troppo schietta.
Dunque il mio rossore non era passato inosservato. Ma in quale misura, sapeva? Se in palestra erano davvero al corrente del mio sgarbo, la gogna non si sarebbe fatta attendere ancora molto. Evidentemente circolava solo qualche pettegolezzo….mai provai angustia peggiore nel resto della mia mediocre carriera di atleta.

Due settimane dopo, i migliori alunni dell’istituto scolastico locale furono chiamati a confrontarsi con i coetanei di altri tre Comuni vicini. La campestre si sarebbe tenuta all’interno di un ampio parco, su una superficie fangosa e difficile. Gara d’alto livello, destinata a gente grintosa. Era l’occasione d’oro per mettere in luce le leve della nostra società. Vecchie e nuove.

Lei non poteva mancare: la sua fama giganteggiava fra le concorrenti dell’ultima batteria.

Stava svolgendo appartata alcuni esercizi di riscaldamento, accanto ad un castagno dai colori accesi. Il contrasto con la sua tenuta ginnica, completamente nera e molto attillata, esaltava il fisico asciutto, appena turbato dal primo sbocciare della sua delicata femminilità. Sulle labbra, nessun sorriso: era concentratissima, incuteva rispetto e persino un po’ di timore.

Vuole dare lei il via alla corsa?

La domanda dell’insegnante di educazione fisica mi catapultò nel caos elettrizzato della gara. Quando mi voltai, il campo, che pullulava di studenti variopinti, dispensò subito un effetto rasserenante. La giornata era gradevole, sebbene il gelo invernale bussasse alle porte. Nel cielo, ammantato di uno straordinario blu cobalto, il sole si stiracchiava pigro, mentre dal percorso segnalato con paletti traballanti si levava un gradevole profumo di erba tagliata.

Non sono un buon giudice. Forse è meglio scegliere qualcun altro!

Oh, ma lei è il nostro cronista di fiducia. Se vuole essere sempre in prima fila nel dare notizie, questa è indubbiamente un’occasione irripetibile

Mi avvicinai alla linea di partenza con grande circospezione. Il fato aveva decretato che proprio la mia equivoca persona dovesse inaugurare la sua gara. La vidi allinearsi alle compagne, mentre teneva lo sguardo rivolto a terra. Percepivo il suo imbarazzo. Non avevamo avuto neppure il tempo di salutarci.

Pronti…”. 

Alzarono tutte il capo, contemporaneamente. Nella frazione di secondo che aveva preceduto il via, lei non aveva resistito. Com'era capitato a me, d’altra parte. Per un attimo avevo incrociato i suoi occhi lucidi e tempestosi, dispensando il segreto augurio che ero solito tributarle un tempo, quando potevo ancora ammirarla da dietro la rete degli stadi.

Sarà dura su questo campo…” – sentenziò uno degli insegnanti, il cui sforzo maggiore era stato sino a quel giorno il ruminare della mandibola di fronte a piattini di meringhe montate.

Non per lei, però. Guardi che falcata! E’ così elegante, così leggera, si nota che è una spanna sopra le altre…”

Col suo passo sicuro e potente stava già staccando il gruppo di testa.

Beh, sappiamo per chi fa il tifo!” – commentò ironico.

Sto solo giudicando le potenzialità agonistiche”.

Sì, sì, adesso si chiamano le potenzialità agonistiche…”.

Era un buffone e, purtroppo, lo sarebbe rimasto sino alla fine dei suoi giorni. Mi ricordavo bene di lui. Ai tempi delle scuole medie era stato il mio professore di educazione fisica. L’unica preoccupazione in grado di farlo sobbalzare dalla seggiolina della palestra era la sicurezza dello spogliatoio femminile. In un modo o nell’altro, trovava sempre un pretesto per ronzarci attorno.

Lei guadagnava metri. Fresca e scattante, come al primo giro. Il suo corpo si muoveva con estrema armonia, senza rinunciare a strane accelerazioni quando sfrecciava davanti alla mia postazione. La coda dei capelli, solo un poco ondulati, sobbalzava inquieta a destra e a sinistra, richiamando le immagini di animali selvaggi in corsa verso la linea dell’orizzonte, lanciati nelle immense praterie siberiane. Tale era il distacco dalle inseguitrici che, all’improvviso, venni turbato da un pensiero assurdo: “e se stesse correndo solo per dimostrarmi qualcosa, per rispondere alla sfrontatezza delle mie accuse?”.

Si prepari a raccogliere i cartellini. Stanno per arrivare

Com’ero stato meschino! L’avevo accusata di essere una ragazza ambiziosa, piena di sé fino all’eccesso. Ma non mi ero limitato a sibilare il mio giudizio con velenoso sarcasmo, quando ancora svolgevamo fianco a fianco gli allenamenti, durante le settimane addietro. Avevo osato pronunciare quelle parole davanti a tutte le sue compagne, mettendola indubbiamente a disagio. Mi ero comportato da irresponsabile, mentre lei aveva liquidato la faccenda con una smorfia beffarda.

La mia presenza alla gara non avrebbe certo recuperato i cocci di un rapporto incrinato. Chissà di quale ipocrisia mi stava accusando, ora che s'accingeva a tagliare il traguardo fra le urla acute delle sue sostenitrici. Non avevo neppure la decenza di nascondere l’applauso.

Brava! Bravissima! – il professore si era sciolto in brodo di giuggiole – lascia, sei affaticata, stacco io il cartellino dalla tua maglia”. 

Non la vidi neppure passare. Solo una breve ventata, pervasa da una calda sfumatura di sandalo, mi comunicò che la sua gara era giunta a compimento. Come al solito in un tripudio di acclamazioni, con un distacco esagerato, con una freschezza invidiata persino dalle vezzose dee dell’Olimpo.

Ancora una volta, era lei ad aver vinto. Ma ora, purtroppo, non mi era neppur concesso tributarle un atto di stima sincera. Forse mi sarei rifatto durante la stesura dell’articolo che, sul numero di fine settimana, avrebbe esaltato la sua ennesima impresa.
La manifestazione era agli sgoccioli.

Ma come? Non si ferma per le premiazioni?” osservò sorpreso il professore.

Ho assolto il mio incarico. Lascio a lei la gloria…”

Si perde il meglio…”

No. Io ho già visto quanto mi interessava….arrivederci!

Alzai il bavero del cappotto e, fissando la punta dei piedi, mi avviai verso l’antica cancellata. Le strade trafficate mi attendevano dietro i suoi intrecci rococò.

Brava! Almeno questo complimento credo di meritarlo da te!

Mi voltai imbarazzato. Era sopraggiunta con aria trionfante.

Ti meriti ben di più. E’ stata una delle gare più intense cui abbia mai assistito: chissà se, un giorno o l’altro, ci sarà mai qualcuno capace di impensierirti…”

Io l’ho già trovato!

Ah sì? E di che squadra è?

Sorrise storcendo le labbra con una punta d'amarezza. Poi s'avvicinò sino a sfiorarmi e, guardandomi fisso negli occhi, disse “tu!”.

Sei ancora arrabbiata con me, vero? Non sai quanto mi dispiace. In palestra pensano che te ne sia andata per cercare un ambiente più stimolante, di maggiore agonismo, ma credo che la ragione sia un’altra…”.

– sussurrò con un filo di voce – ma non è esattamente quella che tu immagini

Mi ritrassi sorpreso. Per giorni e giorni mi ero angustiato attorno ad un’offesa per lei irrilevante. Mi sentivo confuso.

Il fatto è che….io ti amo!

Quella rivelazione, così simile a uno dei suoi fulminei scatti, mi lasciò di pietra. Era l’ultima cosa cui avessi potuto pensare.

Ma…ma tu hai quattordici anni!

Non mi sembra una risposta molto romantica…”.

No, non è affatto romantica. Voglio solo dire che è così difficile definire l’amore…soprattutto quando si è tanto giovani…io stesso non saprei offrirti una spiegazione esauriente…”.

Meglio. Se nessuno dei due sa dire cosa sia, lasciamo solo che accada!”.

La sua parlantina mi aveva messo in croce. In quel momento, fra noi due, era lei a dimostrarsi la più matura. Anche il suo corpo, ora, appariva più vicino a quello di una donna minuta, che alla figura di una ragazzina impertinente.

E che cosa ti aspetti?

Questa volta sorrise con una punta di malizia, incrociando le sue gambe sottili e le braccia dietro la schiena. Abbassò lo sguardo, finalmente tornato vivace ed allegro, e bisbigliò: “mi accontento di un bacio. Per ora!”.

Le premiazioni avevano raccolto tutti i presenti nel cortile dell’antica cascina. Il viale, sui cui vigilavano robusti platani, era turbato solo dal cinguettio dei passeri. Persino la tarda brezza mattutina si era scaldata ai raggi del sole e correva fra i nostri riccioli, accarezzandoci benevola.

E va bene. Oggi hai vinto due volte. Ma…come recita il finale di un vecchio film, domani è un altro giorno!”.

Si avvicinò protendendo le braccia sottili verso il mio collo, alzandosi in punta di piedi. Avvertii dapprima il calore del suo respiro, concitato e tremante come l’abbraccio da cui ero cinto, poi le sue labbra sfiorarono le mie. Si toccarono, reciprocamente sorprese e ingenue, si cercarono, stuzzicandosi con curiosità.

Oh, mio dio! – gridò fuori di sé – è...è meraviglioso! Stupendo!”. 
Si mise a correre sul vialetto, balzellando come una cavalletta.

Grazie! Grazie!” – e mi abbracciò ripetutamente.

Fra poco ti chiameranno: è meglio che tu vada alla premiazione”.

Già, sono arrivati a quelli della mia batteria”.

La guardai ammirato. Viveva ancora di sogni e poesia. Un petalo di rosa che volteggiava spavaldo fra gli sbuffi dell'imminente tramontana. Un folletto dei boschi che si stagliava controluce verso un futuro non troppo lontano.

E’ per questo che hai deciso di lasciare la società?

Era difficile, per me, continuare ad allenarmi in palestra. Non potevo fare a meno di sbirciarti da dietro le porte, o nei riflessi delle vetrate. Non ti voltavi quasi mai e io non ero disposta a rinunciare anche ad uno solo dei tuoi sguardi, o a un tuo sorriso. Così dolce. Le battutine che lanciavi mi mettevano in agitazione, mi facevano sentire al centro dell’attenzione. Credo che il trasferimento sia stato un bene per tutti”.

Tentennava. Non riusciva ancora a credere a quanto le fosse capitato.

Mi prometti una cosa?”.

Distesi il palmo della mano sul cuore. Era divertente. Sembrava d'essere tornati adolescenti.

E’ una promessa solenne. Se le presti fede, dovrai mantenerla seriamente. E’ importantissima per me. Direi che è quasi sacra”.

Spero non sia troppo vincolante”.

Si allungò ancora sulla punta dei piedi e mi sussurrò all’orecchio: “voglio che tu venga a prendermi in macchina il giorno del mio diciottesimo compleanno. Anche se non ci dovessimo più vedere sino ad allora. Poi andremo sul lago e ci terremo abbracciati su una panchina sgangherata, assaporando i baci dell’alba. Costi quel che costi. Anche se sarai emigrato o sposato. Me lo prometti?

Ti do la mia parola di cavaliere

Scomparve soddisfatta fra i cespugli del vialetto.

Non la rividi più. Molte cose cambiarono nella mia vita, da quel giorno. Mi allontanai da casa, iniziai a lavorare per un giornale straniero e decisi di non tornare più sui miei passi.
Non scordai però la mia promessa, la promessa strappatami da una gentil donna astutamente celata nel corpo di una ragazzina.

Il giorno del suo diciottesimo compleanno feci ritorno al paese natio. Era sera. Davanti al cancello della sua abitazione motorini e studentelli sbruffoni si contendevano la scena. 

La vidi comparire all’improvviso dal cortile della villetta.

Era alta, florida, vestita in un provocante completo di jeans. All’inizio non s'accorse neppure della mia presenza; poi, quasi avesse avvertito alle sue spalle un richiamo recondito, si voltò incredula.

Ma...ma sei tu! Sei venuto davvero!

Già. Ti avevo dato la mia parola”.

I ragazzi sui motorini si scambiarono occhiate perplesse. Lei era imbarazzata, benché nei suoi occhi scalpitasse una folle irrequietezza. Rimase in piedi in mezzo a loro, indecisa sul da farsi.

Beh, sei stato gentile. Però questa sera ho da fare…”.

Pazienza. Non possiamo prevedere tutto quanto dovrà capitare. Comunque mi ha fatto piacere rivederti. A presto e…divertiti!”.

Sì...ciao!”.

Mentre mi allontanavo al volante di un’auto scalcinata, m'accorsi che i suoi occhi mi stavano fissando di lontano, nello specchietto retrovisore. Aveva l’espressione di chi vede lentamente dissolvere, nell’imprevedibilità della vita, un sogno non più compreso.

Era diventata una vera donna. Io, al contrario, ero rimasto un ragazzino. 

Sollevai tre dita della mano, l’indice, il medio e l’anulare, ridacchiando beffardo: “oh Adamo, sei sempre così serio!”. 

Quanto avrei dato per rivedermi una puntata del mio cartone animato preferito…