"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

giovedì 11 novembre 2004

LA VIA DELLA SETA



SULLE ORME DEL BRUCO BOMBIX

L’idea di raccontare un viaggio lungo l’antica “Via della Seta” è nata in cella. Quando una burbera guardia di confine mi intimò di sedermi dietro le sbarre della caserma di Atyrau, una polverosa e sperduta cittadina nella steppa kazaka, pensai che sarebbe stato meglio far tesoro della mia esperienza e dispensare qualche consiglio in più a chi considera ancora l’Asia Centrale un buco nero dell’atlante. L’originario intento dello scorso viaggio estivo, che da Stalingrado avrebbe dovuto condurmi a Tash Rabat seguendo le orme del barone Ferdinand von Richtofen (colui che nel 1870 coniò appunto l’espressione “Via della Seta”, per raccogliere sotto lo stesso nome le rotte carovaniere di collegamento fra Europa e Cina, attraverso Russia, Uzbekistan e Kirghistan) consisteva nello sciogliere un dilemma esistenziale debilitante, scoprire cioè come il bruco Bombyx fosse potuto arrivare a Biassono: i gelsi presenti nelle antiche corti del paese sono infatti le ultime vestigia di una tradizione che, forte degli scambi sviluppatisi fra Occidente ed Oriente a cavallo del IV secolo a.C. ed il XVI d.C., diede avvio ad una cultura contadina della seta riccamente testimoniata dai reperti del museo civico “Carlo Verri” (www.museobiassono.it).

Raggiungere città leggendarie come Samarcanda, Bukhara o Khiva costa però oggi almeno tanta fatica, quanto un tempo ne sudarono Marco Polo e i suoi successori, costretti ad attraversare le sabbie infuocate del deserto del Karakum, o le inarrivabili Montagne Celesti del Tien Shian, pur di barattare lana e vino nostrani con i preziosi beni del Gran Khan (fra cui abbondavano porcellane, spezie e tè).

Fatica eccezionale, per lo meno per il viaggiatore indipendente via terra, cioè per chi rifiuta di credere che simili tesori possano essere realmente a portata di mano con un volo di appena tre ore da Mosca. Purtroppo viaggiare in treno, con mezzi su gomma o cammelli può rivelarsi oggi una via d’approccio molto rischiosa: scoperto che i kazaki non permettono di attraversare il loro paese senza un visto di transito (a differenza di quanto sostengono i russi), dopo l’arresto mi ero rassegnato ad abbandonare il giornalismo per diventare un pastore nomade delle steppe. Invece con qualche colpo di fortuna ho infine potuto accedere al temuto Uzbekistan, paese che i figli dello zar dipingono ormai come una tana ove si è certi di essere sbranati dal presidente bifronte Kharimov, o dai suoi astuti concittadini. Inaspettatamente le maggiori insidie sono però giunte da una maledizione che grava sulla tomba di Tamerlano, l’emiro passato alla storia per aver messo a ferro e fuoco l’Asia Centrale fra il 1386 ed il 1395, ma il cui spirito continua a vivere nel minaccioso blocco di giada verde scuro conservato all’interno del mausoleo Guri Amir.

“Non bisogna avvicinarsi troppo alla tomba – mi aveva intimato Umet Ilyos, sufi custode di un altro sepolcro sacro di Samarcanda, quello dove le spoglie del profeta Daniele si sono allungate miracolosamente sino a raggiungere i 18 metri – perché chi ne smuove anche solo il coperchio, è condannato a scontare terribili pene, proprio come capitò allo sciagurato condottiero Nadir Shah: nel 1740 cercò di portare in Persia la tomba, spezzandola in due e mettendo a serio repentaglio la vita del figlio, finché disperato non restituì la reliquia”. L’antropologo sovietico Mikhail Gerasimov fu ancora più sfortunato: in seguito alla violazione della sacra tomba per studiare i resti del tiranno, il giorno successivo, cioè il 22 giugno 1941, i nazisti invasero addirittura l’Urss. Pare fra l’altro che lo scoperchiamento comporti la reincarnazione sulla terra di un nuovo conquistatore sanguinario, oggi identificato da molti uzbeki con Bin Laden.

Sarà per il fatto che quell’ammonimento mi arrivò troppo tardi, ma il viaggio per Bukhara e Khiva finì per trasformarsi davvero in un’odissea. Durante la notte il farraginoso bus d’epoca sovietica che mi aveva caricato a bordo perse il motore, mentre al ritorno il mio taxi “Zigulì” vide sganciarsi letteralmente una ruota, finendo quasi per ribaltarsi nel deserto dopo un terribile testacoda. Probabilmente avrei dovuto comportarmi come i saggi pastori kirghisi.

“Se non si rende onore agli spiriti dei balbal – mi aveva successivamente illuminato Toktogul Jumabekov, una guida del progetto kirghiso-svizzero “Vita del Pastore”, mediante cui, dal 1997, i turisti indipendenti hanno la possibilità di albergare nelle tende dei nomadi per calarsi nel loro stile di vita – il cammino umano diviene difficile ed insidioso. E’ per questo che noi versiamo latte sulle antiche lapidi di pietra sagomata che affiorano nella steppa: per quanto possano essere dedicate ai guerrieri caduti nelle più antiche battaglie avvenute in Kirghistan, quelle del khanato di On Ok, risalenti al VI secolo d. C., gli sciamani dicono che la loro protezione può aiutarci anche oggi”.

Chiusi nelle vallate del Pamir, le cui vette orbitano attorno ai 7000 metri, i kirghisi sono riusciti a far sopravvivere tradizioni antichissime persino al dominio sovietico: a Kochkor, così come a Tash Rabat, le donne continuano a cucire a mano i tappeti “shyrdak”, ottenuti con un processo di sovrapposizione di disegni a mosaico su strati di lana differenti ed utilizzati come decorazioni interne delle yurta (le tipiche tende circolari di feltro dei nomadi); il cibo più diffuso resta il “kymuz”, bevanda a base di latte di giumenta fermentato con erbe dal sapore alcolico, mentre per riconoscere i leader delle varie tribù ci si affida ancora a curiosi giochi “olimpici” che si tengono periodicamente negli jailoo (pascoli d’altura).

Di fronte alla mutilazione di una pecora che viene usata come palla insanguinata da due squadre di sei giocatori a cavallo (Ulak-Tartysh), all’inseguimento delle ragazze su scattanti destrieri per costringerle ad un bacio (e quindi al matrimonio) o, in caso di fallito aggancio, a frustare il mediocre amante-rapitore (Kyz-Kuumai), così come alla raccolta d’invisibili monete a terra senza staccarsi dal brado in corsa (Tyiyn Enmey), non è difficile credere che queste genti fossero gli alleati più fidi del terribile Gengis Khan. Ci sono voluti però oltre 5000 chilometri per capire come, in fondo, non si diano leggi capaci di piegare realmente l’indole umana. Un reduce pluridecorato di Stalingrado aveva cercato di spiegarmelo con una buffa storiellina all’inizio del viaggio, ma accontentarsi delle parole non basta mai.

“In nome di Stalin e Hitler – aveva infatti ricordato Sergej Beliakov, braccio destro del generale Yeremenko nella 62ª armata dell’esercito sovietico – sulla collina 102 sono morti quasi 1 milione 200mila soldati, numero che neppure il titanismo della statua qui dedicata alla Grande Madre Patria, alta più di 100 metri, riesce ad onorare. Loro sono caduti anche in nome dell’Urss o del Reich, ma oggi non ci sono più né l’una, né l’altro. E sai perché? Perché ha ragione Anatolij Gladilin”.

Secondo lo scrittore russo, dal momento che nessuno sa esattamente dove sia finito il corpo di Stalin, il giorno in cui la scienza proletaria avrà il potere di riportarlo in vita, lui tornerà sicuramente per pronunciare un discorso contro la corruzione dei costumi. Ma per quanto leader indiscusso, i politici in carica sapranno difendersi dal suo autoritarismo con sottile meschinità, inviandogli un semplice telegramma che reciterebbe: “il Polibjuro leninista saluta la miracolosa guarigione del glorioso dirigente, provato marxista, compagno Stalin! Il Comitato centrale ha tuttavia ritenuto inopportuno cooptare il compagno Stalin perché, com’è noto, la figlia Svetlana Allilueva è fuggita all’estero, ha tradito la Patria e ha compromesso in questo modo il nome del Capo agli occhi del nostro popolo. Spiacenti, ma le regole non si cambiano”.

giovedì 30 settembre 2004

PORTOGALLO



LE MENTITE SPOGLIE DEI TEMPLARI

Lisbona è astuta. Non ha un centro, non ha un volto definito, si tiene sempre aperta una via di fuga. Alcuni dicono sia per il brivido di sentirsi ad un passo dagli abissi atlantici, altri danno tutta la colpa ai terribili terremoti che l'hanno funestata nei secoli, probabilmente è per il fatto che qui si sono intrufolati gli ultimi cavalieri Templari sopravvissuti ai roghi francesi.

Dietro il suo azzurro ammiccare, che seduce l’immaginario collettivo con i preziosismi bizantini, gotici e manuelini dell’esagonale Torre di Belém o con lo slancio architettonico del cinquecentesco monastero di San Gerolamo (ideato dal genio floreal-decorativo di Diogo De Boitaca), emergono allusioni scultoree ed antiche leggende sottaciute dalla storia, nomi di personaggi legati a misteriose confraternite, che immancabilmente riportano ai Cavalieri di Cristo: secondo nome per indicare il disciolto e ben più noto Ordine dei Cavalieri Templari, veri artefici dell’unificazione portoghese, oltre che ambigui difensori della Terra Santa, i cui segreti tesori hanno finanziato le grandi esplorazioni veliere del XV e XVI secolo. Qualche sospetto sulla loro richezza potrebbe già venire contemplando la possanza romanica della cattedrale-fortezza Sé, costruita nel 1150 per volere di Alfonso Henriques e suggestivamente nascosta nei grovigli moreschi dell’Alfama.

Una volta avvicinata la città sotto una chiave semiotica, diviene inevitabile guardare oltre i suoi confini. I quesiti sollevati dalla visita della capitale trovano infatti un’importante serie di risposte nella cittadina di Tomar, ad appena un’ora di ferrovia da Lisbona, incastonata nella verdeggiante regione del Ribatejo. Costruita sulle pittoresche rive del Rio Nabao, che offrono l’opportunità per piacevoli escursioni su battello verso il vicino lago artificiale di Castelo de Bode, Tomar vanta nel quartier generale dei Cavalieri di Cristo una delle testimonianze europee più insigni dell’epopea medioevale. Non è un caso che questa straordinaria fortezza-convento, edificata nel XII secolo dal gran maestro Gualdim Pais in un intreccio di simbologie esoteriche, cripte iniziatiche e dotata dell’inestimabile Charola a 16 lati (che riproduce la chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme), abbia conquistato la fantasia di un grande semiologo come Umberto Eco: abile nel portare il complesso alla ribalta internazionale grazie al successo del libro “Il pendolo di Foucault”.

A completare l’esperienza cavalleresca, resa ancor più suggestiva dall’eco dei passi che, in città, risuona fra le strette vie piastrellate di azulejos, o all’ombra di pittoreschi palazzi secenteschi e chiese dal sapor eretico (con Madonne che allattano a seno scoperto), il Convento De Cristo dà persino modo di partecipare ad una cena rinascimentale in costume: è c’è da scommettere che fra intrattenitori eredi di Gil Vicente, cori, frati predicatori, soldati con alabarde e giocolieri pirotecnici, sognare d’essere un cavaliere sarà tanto facile quanto chiudere gli occhi.

FESTA DOS TABULEIROS

Tomar – Là dove i Templari sono passati, tutto diviene ambiguo. Persino nella celebrazione della Festa dei Vassoi (o dei “tabuleiros” in portoghese), uno degli appuntamenti estivi più folkloristici della regione di Tomar. Per quanto ufficialmente la processione sia dedicata allo Spirito Santo (così vuole infatti la tradizione che attribuisce la paternità dell’evento alla regina Santa Isabella, moglie di Dom Denis nel XVII secolo), sembra in realtà che le sue radici affondino in un antico rito pagano della fertilità. L’intento della festa consiste comunque nel lodare lo Spirito Santo, portando ai poveri il pane dei vassoi, il vino trasportato dai buoi e la carne stesse di questi ultimi, dopo esser stati benedetti dal priore del quartiere: alla sfilata partecipano più di 400 ragazze vestite di bianco (e possibilmente vergini), che portano sulla testa enormi vassoi carichi di trenta pani, decorazioni floreali in cartapesta e con in cima una colomba o una croce templare; il tutto, per l’esorbitante peso di quasi 25 chili. Un rito emigrato nel tempo anche alle Azzorre, per approdare infine negli Stati Uniti ed in Canada, come espressione più tipica della “portoghesità”.

mercoledì 1 settembre 2004

TRANSOXIANA 2004



Tagliolini di un viandante in maglietta rossa

“Vieni, vieni; chiunque tu sia, vieni. Sei un pagano, un idolatra, un ateo? Vieni! La nostra casa non è un luogo di disperazione e, anche se hai tradito cento volte una promessa, vieni!”

(quartina di Jalal alDin Rumi, 1207-1273, esposta all’ingresso della sua dergah)



28/07/04 h. 9.54 – Preludio: sedile macchiato del Malpensa Express, Stazione Cadorna

Dannato Scamoggi! Da quando ti ho conosciuto, là, su quella pellicola in bianco e nero, dove pretendevi di essere il più rosso dei rossi, mi hai condannato alla tua stessa sorte. E non c’è Don Camillo che tenga! Anch’io sto per partire, anch’io sto per abbandonare un frammento del mio cuore, che solo non batte per giunta.
Come il Sole splende nella Luna, così ogni maliziosa verità lascia trapelare un segreto doppio, tanto caro quanto più mi fugge. Dove mai me ne andrò, ora che so, ora che le mie labbra sono state fuggevolmente lambite e la mia carezza si è riempita di un’innocenza che non è più tale? Il vento è davvero girato ad ovest? E sia, ma lo raggiungerò da Levante!
Voglio solo veder sorgere un’alba imperitura, voglio che non ci siano mai più addii nella mia lunga marcia…e se pure un giorno dovessi realizzare che quell’ovest è la mia fine, voglio guardarlo in faccia con la certezza di avere ancora il cuore di un fanciullo e il sorriso beato di un cieco.
Addio petali in fiore, vi ritroverò ancora, ma sarà ormai una stagione nuova…

31/07/04 h. 12.48 – all’ombra del Mamaev Kurgan, Stalingrado

Gradino dopo gradino, cadavere su cadavere, l’Unione Sovietica vide sorgere dalla collina 102 la Grande Madre Patria. Spettacolo titanico che sfida i cieli, dilania il rimorso e vorrebbe forse calpestare quelle schiere di sposini dal sorriso troppo facile, pronte a sacrificare il proprio bouquet, pur di sentirsi in pace con la coscienza.
Figli sciagurati! Mentre i loro nonni morivano come insetti sotto gli ordini di Mosca, falcidiati fra le rovine di una città divenuta Fenice, loro già pensavano all’ultimo tradimento, quello più odioso perché concepito non dal nemico, ma da chi più si ama. A che serve preservare la memoria di un mondo che più non esiste oltre quella spada sguainata, pietrificata nell’aria, a monito di una battaglia vinta sì sul campo, ma persa nel tempo? Ah, quanto simile m’appari ad un grottesco Don Chisciotte, o Madre senza più voce!
Nessuno ha più occhi per l’invalido che si vergogna di elemosinare sotto il tempio della sua gloria, per il compagno d’armi, che tampona lacrime di fatica sotto il cappello della matricola accecata dai flash, per la luna che sbianca d’orrore sulla steppa insanguinata!
Onore ai tuoi caduti, vecchia Unione Sovietica, bella e gloriosa nelle tue camere sterili, sbattuta come una puttana nel giorno degli omuncoli!

04/08/04 h. 13.00 – da una cuccetta in disordine. Astrakan

Astrakan è apparsa e si è dissolta con la stessa rapidità con cui ho divorato il biscotto al burro appena offertomi dalla Provodnitza; piacere puro, ma dal fulmineo orgasmo. Impossibile amalgamare in un’unica pasta il bianco terrore del Cremlino all’urlo ancora echeggiante dell’Orda d’Oro e le fiamme di passione che il tramonto imporpora sul Volga, il profumo del Loto che schiude la mente in un delta non più vergine e la malizia di ragazze perse a rincorrere sogni d’oltrefrontiera.
Eppure tutto questo è stato; friabile famelicità della vita di porto, che trasforma i ricordi in zuccherini da lasciare in pasto ai nostalgici: ai nonnini che sventolano le rosse insegne staliniane piangendo canzoni dimenticate, così come ai parà mezzi brilli, che sciolgono la rabbia di gloria sotto il monumento dei loro irraggiungibili caduti…e diciamolo, diamine: anche ai pendolari vagabondi che fanno gli sciupafemmine con la Tatjana di turno e poi nascondono gli occhi al loro inconsolabile bacio d’addio.
Non c’è tempo per assaporare; non c’è tempo per riflettere: o si parte o si accetta di cambiare; persino gli storioni da record non reggono la prova dei tre giorni, perché qui il Volga ha impresso il suo corso alla storia: mille diramazioni, una sola foce. Che poi questa sia un’immensa lacrima salata chiamata Caspio, lasciamolo dire ai geografi. Per noi è solo quell’invisibile goccia che si frappone fra labbra ansimanti fugaci promesse. Promesse di porto. Promesse da marinaio.

07/08/04 h. 10.24 – muretto dell’abbindolatore. Parco urbano Amur Timur

I proclami del presidente Kharimov, monopolista del gigantismo pubblicitario uzbeko, non sanno più a che lingua appellarsi. Invocano un’immaginaria unità nazionale, una stantia corsa verso la società dei consumi, ma la nomenclatura delle strade appartiene agli eroi di una rivoluzione ormai estranea. Troppo caro è costato l’atto di ribellione alla vecchia patria sovietica e la bigotta dedizione che infiamma i bazar di Chorsu, dove per le donne diviene sempre meno consono passeggiare sole o rivolgere la parola agli stranieri, spaventa più delle fantasie geopolitiche di Stalin o del terremoto del ’66, che della città lasciò solo le polveri e lo squallido monumento di piazza Sharaf Rashidov. Uno che, ai terremoti, preferiva indubbiamente la cancrena della Stagnazione.
Esiste ormai una sola famiglia, ma non è più quella dei baroni rossi, degli amici di Breznev che dispensavano baci più viscidi di Giuda, bensì l’Islam appassionato di musica turca, letterati iraniani e, soprattutto, dei battesimi in grado di far piazza pulita di ogni passato. Si allungano le ombre fra le gelide prospettive slave di Tashkent, ma la falce di un tempo assomiglia ormai troppo ad un’impietosa mezzaluna.

08/08/04 h. 20.08 – sotto un lampioncino sbiadito. Samarcanda

Sdrastvui. Hello. Buon Giorno. Non c’è dunque modo di essere stranieri in questa leggendaria Babele d’Asia, così a lungo vagheggiata nei secoli ed oggi terribilmente a portata di mano? Dove mai sei finita, oh misteriosa Samarcanda, città dalle maioliche in fiore e dai profumi di montone arrostito?
Scintillante, nel suo impeccabile restauro, il Registan si è chiuso in un silenzio metafisico degno delle più perfide macchinazioni di Tamerlano; gli sbalzi cromati delle madrase e delle moschee ammiccano troppo sfacciatamente ai som svalutati; nei bazar degli allibratori si vende Pepsi contraffatta, mentre le nobili vesti blu oro degli sposi uzbeki invecchiano sugli appendini senza più ganci assistenzialisti.
Ma in fondo, non sei sempre stata un’ambigua promessa dal volto simile a quello del doppio Rashidov? Quanti artisti, ingegneri e poeti si lasciarono ingannare dai tuoi sfarzi, prima di finire sotto la sciabola capricciosa dei tiranni di turno?
So che sei nascosta dietro gli angoli delle vie sterrate, gelosamente rintanata in quei bianchi cortili da cui occhieggiano gli anziani, dalle folte barbe e dai berretti in pizzo; sì, sei negli sguardi ammaliati delle ragazzine, che sbirciano dalle porte intagliate, sei nel sorriso dell’Imam che ama attardarsi fra i suoi accoliti con la mano al cuore, sei nello sbadiglio del venditore d’anguria che non si preoccupa del domani, sei nel lamento del muezzin, che muore impercettibilmente nell’oscurità della memoria…per cui non dirmi chi sono. Chiedimi solo da dove vengo. Basta e avanza per sognare ancora.
10/08/04 h. 14.58 – dove Gengis Khan cedette lo passo. Minareto Kalon, Bukhara

“Vive la France!”. Quindi un’esplosione per sovraccumulo di plov e pomodorini fatali. Addio Adrian, eroico compagno di mensa, stroncato da una ciotolina di troppo.
Più di duecento anni fa toccò ai poveri emissari di Sua Maestà sottostare alle impietose torture dell’emiro Nasrullah Khan, noto ai più come “il macellaio”, oggi è la volta della nostra strana sortita franco-italiana. Per chi è cresciuto a pane e rivoluzione, Bukhara appare sin troppo sorniona ed astuta: abbindola con le sue vesti di seta blu, incanta con l’oro intarsiato dei suoi mercati coperti, ma non vive di giorno; attende il tramonto per uscire in strada, quando la luce si corrompe e le macchie si occultano.
Da secoli non ha più forza per dettare legge, eppure non rinuncia all’etichetta: qui siamo ospiti, è vero; una tavola sfarzosa è stata addirittura imbandita per noi, ma quanto scoccia ai nostri cuochi ammettere che tanto ben di Dio è solo frutto del nostro portafoglio! Forse ci fanno mangiare così tanto per tapparci la bocca, per ostentare un’opulenza irreale ed arcana quanto i racconti degli oppositori sovietici. Basterebbe fare due passi lungo la dimora kitsch dell’ultimo signore della città, per capire quale sottile masturbazione dispensavano gli specchi nascosti attorno alla piscina dell’harem: dietro i cuori delle finestre e le cornici di pizzo, nient’altro che corpi nudi, proprio come dietro le promesse dei bimbi all’ombra del minareto Kalon.
Per strada o nella storia si può mercanteggiare sinché si vuole, sbizzarrirsi nell’euforico gioco del rilancio, pur di piazzare un bel souvenir; ma resta sempre e comunque un piacere malsano. Il piacere del compromesso, che non soddisfa nessuno e lascia al massimo in mutande.

11/08/04 h. 19.14 – Porta del tramonto. Khiva

Non c’è traccia di sangue sulla piazza dell’Ark; non si vedono tamburi cuciti assieme con la pelle del povero diplomatico Bekovitch, né tanto meno le orbite dei prigionieri che vennero fatte rotolare per terra dalla sciabola di un sadico boia, ma le torture di Khiva non sono ancora finite. Un sole impietoso batte in ogni più sperduto vicolo della cittadella e lontano dalle pastose mura di sabbia si apre solo l’arido deserto: ancora una volta bisogna soffrire le pene dell’Inferno per accedere ai tesori di questa remota escrescenza selgiuchide, arroventata dai forni in cui le donne grinzose mettono a cuocere pani impolverati ed appetiti taciuti. Persino i minareti variopinti non riescono a farsi specchio dell’umiltà dei cieli, ma si protendono verso l’infinito con la stessa stolida intransigenza dei vecchi tiranni. Si sentono padroni di spazi immensi, ma sono solo giganti di fango, il cui orgoglio è oggi piegato ai capricci di un nuovo e più temibile generale Kaufmann: il volgare turista in bermuda, che si aggira ignaro delle castigate leggi islamiche e si compiace di una città ridotta all’incartapecorita grazia di un museo all’aperto. Un favoloso museo senz’anima…ma come farne una colpa? Ebbero mai anima gli abitanti di Khiva? Si pensavano padroni del Khorezem, ma non erano che schiavi dell’ignoranza di un’oasi…più maligna di così non potevi essere, Khiva!

15/08/04, h. 15.41 – panchina rossa del Parco Panfilov. Bishkek

Nonostante ammicchi ad Ovest, Bishkek resta in realtà un grande accampamento di cacciatori che hanno sostituito alle pelli delle loro yurta le certezze del cemento. Può così affannarsi il solerte presidente Akaev a concedere basi militari a destra e a manca, o a riempire i suoi magazzini di stato con mercanzia dai dubbi marchi. Piazza della Vittoria lo sbugiarda dalla mattina alla sera, perché neppure da morti ci si riesce a liberare dell’abbraccio delle tende, persino se si è stati eroi sovietici. Sarà per questo che, al di là di rivolgimenti e capitomboli, negli occhi dei kirghisi manca la paura del vuoto: sotto i doppiopetto un po’ lisi, o sotto le scarpe tirate a lucido dai bimbi di strada, trasudano spiriti troppo semplici per atteggiarsi a veri cittadini di mondo, spiriti pronti a sgozzare anche un topo per sfamarsi, che sanno trovare una ragione per tutto; anche se, alla fine, non si rivela poi quella giusta. Non si arrabbi troppo l’egocentrico Lenin, finito alle spalle del museo nazionale dopo una vita spesa in piazza. Né se la prenda a male il compagno Frunze, costretto in nostalgiche bacheche dopo aver riempito di sé la bocca dei geografi. Magari torneranno buoni: la gente di montagna non butta via mai niente. Caso mai ricicla.

16/08/04, h. 14.37 – in compagnia dei Balbal. Burana (atto d’accusa)

Che avete da guardare, morte steli d’evi misteriosi? Cosa mai troverete di ridicolo negli uomini d’oggigiorno, per ostentare un sorriso tanto beffeggiante ed irremovibile? Forse noi mortali non siamo alla vostra altezza, non siamo degni di calcare questo suolo di aspre erbacce e ciottoli taglienti, dove il vostro sacrificio si consumò in nome d’ideali che il tempo ha imbastardito? E’ vero, nelle mie vene non scorre il sangue di alcuna venerata tribù; non ho cavalli da bardare, né colorate yurta da montare. Eppure sono qui, migliaia di chilometri lontano dalla mia terra, solo come le aquile che voi amavate contemplare sullo sfondo del Tien Shan, quelle inarrivabili Montagne Celesti che vi hanno preservato dalla storia e che i vostri segreti sciamani dicono siano state create apposta per voi dagli dei.
Anch’io oggi, mi sono conquistato un barbaglio d’eternità, perché oltre il vostro muto stupore vedo dischiudersi steppe battute dal vento. Ed oggi, proprio oggi, miei cari, quel vento sono io; voi, nient’altro che sassi per piagnistei e incomprensibili preghiere!

17/08/04, h. 13.56 – da una roccia instabile. Cholpon Ata (contraccusa)

A furia di scorrere petroglifi, si finisce per diventare gelosi delle capre. Non c’è niente da fare: gli eroi di un tempo se ne sono davvero andati, persi nella grigia anonimia dei deserti di pietre, mentre questi quadrupedi cornuti osano aggirarsi fra le loro spoglie con fare baldanzoso, quasi avessero coscienza del fatto che la storia abbia preservato le gesta sole di quanti sfuggirono alle lance dei cacciatori. Che i loro aguzzini fossero Sciti o proto-kirghisi, che fossero vissuti 500 anni prima di Cristo o 100 dopo, oggi ben poco conta: le staccionate sono rotte, i sentieri non più interdetti e l’orgoglio delle steppe è dato in pasto all’erbacce. E per quanto ci si sforzi di dar ragione ai nostri rudi predecessori, trasformando in un museo pretenzioso quel che di fatto è solo un cumulo di sassi sfregiati, nulla riuscirà a cancellare lo sberleffo di una torta maleodorante su epigrafi sbiadite.
Meglio andare a sciacquarsi nelle dolci acque dell’Issik-Kul, da cui usciremo nudi e un po’ più umili.

20/08/04, h. 6.49 – riva sinistra del lago Song Kol

Un sonno ben più profondo blandisce il lago Song Kol, a dispetto dei pesanti respiri che fanno frusciare l’erba ed estinguono i focolari. La vereconda meraviglia dell’alba, che tinge le sue acque di femminei pudori, è quanto di più scontato la terra possa offrire. Un nomade non riesce a capire lo stupore per qualcosa che da sempre è così; l’anomalia siamo noi, schiavi d’invisibili catene e dai sensi intossicati. Siamo noi ad aver perso il senso della misura; o meglio, ad aver costretto l’infinita misura dell’uomo al bieco metro del possibile. Ogni realtà soggiace alla legge dell’imponderabile, all’illimitatezza dell’orizzonte: la meraviglia, semmai, non è nel colore dell’alba, ma nel suo ritorno, giorno dopo giorno. E quel sorriso che ti accoglie al rientro da una camminata avara di parole, ma prodiga di rugiada, ha in sé la gioia di chi ha finalmente preso al guinzaglio il suo fuggevole pane quotidiano.
Così è l’amore in paradiso: un’anima che scalpita a cavallo, in cieca attesa di un lazzo: morbido bacio qualora vada a segno; impietosa frustata se lanciato fuori tempo. Frustata cui nessun kymul apparirà più sferzante e salato, una volta stillata la peccaminosa lacrima della conoscenza.


22/08/04, h. 17.17 – sentiero senza sbocco, Tash Rabat

Non un passo oltre. Scegliere di fermarsi non è semplicemente un atto di umiltà ed ogni caravanserraglio che si rispetti lo testimonia da secoli immemori.
Ma sì, resta lontana Kashgar, favoloso mercato di questa cangiante Via della Seta, le cui meraviglie neppure Marco Polo riuscì a far credere. Perché in fondo ognuno di noi desidera struggersi e sospirare perdutamente, fra le profumate spoglie dell’amata, bussando alle porte dell’ultimo deserto, invocando i Tartari piuttosto che gli Uiguri…insomma, concedeteci almeno uno spazio vuoto, uno spazio senza nome da colmare d’attesa e pazienza, un interrogativo che inquieti al di là di ogni possibile domanda. Inaccessibile, proprio come i picchi Lenin o Vittoria, inutilmente insidiati da colonne d’alpinisti che non si accorgono d’insozzare il candore dell’innocenza con le loro piatte orme. Da secoli bramano d’ìnvenire la segreta scala per il Paradiso, ma come calcare una nuvola che dissolve nell’infinito?
Forse chiudendo gli occhi e lasciando che il nostro cuore calzi le ali di un insondabile anelito…

…e quando le gole ammutoliranno, quando le onde si faranno pietra, quando il vento solo resterà a sferzare i sogni, allora sì avremo davvero raggiunto la più timida delle vette. Saremo il vapore che si alza negli sbadigli dei giorni stinti, già in fuga verso oceani capovolti, pronti a sfumare nel piacere di un languido ricordo la roccia arida, ma non più intonsa. O saremo forse la nube alata, sospinta dall’imponderabile…e troppo ingenua per lambire le nude grazie della verità!
A metà strada fra il proposito e il passo, sospeso sul pungolo dell’allusione, l’ultimo gradino esalato dagli sbuffi dell’aurora dispiegherà infine il passaggio: è là, signori miei, riuscite a scorgerlo? E’ in quella valle remota, proprio laggiù, ove risuona ancora l’eco del nostro io perduto…

giovedì 20 maggio 2004

YORKSHIRE



LA "PACE" DELLE DUE ROSE

Che sia un "Cinnamon touch" o un "Peppermint twist", il té servito nei giardini dello Yorkshire avrà sempre ed inconfondibilmente un aroma di Britannia imperiale. Lasciatasi alle spalle i decenni dell’industria pesante, quando acciaierie, insediamenti estrattivi del carbone e aziende tessili dominavano l’economia, questa regione dalle verdi e brumose colline (meglio note come moors e dales) vive oggi un nuovo periodo di fioritura. In tutti i sensi, visto che la stessa città di Harrogate è stata di recente insignita di una medaglia d’oro nel concorso “Britain in bloom 2003”, divenendo poi finalista nella competizione internazionale “Europa in fiore 2004”.

Nelle sue vicinanze si incontra Harewood house, meravigliosa villa costruita da Edwin Lascelles oltre 200 anni fa, la cui ampia terrazza a due livelli apre una panoramica sulla campagna inglese già gravida di ricche promesse: in seguito ai restauri avviati nel 1994, minute siepi sono tornate a disegnare regolari spazi entro cui i fiori sprigionano arcobaleni di fantasia, i tassi slanciano gli schemi scenici, mentre la luminosità delle pareti della casa viene sfruttata per infondere il calore necessario alla crescita di enormi piante grasse. Il gusto classicheggiante della villa trova poi appagamento nelle quattro statue settecentesche di marmo che adornano gli estremi, rilanciando la prospettiva verso il fiero “Orfeo col leopardo” svettante al centro del terrazza. Il suo sguardo è puntato verso quell’orizzonte verde e fiabesco in cui prendono forma i tesori dello Yorkshire, primo fra tutti il giardino della Royal Horticultural Society “Harlow Carr”, 58 acri impreziositi da candelabri di primule, azzurri fiumi di campanule e fitti cespugli di essenze che avvolgono l’area di profumi talmente inebrianti, da perdere la testa.

Un costume molto diffuso in quest’area della Gran Bretagna, come narrano le pareti del Ripley castle, dimora della famiglia Ingilby da quasi settecento anni, nel cui stemma svetta orgoglioso il capo di un cinghiale all’abbattimento dell’animale, che nel 1355 minacciò di montare re Edoardo III durante una battuta di caccia, si deve infatti la fortuna degli Ingilby, insigniti dei massimi onori aristocratici in virtù del nobile atto dell’iniziatore della casata, Sir Thomas. Ma a parlare di storia e gesti epici sono pure i giardini che attorniano la proprietà, dove le piante esotiche dell’Orangery si avvicendano ad esemplari unici in tutto il Regno Unito, quali ad esempio un enorme castagno dal diametro di 27 pollici, risalente alla guerra civile inglese, una Wellinghtonia (o Sequoia) canadese del 1860, un faggio autorigeneratosi innestandosi sul proprio tronco aggrovigliato, tutti cresciuti fra gli edifici dei “botheys”, i giovani giardinieri non sposati che preservarono i “Pleasure grounds” attraverso i caratteristici sbarramenti di terra chiamati “Ha Ha”.

A solo mezz’ora di guida l’atmosfera medioevale di Ripley dissolve nelle ariose prospettive di Newby Hall, bellissima abitazione fatta costruire nel 1695 da Sir Edward Blakett e dal 1748 appartenente alla famiglia Compton: le memorie della guerra delle Due Rose, evocate da un pittoresco sentiero che vede opporsi le “rosse” di Lancaster alle “bianche” di York, sono presto inghiottite da cascate di gialli maggiociondoli e verecondi rododendri, incontrastati protagonisti di due parterre vittoriani, di un ampio “kitchen garden” e di altri pittoreschi spazi in cui si succedono, per 40 acri, le più svariate qualità floreali della Gran Bretagna.

Se Newby Hall è probabilmente il trionfo dell’eleganza britannica, uno dei rari siti capaci di incantare il mondo intero per bellezza ed armonia degli spazi, lo Studley Royal Water Garden di Fountain Abbey lascia ampio spazio all’intervento dell’uomo, avendo scavato nell’avvallamento di due alture uno spettacolare sistema di laghi a livello, che ripartisce gli spazi secondo lune d’acqua simmetriche in cui si specchiano le rovine di una pittoresca abbazia del 1132, portata alla chiusura e all’abbandono dai provvedimenti antiecclesiastici di Enrico VIII. Nonostante le imponenti vestigia settecentesche, anche Castle Howard è oggi votato all’innovazione: qui le essenze di un tempo vengono ripiantate periodicamente per ridare slancio alla grazia della proprietà, nota soprattutto per la straordinaria fioritura dei tre giardini di rose in giugno e luglio, ma anche per le giunchiglie, di cui sono state recentemente piantate oltre tre tonnellate di bulbi. Un’intera collina viene addirittura riservata per far crescere le essenze da trapianto, vigilate dalle plastiche statue che guidano ai tempietti di Venere e dei Quattro Venti.

Più che musei all’aperto, infatti, i giardini inglesi sono realtà dinamiche in cui la tradizione si adegua alla ciclicità della natura. Basti l’esempio del Walled garden di Scampston, disegnato di recente dal polacco Piet Oudolf secondo un modello a scacchiera: in esso ad ogni famiglia d’essenza è assegnato uno spazio proprio, con la possibilità di godere di una visione panottica del giardino da un’originale piramide erbosa alta 3 metri e mezzo, dalla quale si coglie pure l’attigua abitazione della famiglia Legard, insignita nel 2000 del titolo di miglior abitazione di campagna inglese. Perché la vera casa non ha mai pareti...

sabato 1 maggio 2004

QATAR




COMBAT POP

Il Qatar ha sempre esportato magnifiche perle nel resto del mondo, senz'accorgersi di essere lui stesso il monile più prezioso della penisola arabica. Un piccolo paese dai mari fiabeschi e dai deserti incantati, ricco e moderno, ma nonostante questo ancora sconosciuto al grande pubblico. Esattamente come una perla, il Qatar non è però per tutti. Qualora non si possieda un pozzo di petrolio, viverci diventa davvero arduo, checché ne dica l'emittente Al Jazira e il suo vulcanico emiro-presidente-imprenditore edilizio. Nulla a che vedere con le restrizioni della Sharia o le minacce terroristiche di alto tradimento: è solo questione di dollari. Qui la parola non è mai stata così libera.
Lo sa bene Nancy Ajram, la più famosa e seducente stella pop del mondo musulmano, intervenuta nel concerto per il 4° summit mondiale del turismo, ospitato a Doha.
Chi pensa che questa splendida ventenne libanese dagli occhi blu sia una semplice meteora dello show business si sbaglia di grosso: venduti milioni di dischi da Beirut a Riyahd, da Il Cairo a Teheran, e con soli quattro album alle spalle, è oggi probabilmente il personaggio arabo più discusso dopo Saddam Hussein.
A suo modo, infatti, Nancy sta portando avanti una rivoluzione non violenta, o se si preferisce una lotta d’emancipazione femminile, che raccoglie proseliti fra le donne di tutto il mondo mediorientale: canta senza velo, sperimenta irresistibili contaminazioni fra ritmi disco e musiche arabe tradizionali (come testimoniato dalla prima pubblicazione del 2000, “Ya salam”, alla recente fatica “Ah wi nus”), sfrutta sul palco la propria bellezza fisica come arma politica, al fine di offrire al gentil sesso un esempio di valorizzazione del proprio ruolo in una società ancora fortemente maschilista. Bastino le polemiche scatenate nel parlamento egiziano per la sua “provocatoria” esibizione a Il Cairo, avvenuta il 17 aprile scorso a fianco del cantante Enrique Iglesias.
Non è dunque un caso che la giovane cantante abbia scelto il summit per lanciare un messaggio di riconciliazione all’Occidente: posare per una foto in cui un esponente di origine araba ed uno di origine occidentale sostenessero insieme un petalo di rosa bianco, simbolo di pace e rispetto in Medio Oriente. Il suo personale regalo per la festa del 1° maggio.
Un invito per scoprire il mondo arabo da una delle sue porte d'accesso più accoglienti: nuovi itinerari sono in fase di elaborazione per esplorare il deserto su fuoristrada 4WD, equipaggiati per garantire un viaggio sicuro ma spettacolare su dune alte sino a 60 metri; fra queste si può sciare o semplicemente accamparsi per assistere a spettacoli tradizionali attorno al fuoco, mentre il tepore delle acque marine attende gli intrepidi che vogliono gettarsi alla ricerca delle perle o studiare la feconda vita ittica dei fondali, insieme a campi da golf di valore internazionale (le 18 buche del Doha Golf club ha ospitato nove dei più importanti campionati di disciplina) su cui scordare ogni affanno.
Le fortificazioni in fango di Umm Salal Mohammed, la necropoli di Umm Salal Ali risalente al terzo millennio a.C. o le tre torri circolari di Al Zubara sono solo alcune delle più importanti testimonianze storiche del paese, abitato sin dall’epoca neolitica e plasmato dalla vivace cultura beduina. Ma il Qatar guarda tanto al passato, quanto al futuro, visto che nel 2006 qui si svolgerà la quindicesima edizione dei prestigiosi giochi olimpici asiatici. E c'è da scommettere su chi sarà la testimonial della cerimonia inaugurale...