“Shalllom!”. Uri si attarda nella “l” del suo saluto sornione con compiaciuta liquidità, quasi volesse arpionarsi ad un incontro fugace, nel momento stesso in cui scivola via. Un po’ come capita con le barzellette yiddish, che creano grandi aspettative, per lasciarti presto spiazzato. D’altra parte, è già di per sé stupefacente che un popolo cui sono state tragicamente rubate 8 milioni d’anime trovi la forza per ironizzare su tutto, benché si tratti pur sempre di un riso a denti stretti. Forse è la via migliore per esorcizzare la paura di farsi trovare per primi in contropiede, come già capitò nel ’73, ai tempi dello Yom Kippur, allorché Israele rischiò di esser spazzato via in un battito di ciglia.
Indubbiamente l’arte della freddura è un’arma socratica che ogni guida turistica dovrebbe conoscere assai bene: tiene accesa l’attenzione, chiude bocche indiscrete e parla di traverso. Oltretutto, funziona assai meglio di una parabola biblica, divenuta altisonante e pretenziosa in una società votata alla chiacchiera. Eppure ne preserva il vizio peggiore: quello di sapere dove stia il giusto e dove l’errato.
Non è allora un caso che la vita dell’ebreo sia scandita da tabù: niente lama sulla barba, latticini che aborriscono la carne, nessun fuoco fatto scoccare il sabato. La lista potrebbe continuare a lungo, almeno quanti sono gli anni che ci separano dalla distruzione del tempio di Salomone e i metri dalla dogana dell’aeroporto, perché nell’elenco sta la ragion d’essere di chi non ha altra identità, all’infuori della tradizione: troppo arduo appellarsi all’aramaico, quando sotto la Stella di David convivono russi, tedeschi, americani od armeni; inutile pretendere un luogo, laddove la geografia conosce solo spazi.
L’unico modo per rafforzare il proprio credo è quello di erigere paletti ben saldi, uno dietro l’altro, e in questo non si può far torto ai seguaci di Sharon ed Olmert. Basti una passeggiata alle porte di Bethlemme, il cui nome potrebbe suonare Berlino o Corea: da una parte la fede nella palingenesi dello spirito, dall’altra la palingenesi nella fede dello spirito. Forse una mera tautologia, proprio come un filo di ferro che separa le sabbie dello stesso deserto.
Se non si è abituati alle sottigliezze, la ripetizione dell’identico finisce infatti per confondere, tant’è che a Gerusalemme le strade s’ingarbugliano spesso e volentieri: pensi di essere in un bazar a sorbire humus di ceci e ti si apre di fronte la Chiesa del Salvatore; cerchi la roccia su cui Cristo fu crocifisso e ci trovi un altare ortodosso; vedi le cupole a cipolla di un frammento di Russia e ti accorgi di essere in un giardino di ulivi già teatro di subdoli inganni. Un bambino scoppierebbe facilmente in lacrime, ma al Muro del Pianto ci sono così tanti uomini neri che è meglio starsene alla larga. Picchiano la testa sulle pietre, corrono da un lato all’altro trascinando su una lettiga libri come fossero re, incastrano oscuri messaggi nelle crepe del tempo.
Sembra di essere in una casa degli specchi, dove disciplina e logica inspiegabilmente cozzano fra loro, ma le cose non migliorano neppure se si fugge in un kibbutz. Qui il trattore marcia al passo del carroarmato, i banani si legano col filo spinato e, se si sale su una torretta d’avvistamento presso il lago di Tiberiade, si vedrà addirittura qualcuno camminare sulle acque. Chissà allora che un bel bagno freddo non serva a schiarire meglio le idee, seguendo l’esempio dei fedeli di Qumram, stanchi degli arzigogolii cittadini e ritemprati dall’umida profondità delle grotte anacoretiche.
In fondo, dove c’è acqua, c’è vita. Persino sulle onde del Mar Morto, quell’immensa lacrima sgorgata dal candore dell’innocenza, su cui danzano corpi capaci di dare gusto al silenzio della polvere; capaci di trovare l’ultima parola mancata agli eroi di Masada, quando l’ariete di Roma s’abbatté sulla montagna che osò sfidare il cielo.
In questa piega di sofferenza un’oasi di pace esiste davvero: basta avere occhi per vedere e non limitarsi a galleggiare in superficie. Chi scambia le palme di Ein Gedi, o i giardini pensili di Haifa, per l’Eden dimenticato, non ha ancora compreso il mistero della Città Celeste: non è di questa terra, ma vive per suo tramite. Proprio come Israele: è il disegno di una matita, ma non se ne può fare a meno.
Nel nome dell’antico re di Salem, è allora tempo di spostare l’occhio dalla mano della spada a quella della bilancia. Potrebbe darsi che nel farlo, si incroci lo sguardo di una ragazza che non chiede altra ragione, se non quella di credere in ciò che più pesa dire: ama l’altro come fosse te stesso.
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