"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

lunedì 1 settembre 2003

DA MOSCA A PECHINO/1




IL MITO DELLA BRIANZA FRA TRANSIBERIANA E TRANSMONGOLICA

“Italiansky journalist?”. A pochi chilometri da Perm, uno dei migliori punti d’osservazione Ufo nell’ex Unione Sovietica, l’incredula domanda di Ivan accende improvvisamente una scintilla fra le sferraglianti carrozze della Transiberiana. “E di dove, esattamente?”. Silenzio assoluto. Cento occhi sono puntati sulla mia figura: “Biassono, Brianza”. Tradito dall’imbarazzo, cerco subito di correggermi, conscio del fatto che nemmeno il più afferrato geografo siberiano potrebbe mai essere al corrente delle vicissitudini di un’appendice nostrana. Troppo tardi: la festa è già cominciata. In men che non si dica la pingue “provodnitza” dai capelli rosso bolscevico, ovvero l’addetta al controllo e alla pulizia del vagone, zampetta giubilante verso la mia brandina con una bottiglia di vino in mano.
“Caldirola di Missaglia!” - scandisce con un accento inquietante. “Brianza, da?”. Al mio sorriso rassegnato, il sorriso di un filosofo in fuga vacanziera da qualunque germe d’Occidente, il tappo sbotta in segno d’amicizia e libera in coppe improbabili il purpureo nettare di Bacco. “Sa sdarovie! A Biassono e alla Brianza!”, urlano i miei compagni di viaggio, diretti anch’essi alla lontanissima Irkutsk e provenienti dai più remoti lidi di Russia: Novgorod, Sergiev Posad, Vyatka.
“Porta il nostro saluto alla tua splendida terra!” aggiunge ancora Ivan, mischiando con scioltezza dialetto tartaro e arditi anglismi – “e se scrivi un articolo sul tuo giornale, dì che i brianzoli sono accolti a braccia aperte, qui! Hanno dato tanto alla Russia”.
Scolo il bicchiere d’un fiato, pensando a quanto veritiere fossero le parole di Bulgakov: “I manoscritti non bruciano” - aveva sentenziato lo sfortunato giornalista nel suo capolavoro, “Il maestro e Margherita”, così come le proprie radici. Del peso della tradizione non ci si libera mai. Soprattutto quando le coincidenze si accaniscono sull’ironia del caso. Ivan é il genero di un ragazzotto che, nel 1993, suonò nella banda del Cremlino presente all’inaugurazione di “Vera Brianza”, la kermesse di prodotti ed attività brianzole (alla prima edizione ne parteciparono ben 147) ospitata nel maneggio di Mosca. Mi spiega che, a partire dagli anni ‘90, agli occhi degli ex sovietici la regione in cui vivo ha assunto le sembianze di una sorta di Bengodi, ove la ricchezza pullula e si trova sempre lavoro.
Più mi spingo allibito nelle profondità asiatiche e più il mito della Brianza felix giganteggia. Persino ad Ulaan Baator, nel cuore della Mongolia, così come a Pechino in Cina, si fantastica attorno all’intraprendenza delle piccole e medie aziende locali o sulla vivacità artistica della zona: Khangai Dorjsouren, spigliato membro della Maca (Agenzia mongola dell’Arte e della Cultura), vuole esportare a tutti i costi nella mia regione numeri di folklore alla Gengis Kahn, gemellarsi o comunque instaurare rapporti di collaborazione col mondo della cultura italiana. Non sa a chi rivolgersi, eppure è convinto che il Milanese e la Brianza siano gli unici posti idonei. David Chen, coordinatore del Museo nazionale di storia cinese a Pechino, mi chiede invece consiglio su quali possano essere le istituzioni della mia regione interessate a promuovere scambi artistici fra gli studenti di pittura mandarini ed italiani, invitandomi a selezionare i quadri pi¿I ¿ vicini alla nostra sensibilità.
A più di dieci anni di distanza, il tramonto del socialismo reale non ha ancora estinto la sete di facili miti. Ma, d’altra parte, l’Occidente ha sempre vissuto sulle illusioni dei popoli.

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