"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

domenica 30 ottobre 2005

YEMEN




I MILLE ED UNO YEMEN

Sana’a - Masticano, masticano e ancora masticano. Sempre con la stessa imperturbabile flemma orientale, che non si scompone di fronte alle schiene piegate delle donne di ritorno dai campi, così come all’incalzare del tempo. Nel quotidiano rito di degustazione del qat, magiche foglioline verdi capaci d’infondere un insospettabile stato d’eccitazione, non si condensa solo l’enorme bolo che arrotonda folkloristicamente le guance degli yemeniti, ma l’essenza stessa di un paese in bilico fra storia e leggenda, sogno e realtà. Qui le clessidre scandiscono minuti dilatati come evi, a tal punto che uno sbadiglio può evocare il ricordo di un viaggio in carovana lungo la via dell’Incenso, vecchio di 3000 anni e sollecitato magari dalla regina di Saba in persona, al pari della messa in pensione del marxismo, utopia che per poco più di due decadi (dal 1967 al 1990) ha illuso i mussulmani nello specchio dell’Occidente.

Ma è una calma apparente: quando l’effetto della chata edulis entra in circolo, scoppia una festa al pari di una rivoluzione. Le strette vie di Sana’a, gioiello dell’Unesco in cui svettano orgogliosi palazzi dagli inserti d’alabastro, vetro colorato e pietra, si riempiono d’improvviso di un brusio carico d’attesa, proprio come lo sguardo invitante del venditore di jambjie (tipici pugnali ricurvi intarsiati), che nicchia dietro le bancarelle del più fascinoso suok mediorientale. Il passo paziente degli asini che risalgono i crinali di arcane roccaforti ad oltre 3000 metri d’altezza, dai minigrattacieli a secco di At Tawila alla fiera veduta di Kowakaban, dalla frescura delle cisterne di Hababa agli spruzzi delle fontane sotto l’ineguagliabile Wadi Dhar (il sontuoso “palazzo nella roccia” che fu sede estiva dell’Imam sin dal lontano 1786), si trasforma nella corsa dei cammelli lanciati verso le saline del Tihama, dove fra dune immacolate, palme dum e tetti di capanne in paglia, affiorano echi di un’Africa mai così vicina.

Nel carattere degli yemeniti si riflette qualcosa della forte contraddittorietà ambientale, che lascia coesistere la semplicità beduina del deserto con la cristallina fantasia del mare, ma digradando sempre per fiorenti terrazzamenti, sino alle vette su cui i falchi si cimentano in araldiche evoluzioni. Sommerso dalla polvere dei secoli, il porto di Al-Mokkha conserva infatti un suadente aroma di caffè che ancora parla dei frenetici traffici grazie ai quali i salotti illuministi d’Europa conobbero il piacere del chicco nero, mentre ad Hodeida squali di dimensioni abnormi balzano da una nave all’altra, accendendo i visi di meraviglia e colorandoli di emozioni variopinte quanto i legni delle dhow (le affusolatissime navi arabe da pesca). Ma l’ameno silenzio che lambisce le coste coralline dell’isola di Kamaran, raggiungibile dopo aver volato per quasi un’ora in motoscafo sulla cresta delle onde, è figlio delle stesse mute preghiere che riempiono le vie di Zabid, dietro le cui porte intarsiate gli studenti del Corano se ne stanno sdraiati su tappeti da “Mille e una notte” (non a caso Pier Paolo Pasolini realizzò qui il suo omonimo film all’inizio degli anni ’70), accanto a lucenti narghilè, intenti a sfogliare le pagine di volumi un tempo forieri dei segreti dell’algebra (venuta qui alla luce per la prima volta).

All’ombra dei minareti dagli intonaci colorati di Taiz o Jibla, che nei loro preziosismi decorativi fondono in un’originale koiné islamica influssi siriano-turchi, egizi, persiani e moro-andalusi, a distanza di quasi mille anni riposa ancora il corpo della regina Arwa, fattasi seppellire nella splendida moschea del Venerdì: le sue discendenti forse non siedono più su troni merlettati, come un tempo capitava ai sovrani di Marib (ove è conservata una gigantesca e spettacolare diga dell’ottavo secolo a.C.), perché ogni giorno rivoltano il grano affidandolo al soffio del vento, o tessendo nelle fresche stanze di case di fango. Ma celate nei loro neri veli, lasciano affiorare dita sottili dipinte di henné ed occhi ambrati che tradiscono piaceri proibiti. Con una sola e fatale preghiera, cui non si può che assentire: “avanti, scoprimi!”.

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