"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

martedì 2 settembre 2003

Da MOSCA A PECHINO/6



QUATTRO CHIACCHIERE CON UNO SCIAMANO

E’ difficile immaginare cos’abbia provato Jurij Gagarin il 12 aprile del 1961, quando primo fra gli uomini effettuò il giro orbitale della Terra a bordo della leggendaria Vostok I, ma dev’essere stato qualcosa di simile al mio arrivo a Kyriene, un ammasso di baracche dimenticate nella più remota appendice della Buriatia. In questa regione selvaggia al confine con la Mongolia i contatti con il resto del mondo sono rari quanto il passaggio delle comete. Probabilmente non sarei mai giunto sin qui, se un Lama buddista non avesse suggerito alla mia corrispondente Lena di far visita a suo zio, un certo Danil Lassal, oscuro sciamano a cui vorrei strappare l’intervista della mia vita. Quando busso alla sua porta di casa, scosso da inspiegabili brividi, si affaccia però un vecchietto che non ha nulla dello spiritato medium pronto a contorcersi al suono del sacro tamburo. Anzi, all’inizio si finge un semplice allevatore di cavalli, poi mi dice che Danil é in realtà il nome del suo nipotino. Ha occhi sottili come mandorle, di fronte ai quali pare impossibile mentire.
“Pensa un po! Un italiano!” - sbotta infine con un sorriso adamantino, osservandomi come se fossi appena caduto da Marte. “E’ la prima volta che a Kyriene conosciamo qualcuno di un’altra terra: qui ci fanno visita soltanto i morti”.
Sedutomi nel suo studio, sfodero come di consueto il taccuino degli appunti, ma le parole mi si strozzano in gola. Lo sciamano si è accomodato al tavolo dipingendo un’aria grave e, senza chiedermi altro, inizia ad armeggiare con ossa scheggiate di capra: le osserva in controluce, soffia in una conchiglia a forma di spirale, quindi pare tranquillizzarsi e sorride di nuovo. Questa volta con benevolenza.
“E allora? Vuoi dirmi quando sei nato?”. I miei dati innescano astrusi calcoli e complesse estrapolazioni da un calendario mongolo, al termine dei quali il signor Lassal soppesa in una coppa pochi centilitri di vodka a cui da fuoco per alcuni secondi, passandovi sopra erbe sconosciute. Osserva il predisporsi delle ceneri ed inizia a rivangare episodi delle mia vita che solo un agente del Kgb potrebbe avergli riferito, episodi che vedrò riaffiorare in sogno nei giorni successivi, ma animati da nuova linfa. Il sordo tramestio delle sue formule viene spezzato per tre volte da parole di una lingua sconosciuta, “Dorsun”, “Manal” e “Namsaran”, grazie alle quali scopro di esser stato appena liberato dall’accidia di persone che sono solite vivermi vicine, che avrò un grave problema di salute a quarant’anni (ma lo supererò senza conseguenze) e mi sposerò fra i 30 ed i 33 anni. Appena quattro o sette anni di libertà da quell’esatto istante! Imploro lo sciamano di fermarsi, di parlarmi piuttosto della sua vita e del perché lo sciamanesimo riesca a convivere serenamente con la chiesa ortodossa ed il buddismo. “E’ semplice: perché non é una religione”. Gli sciamani sono infatti dottori a cui la gente si rivolge dopo che la medicina tradizionale ha fallito, veggenti o conduttori di anime: fra questi sono presenti anche gli sciamani neri, capaci di compiere rituali malefici bruciando sulle fiamme il sangue delle pecore, o “Baran”. Lassal é per mia fortuna uno sciamano bianco di settima generazione (nessuno può diventare tale, se non legato da vincoli di sangue o in virtù di rarissime eccezioni) che talvolta viene consigliato da suo padre, quando si presenta sotto le spoglie di un grifone. Parla, parla e le sorprese non finiscono: dopo una lunga lezione su danze rituali e su siti di rifugio meditativo, quali la Gola dello Sciamano sull’isola di Olkhon (nel lago Baikal) o il picco del Falco gentile interdetto alle donne (vetta di Buyan Tugal), lo sciamano mi regala un pacchetto di cereali molto simili a miglio, pronti a sprigionare effetti benefici se collocati nei piani alti della mia abitazione, offrendomi da bere uno strano intruglio di vodka, droghe e licheni necessari per purificarmi; quindi mi chiede di inginocchiarmi, sì da spruzzarmi con lo stesso liquido, ma nel compiere il rito sbarra gli occhi: attorno al mio capo ha scorto un’aurea dorata, simbolo di predestinazione (o forse solo il biondo riflesso dei miei capelli?). Vorrebbe tenermi ancora con sé, insegnarmi qualcosa dello sciamanesimo, ma sento che quel mondo fumoso non mi appartiene e mi congedo attraversato da una forte inquietudine. “So che scriverai di me” - mi redarguisce con affetto sulla soglia-“ma non so come. Ti dico solo che ci sono troppe cose che ignoriamo reciprocamente e l’ignoranza non é mai buona”.

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