"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

lunedì 1 settembre 2003

TRANSMONGOLICA 2003




SCIE DI UN'OMBRA VOLUBILE

“Durch Staub und Wolkenspuren schleift der Mantel, der unsere Liebe deckte, das Riesenrad!”
(Ingeborg Bachmann)

Preludio: canto di delizia – Kultuk, tornante del belvedere, 10 Agosto 2003, h. 22.49

Sulle onde di madreperla, che addolciscono i flutti lacustri, può capitare di scorgere nelle notti di plenilunio la via per raggiungere i sogni astrali: a tratti pare candida più del latte, a tratti oscura quanto gli abissi della perdizione, ma sono solo raggi di una mente non più avvezza a voli serafici.
Nembi aureolati dischiudono universi misteriosi, ove il grido di battaglia degli stormi impazziti si stempera nel placido rollio delle foche abbandonate al gioco, mentre fronzute dita di larici e betulle salutano l’incauta danza delle anime perniciose.
Questo è il Baikal, signori miei, dai vetusti segreti e dalle sponde infinite: i suoi orizzonti dileguano nei bisbigli del vento, il suo olezzo è dolce fragranza liberata da tenero collo mai cinto da preziosi, poiché preziosi sono solo i verdi colli che si specchiano nei suoi seni, le sue rive paiono braccia protese alla dedizione di un’enigmatica dea dallo sguardo iridiscente…e allorché le labbra monteranno in tempesta per dispensarvi il bacio dell’eternità, saprete finalmente di aver ritrovato la vostra lena perduta…

Listvjanka, da un dirupo friabile; 5 Agosto 2003, h. 18.53

Si annodano desideri ai rami delle piante, senza accorgersi che nodi ancor più stretti si serrano alle nostre gole. Lo si fa utilizzando stracci o fazzoletti, lembi di una vita dilaniata dal desiderio di un’utopia, per la quale abbiamo versato ogni lacrima posseduta. Di gioia o di dolore, poco conta ormai: l’immensità del Baikal annichilisce il dramma dell’effimero, ne rende superflua la voce fuori dal coro, la rigetta sulle sponde dove gli amanti continueranno a scambiarsi invano un giuramento pallido come l’alba, o rosso come il tramonto. Non si danno vie di mezzo: è la condanna del controluce, che acceca più delle poesie di Esenin. Se non è concesso abitare le sgargianti ville dove il tintinnare del denaro si è sostituito ai suoni del violino, tanto vale riparare nelle timide dace protette dal candore delle betulle. A che serve stare su quella deplorevole soglia, che pur lasciando intravedere sgargianti insegne al neon, ciononostante condanna a palazzine dai piedi di fango? Meglio volgere le spalle al compromesso, come coloro che rimossero le tombe per far posto ai luna park: anche questa è vita, in fondo. Anche questa è la rigenerazione inscenata dal grande lago, ove ogni scoria è fagocitata, affinché sia restituita al cielo più sottile degli incensi che avvolgono la campagna nelle spire della fede. O forse nella morsa dell’alcool che, sorbito in compagnia, cela la vista di un bimbo vestito di unto e sozzume, riparatosi dalla domanda della compassione. Alziamo i calici come si alzano le braccia al cielo, urliamo più forte del sordo tramestio che ha accompagnato il battesimo dei Buriati, imprigionati in un affresco che solo la muffa del tempo riscatterà: la vita è la morte, la morte è la vita, una paziente risacca che, pur fuggendo, prima o poi ritorna…

Locanda di confine di ritorno da Arshan; 10 Agosto 2003, h. 19.37

Dove scalpitano i bradi? Quale stalla piangeranno, quando l’acida pioggia avrà stinto il loro fiero vello? Sedute ai margini della strada, le venditrici di funghi e patate hanno coscienza del tempo solo contando le vacche avvizzite che si incolonnano lungo la linea di carreggiata. Una, due, tre…se ne vanno senza speranza come gli anni della gioventù, come i camion carichi di provviste che non facevano mai ritorno ai loro sovkhoz, affinché potessero cibarsi del solo canto del progresso innalzato verso cieli senza più sole. I giri a vuoto dell’orologio hanno stancato, non giova attendere alla fermata dei bus, perché l’unica legge che non tradisce è il ricorrere delle stagioni, sempre uguali e mai in ritardo. Giungono senza proclami, non parlano di “Glasnost” e “Perestroijka”, il cui sinistro doppio senso si legge nella trasparenza dei corpi e nei trattori abbandonati alla ruggine: i loro frutti crescono a margine, nell’ombra, conservano l’ineguagliabile casualità della scoperta che trae in salvo, non somigliano a reggimenti in uniforme destinati alle imboscate di un nemico invisibile. A che servono i controlli di poliziotti che misurano il tasso d’ebbrezza, facendo spirare l’ultimo afflato in un cappellino pieno di buchi? Perché multare le auto che sono tornate a danzare fuori dalle righe? E’ inutile scimmiottare un passato dal muso duro, tradito dalla meschinità di chi non riconobbe in esso il sacrificio dell’egoismo, ma solo la minaccia dell’innovazione; inutile ridare vita a templi dai colori stridenti, che promettono solo parole e discendono dalla stessa radice che riempie l’aria d’allucinazioni: gli arcobaleni sono inimitabili, tanto nella loro vertiginosa salita, quanto nella loro inarrestabile caduta.

Buyan Tugad, picco del falco gentile; 13 Agosto 2003, h. 16.46

Comunque sia, viene il momento di dire basta. L’impervia vetta degli Sciamani non ha la sfacciataggine di santificare i suoi adepti, ma lascia dispiegato il percorso al passo di chiunque. Sarà poi un tacco troppo alto, un sedere troppo gonfio, o una volontà troppo fiacca a gabellare con la cecità della piana chi ha scelto la via della parola facile. Non c’è un sentiero da seguire, così come un tesoro da insidiare: si può vagare per ore lungo pareti che non offrono appigli alle scusanti, finché sedere sulle labbra spalancate di una caverna vuota non rivelerà da sé lo stupore dell’altitudine: perché mai le maglie del senso prendono forma nel prendere distanza? Non commettiamo forse un peccato di trascendenza, rifiutando di ammettere che i nostri polmoni posso respirare aria fresca anche nella calca, ove ci si può facilmente abbandonare alle profumate scie della rosa dei venti? Fu forse questo il segreto invenuto dalla fanciulla buriata che, sedotta dai raggiri dei mercanti, lasciò ai declivi della roccia l’eternità della sua disperazione, ma anche il monito della leggerezza: attanagliati dal peso di un’inesauribile gravidanza, dimentichiamo di essere noi le litanie affidate al vento, gli idoli dai lunghi lobi riposti nei vernacoli silenti, la realtà che si specchia nelle malinconiche leggende. La malia della caverna è infida quanto Platone, astuto medico dell’anima, pronto ad assassinare i padri del passato per instaurare il regno delle luminose ombre: ma a dispetto del loro flautista, queste continuano a dimenarsi attorno al fuoco nelle notti di primavera, udendo solo il tamburo che spezza il cerchio del sacro oboo e seguendo un ritmo sconosciuto all’umano orecchio.

Ulan Ude, all’ombra della ghigliottina; 14 Agosto 2003, h. 8.03

Lenin è rimasto l’unico con la testa sulle spalle. O meglio, sul granito, visto che è stato decapitato; perché nella capitale buriata gli autobus dai pochi bulloni corrono verso un traguardo che, nonostante l’entusiasmo della fuga, si rivela poi essere la stessa partenza, mentre i passanti dagli occhi a mandorla credono di essere slavi scuriti soltanto dallo smog della civiltà. Sembra di vivere in un carnevale fuori stagione, col solo difetto che nessuno è consapevole delle maschere indossate: le insegne celebrano 80 anni d’indipendenza, ma sono solcate da fenditure che non vogliono aprirsi, così come i palazzi dipingono sulle loro pareti un cammino mano nella mano rifiutato dai matrimoni dell’orgoglio orientale. L’ortodossia non è semplicemente fatta di linee rette, perché quando queste si sovrappongono al di fuori delle decorazioni sulle yurta, generano labirinti da cui è impossibile uscire: l’indecisione diviene ambiguità, sollevando il sospetto che l’impero cosmopolita fosse abitato solo da parassiti di differente razza, capaci di divorarne subdolamente le braccia e le gambe, affinché la mente non potesse nuocere. Scarni poppanti vengono così unti fra un vagito ed una sghignazzata, rivelando la tragica ironia di un popolo che continua ad abbeverarsi dal samovar benedetto di una chiesa costretta a risorgere dalle proprie ceneri: voltafaccia del mercato umano, pronto a vendere tre rotoli di carta igienica su uno sgabello stitico, mentre tre scatolette roteano sotto gli occhi dei creduloni, abbagliati dalle scommesse del capitalismo.
Tabargatasay, palchetto cigolante; 14 Agosto 2003, h. 11.58

Benvenuti al cimitero. L’unico segno di vita nelle terre dei Vecchi Credenti è l’azzurro che ne ravviva le case e le tombe, quasi a voler dissolvere la distanza mediante cui l’uomo è stato separato dal cielo. Non ci sono insegne che demarchino il passaggio dal lecito all’eresia, ma l’occhieggiare dalle finestre socchiuse induce ad avvertire tutta l’intrascendibile estraneità del proprio. E’ vero, l’ospite viene accolto con una zuppa di orzo ed il sorriso sulle labbra incredule, eppure nessuno siede a tavola insieme, così come non ci si informa di quanto i giornali o gli strilloni hanno smesso di annunciare da quasi trecento anni. Un muro invisibile respinge la storia ed il tempo, senza per questo negar loro il passaggio: è una tolleranza sinistra, perché non pretende di mettere a confronto, quanto piuttosto di ricercare per conto proprio la verità, estintasi nel momento in cui la sacralità della liturgia si riconobbe umana. Ogni decorazione smentisce la successiva, ogni tabernacolo impone sacrifici arbitrari che aizzano pensieri peccaminosi, avendo trasformato una comunità impaurita nella parrocchiale del proprio egoismo. Non saranno allora i balli negli abiti fiorati e nei canti dialettali a dissolvere la diffidenza verso l’altro, poiché azzittita la balalaika, ciascuno uscirà dal museo itinerante della cultura per fare ritorno alla dispersione dello spirito. Qualunque sforzo si persegua, Dio rimane sempre troppo lontano: e sì che basterebbe aprire gli occhi durante le preghiere e accostare i cuori quando si danza…

Ivolginsk, da un masso impaludato; 15 Agosto 2003, h. 14.02

Il dubbio vive nelle paludi: appesantisce il passo, deforma la visione nel miraggio, punge quanto le zanzare che non osano spingersi oltre gli steccati del supremo monastero buddista. Là non c’è più spazio per loro, dal momento che la filosofia si è imbellettata di proselitismo e porpora. Ma, soprattutto, è rimasta affascinata dal lindore: templi luccicanti, pagode che sanno di nuovo, il suono argentino dei capanellini venduti sulle bancarelle dei pii ambulanti. Il pensiero si è cristallizzato nelle ruote del karma che svettano sugli ingressi, mentre una pianta toccata dal maestro ha perso il diritto di cibarsi del sole e della pioggia, se non a patto di ripararsi sotto una subdola campana di vetro. E’ dunque questo il frutto della lunga lotta contro il dogmatismo staliniano? Quello di combattere il nemico ricorrendo agli stessi scudi? Viene da chiedersi che fine abbiano fatto quei monaci coraggiosi che si tagliavano i piedi per le montagne inospitali, pur di ascoltare il lamento dei cacciatori affamati, quanto il consiglio di chi non aveva parole: ora qui si insegna, si pretende che le istituzioni preservino dagli spifferi della volubilità, dimenticando che quanto ci attornia non conta assolutamente nulla, in vista del nirvana. Si è prigionieri dell’armonia, non essendo più lecito muoversi a zonzo o nel verso contrario alle lancette del tempo. Sarà per questa ragione che puntare l’obiettivo sugli indifferenti indispone: fa male vedere dove si sbaglia, così come imbarazza imporre l’obbligo dell’offerta ad anime che non devono più aver bisogno.

Suche Batora, su una carrozza abbandonata, 17 luglio 2003, h. 19.57

La gestazione dalla Russia si sconta solo dopo un purgatorio di cinque ore, durante il quale il reietto che si concede alla barbarie d’oltre frontiera avrà tempo a sufficienza per soppesare il suo affronto. Dileguati gli ultimi baracchini prodighi di cetrioli e piroshki, tardive carezze della materna premura slava, nessuno verrà a salutare la tua dipartita, lasciando la stazione preda dei fantasmi delle purghe e ossessione d’attonite eco. Quindi lo scotto; le carrozze della burbera compagnia al sapor di vodka svaniscono ululanti lungo binari lunatici, adottando una tecnica di sospetta reminiscenza napoleonica: il deserto su ogni fronte, le cui piane senza singulti respingono l’atto d’accusa allo stesso mittente, che non può far altro se non riconoscersi colpevole di un delitto mai commesso: non aver scorto nella Russia dai mille idiomi il variopinto mosaico del mondo intero.
Fortuna che la grottesca accoglienza dei cambiavalute vestiti da yankee, o la disarmante proposta di una vecchina sfuggita alla penna di Gogol, lasciano supporre che il ritorno alla vita avverrà allo stesso prezzo di quando fummo messi al mondo: in virtù di un cambio svalutato, ma proprio per questo ingombro d’intrigante ciarpame…e ad un accecante bacio del tramonto, sempre più simile ad un’alba indiscreta, è affidata la riconciliazione con la propria coscienza di viaggiatore infante.

Ulan Bataar, collina delle zanzare; 19 Agosto 2003, h. 16.37

Ulan Bataar resta in attesa di una risposta. Piombate dal cielo come insondabili presagi celesti, le meraviglie tecnologiche non funzionano neppure coi libretti d’istruzione: i telefoni a pile tenuti in grembo da fanciulle che offrono ovunque chiamate internazionali restano inutilizzati, proprio come i luccicanti pub dove i dj cantano da soli sotto l’eco della pioggia di novembre. Qualcosa si è rotto in modo definitivo nell’imperturbabile equilibrio del suyombo celebrato sulla collina della città, trasformatasi in una moderna fortezza dispersa nel deserto dei tartari: nel sacro simbolo mongolo la forza dello ying ha prevalso sullo yang, dando a Gengis Kahn il potere di fare terra bruciata attorno ai suoi eredi, nonostante l’incalzare dei secoli. Fuori dal mondo, i mongoli si sono illusi che le distanze fra le ger taciturne potessero essere accorciate solo improvvisando strade o ponti, o ribellandosi al principio sovietico delle chiamate a raggio interdetto. Ma la verginità non ha mai troppe parole da spendere, perché vaga nuda per le piane argillose del Gobi, così come presso i laghi trasparenti, mossa da un desiderio di carnalità che travalica ogni mediazione. O tutto o nulla, o dei o bestie. Il destino di questo popolo è scritto nelle buie stanze in cui l’erotismo scultoreo di Zanazabar celebra la morbosità dell’unione ad incastro, nel folle tentativo di assorbire l’altro in se stessi sino a strozzarsi vicendevolmente. Lo si vede nell’asfissiante insistenza dei passanti, pronti a seguirti sino allo sportello della dipartita, pur di mendicare una banconota con la quale vorrebbero annientarti in quanto invasore; nei perenni inseguimenti delle danze accademiche, ove non c’è mai incontro ma soggiogazione; nelle pagode sdentate che, nonostante l’età, impongono la gobba dell’umiliazione. Si può vincere anche da sconfitti: ecco l’ultimo urlo del più grande guerriero della storia.

Erenhot, cuccetta infetta, 22 Agosto 2003, h. 1.05

Cambio delle ruote! La suprema invenzione dell’uomo delle caverne ha perso d’un sol colpo la sua universalità. In Cina ci sono regole che non fanno testo, proprio come i pittogrammi infissi sulle pedine di una scacchiera attraversata dal fiume dell’oblio: i binari su cui viaggia il logocentrismo non sono più paralleli, ma divergenti verso tonalità mobili che moltiplicano i significati di una stessa parola per i gradi misurati dai termometri laser nelle mille cuccette dell’incognito. Come il nemico si annidava un tempo oltre la grande muraglia, mortale serpe che ha soffocato i celesti imperatori, così oggi invisibili batteri si celano sotto il muro dell’indifferenza turistica; ma la legge dello sbadiglio non ha mai funzionato nel paese di Mao, se non quando il suo volto ha iniziato ad essere impresso sulle magliette in partenza per i lidi di una Babilonia incredibilmente tradotta.

Palazzo d’Estate, promontorio della longevità; 23 Agosto 2003, h. 16.39

Mettere a fuoco la vanità dei sollazzi imperiali è molto più difficile di quanto supposero gli alleati anglo-francesi, quando lanciarono le proprie torce nelle stanze tapezzate dalla carta di riso. Il riso, infatti, non è solo un buon combustibile dello spirito, ma anche l’ironica saggezza con cui l’Oriente tollera i colpi di testa dei propri figli. Il loro mettere a fuoco passa per le fiamme o per gli occhiali, imposti niente meno che a quell’imperdonabile sognatore di Pui Ly, l’ultimo imperatore capace di scorgere nell’abbraccio dei tronchi di cipresso la fedeltà delle anime in volo verso l’amore eterno: l’intreccio delle code dei draghi. Ma la miopia è un difetto esclusivamente per chi rifiuta di sognare, per chi non comprende i giochi d’ombra cinesi, per chi ha dimenticato come viaggiare lasciandosi blandire dal meriggiare dei tè, senza avere la pazienza di attendere lo sbocciare di una seconda vita nelle foglie secche del bambù.
Gli impercettibili sorrisi delle statue di Buddha sono dispensati a quanti non capiscono le virtù di una nave di preziosi costretta a non levare mai vela dal proprio specchio illusionistico, che dispensa i brividi dei sette mari nella vibrante atmosfera dei giardini dagli armoniosi piaceri: sono scatolette scoperchiate mai completamente vuote, ma che dentro di sé contengono infinite altre scatole che si succedono come gli scenari di quell’eterno teatro, imposto dall’ultimo atto dispotico in lotta contro l’oppio del progresso.

Piazza Tianamman, sottopassaggio intasato, 24 Agosto 2003, h. 21.09

Attenzione alle patacche! Non sono solo gli accendini con l’effigie di Mao o gli shampoo che cambiano prezzo a seconda del resto a sollevare dubbi sull’autenticità della Cina d’oggi, ma le strizzatine d’occhio delle lampadine sugli imbolsiti mausolei rivoluzionari sono più ambigue delle avance sussurrate nella penombra degli hutong popolari. Almeno qui si baratta la propria vita per onorare il secolare buon nome di famiglia, mentre sulle autostrade cittadine il motto scandaloso di Deng Xiao Ping ha davvero infranto ogni limite di velocità. “Diventare ricchi non è una vergogna”: già, ma a quale prezzo? A furia di sperperare illusioni la Città Proibita si è fatta violentare dagli eunuchi di corte ed ora svende ai flash degli egocentrici la sacra alterigia dei suoi troni tempestati di giada. Nonostante i suoi stratagemmi matematici, la prova del nove si è rivelata letale per il tempio del cielo e l’eco della perfezione si è infranto nell’aria proprio come gli sputi imposti dal buon costume confuciano.
Una nuova rivoluzione culturale è in atto, ma nessuna guardia rossa se ne cura: è più importante mostrare al turista timoroso l’abilità acquisita nel passo d’oca, che chiedersi dove sia mai finita la meta di questo gioco dalle ossessive spirali e dov’è sacrilegio alzare la mano sul proprio passato, ma non sulle donne che la Lunga Marcia riscattò dall’infamia feudale. Urge più che mai una pillola contro la natalità scriteriata di idee bastarde.

Iperuranio bielorusso, dall’oblò di un Tupolev, 26 Agosto 2003, h. 9. 36

…e le nuvole sono tornate a diradarsi, benché al di sopra di qualsiasi turbamento il cielo non abbia mai smarrito il lindore dell’azzurro sapiente. La coltre più fitta, che soffoca il nostro anelito nel tedio uggioso rapendolo alla pienezza del vuoto, si è rivelata solo evanescenza, vapore mistificatorio pronto ad ottenebrare l’occhio, ma impotente contro gli spasmi ribelli generati dalla nausea sedentaria. Osare, osare anche quando tutto è perduto, ecco l’unico comandamento che le sacre tavole hanno scordato di scolpire in esergo: non bisogna temere di affondare le mani laboriose nell’etere appesantito, perché la pasciutezza dei nembi è solo fertile terreno per i fiori della fantasia, che sbocciano come arcobaleni sotto inquiete ali migratorie.
Ma quanti balzi dovrà spiccare l’ingenuità, prima di riconciliarsi col cielo? Sostrati invisibili prendono forma nelle pieghe del pensiero e le vie di fuga si rivelano assai spesso vicoli ciechi pronti ad inghiottirci e a vomitarci in acidi temporali. Forse conviene lasciarsi precipitare a peso morto, senza appellarsi alla meschinità di un paracadute che scimmiotta l’ardore dell’aquila, perché nell’ineguagliabile brivido dello spiffero iperuranico rinverremo certo la giusta proporzione per allungare il passo. Che poi sia corsa, danza o fanciullesca passeggiata, poco conta! C’è sempre tempo per indovinare il nome del nostro demone…

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