"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

lunedì 24 settembre 2012

IL BALUARDO DELL'ARTICO


Al settimo giro di corsa attorno ad Alyosha, un plurimedagliato reduce abbandona il suo fiero contegno e mi sbircia con aria complice. 
Conosco bene quell’espressione, così simile al volto di ogni nonno che muore dalla voglia di raccontare della sua gioventù, ma non osa frapporsi all’oscuro armeggiare tecnologico delle nuove generazioni. 


Occhieggia la mia macchina fotografica, puntata come una mitragliera sugli oltre 40 metri del Difensore dell’Artico Sovietico durante la Grande Guerra Patriottica: di fronte a spie intermittenti e tasti mimetizzati non sa proprio che pesci pigliare. Pochi secondi dopo ritenta sfilando una sigaretta con le sue dita callose, forse deformate dai troppi colpi sparati contro le armate tedesche, ma indugia sulle scritte poco invitanti del pacchetto e ci ripensa. Quando una biondissima atleta sfreccia sotto il nostro naso per l’ottava volta, il suo asso è servito.



Eh sì…eh sì! Noi pure non mollavamo mai”. Ci siamo. Sta caricando le cartucce. “Pensa un po’: eravamo asserragliati laggiù, proprio dove sta guardando Alyosha: la Valle della Gloria! Così la chiamano oggi, ma non era che una distesa di ghiaccio sepolta di corpi, allora”. Nono giro. Neppure la bionda dà segni di cedimento. “Caspita, come corrono le ragazze! A Murmansk corrono tutti! Persino la città ha fretta, oggi! Quasi non la riconosco più: l’unico inamovibile è rimasto solo lui, Alyosha. Lo sai? Pesa cinquemila tonnellate: è la seconda statua più grande di tutta la Russia, dopo quella della Madre Patria a Stalingrado”. 



Sì, Stalingrado. Non Volgograd. Inutile fare il puntiglioso, ricordando che quel nome è stato cancellato già da molti anni. Per uomini come Viktor, che hanno ancora negli occhi l’orrore della guerra e il sacrificio dei migliori, Stalingrado è Stalingrado. Punto e basta. Vorrebbe farmi da Cicerone al museo della marina, ma è aperto solo da giovedì a lunedì, per cui alla fine si accontenta di descrivermi la possenza dei rompighiaccio e dei torpedo che presidiano l’Oceano Artico. Mentre sfiliamo sotto le lapidi che commemorano le medaglie all’eroica resistenza delle città sovietiche, Alyosha non fa una piega. 

































Chissà quante volte avrà risentito le storie di Viktor. Imperturbabile nella sua impressionante mole di cemento armato, continua a fissare l’orizzonte, col fucile a tracolla e il pesante mantello abbottonato sino al collo: lui e Viktor tengono sott’occhio ogni giorno le attività del gigantesco porto ai piedi della collina, dove decine di gru gialle sono impegnate a caricare carbone sui convogli in partenza verso est.

Qui è sempre stata la guerra a dettare le scelte” - aggiunge un po’ spiazzato l’anziano reduce. “Murmansk è nata per rifornire le truppe russe nella Prima Guerra Mondiale, poi è stata usata per foraggiare la controrivoluzione contro i Bolscevichi, poi per passare aiuti contro l’invasione tedesca, poi di nuovo per ospitare la flotta sovietica. Tutto merito della Corrente del Golfo, che mantiene navigabili le acque vicine al porto: ora però il clima sta cambiando e anche il resto dell’artico russo è libero dai ghiacci per diversi mesi”. Gonfia il petto. “Già. Murmansk sarà presto lo scalo più importante e veloce per raggiungere l’America via mare”.

L’impacchettamento dello storico hotel Artika, che si staglia più in alto di tutti nella skyline dell’ultima città fondata dall’impero zarista, è il segno manifesto che i tempi grigi sono finiti: dopo il trasferimento dei sommergibili atomici nella vicina base di Severomorsk, ai tempi della dissoluzione dell’Unione Sovietica, Murmansk aveva subito un pesante colpo. Per le vie del centro, però, ogni giorno aprono nuovi caffè, empori di lusso sfoggiano vetrine scintillanti, persino il numero degli hotel è decuplicato negli ultimi cinque anni, mentre l’amministrazione locale ha dovuto lanciare un portale in inglese per far fronte alla domanda in continua crescita dei visitatori stranieri (clicca qui). 


Poco conta, allora, che il mastodontico progetto “Lapponia Russa” sia incorso in un’inaspettata battuta d’arresto: anche se non è stato possibile raccogliere tutti i fondi per completare i lavori d’allestimento di un complesso sciistico ed etnografico nei pressi del lago Krivoe, dal valore di 700 milioni di rubli, gli arrivi turistici hanno già superato il traguardo delle 40mila unità all’anno.




























Olga è invece al decimo giro. Piegata sulle ginocchia per tirare il fiato, mette in evidenza un’originale maglietta blu su cui corrono motivi a zig-zag gialli e rossi. 


“Viene dal festival Alluring Worlds – mi spiega con vivo entusiasmo. “Si tiene ogni anno a fine agosto, nella piazza a fronte del Palazzo della Cultura Kirov. In realtà a Murmansk è tradizione festeggiare i popoli Saami e Pomor durante l’inverno, ma il costante arrivo di turisti sta spingendo a organizzare molti eventi nel periodo estivo: se vuoi familiarizzare con danze e cori dei popoli indigeni, o semplicemente ammirare i loro stupendi costumi, ora non serve più aspettare sino al Nord Festival di marzo. Da quando sono stati scoperti nuovi petroglifi nei pressi del lago Kanozero, qui è esploso un vero e proprio revival delle culture tradizionali. Devo scappare, però: mi sto allenando per i campionati di mountain bike”. 
































Pronti, via. Una scia di profumo e Olga non c’è più. Guardo Viktor e forse inizio a capire davvero cosa intenda quando dice che la città corre. D’altra parte la pendenza di Murmansk è più che un invito a far sport: se il dislivello fra la collina di Alyosha e la sterrata via Cheluskintzev ha dato vita a un circuito agonistico urbano per mountain bike, spostarsi a piedi da un quartiere all’altro obbliga a essere in piena forma. 


La città si abbarbica sopra lievi alture che regalano ovunque una vista cristallina sul porto, ma i gradini da salire e scendere ogni giorno non sono per nulla pochi. I più giovani si sono ingegnati con l’uso dello skate, a tal punto che la scalinata a fronte della stazione ferroviaria è ora diventata un ritrovo per acrobati delle tavole. Alcune signore preferiscono invece ricorrere ai cavalli, lasciandoli pascolare bizzarramente fra le rigogliose aiuole che si aprono sui sobbalzi.  

















Ogni angolo offre opportunità per testare la propria condizione fisica: la disposizione a semicerchio dei palazzi residenziali, così costruiti per assecondare meglio la morfologia ondulata del territorio, ha infatti permesso d’allestire un insolito numero di parchi pubblici attrezzati, dove a qualsiasi ora s’incontra qualcuno intento a praticare esercizi o allenamenti. Nessuna sorpresa quando, a fianco di via Lenin, si spalanca all’improvviso lo stadio del Sever Murmansk, la squadra di calcio più a nord del mondo.



Il grande porto oltre il Circolo polare artico si conferma a pieno titolo capitale russa degli sport invernali, benché siano sempre più coloro che lo reputano soprattutto un’ideale base per la scoperta dei tanti tesori disseminati nella Penisola di Kola: le gemme di Apatity, la biosfera Lapland, il museo degli gnomi a Mochengorsk o i misteriosi labirinti neolitici delle montagne Khibiny. Forse è proprio a questo cui pensava Alyosha, mentre i suoi occhi si chiudevano sotto le granate tedesche. 






All’ineguagliabile luce rosa che fa avvampare la notte e delicatamente s’insinua nel cuore, lasciando che gli amanti a passeggio si sussurrino una timida promessa. Monamourmansk.  





giovedì 6 settembre 2012

IL FANTE DI CUORI


Il primo assalto è una vera e propria beffa. A una decina di gradini dal binario, il treno elettrico per Borodino parte al minuto spaccato e saluta sornione stazione Bielorusskaja. Sono le 7.41 del mattino a Mosca: nulla di fatto. Nonostante la levataccia, il campo di battaglia deve attendere, proprio come continuava a negarsi ai 600mila soldati della Grande Armeé, frementi di battersi con le truppe fantasma dello zar. Un’ora più tardi giunge notizia che il treno è di nuovo sulla linea, ma le incertezze di un civile russo depistano il secondo tentativo d’aggancio e, sotto occhi esterrefatti, la fuga avviene indisturbata sul binario a fronte. Borodino: così vicina, così lontana.

Meglio non demoralizzarsi: nella lunga marcia d’avvicinamento al cuore della Russia, Napoleone stesso dovette sostenere semplici scaramucce dapprima a Wilna, poi a Witepsk, e via via sino alla più remota Smolensk. Eppure a 200 anni di distanza dal sanguinoso scontro che oscurò la stella dell’ultimo Imperatore d’Europa, i campi e gli acquitrini alle porte della capitale paiono ancora stregati per chi viene da oltreconfine. Dalla stazione di Mozhaysk, dove la maggior parte delle corse del treno termina, quasi non ci si accorge d’esser catapultati direttamente sulla linea del fronte, perché la strada che congiunge il borgo di Borodino con la sua piccola stazione ferroviaria taglia abitazioni di campagna immerse in una pace bucolica surreale. Una donna anziana che lentamente cammina verso un pozzo per l’acqua. Bimbi intenti a inseguirsi nascondendosi di albero in albero. Passeri perplessi di fronte al passaggio dei rari visitatori. All’improvviso, però, memoriali di granito ritti come fucilieri sbucano ai lati: uno, due, tre…basta puntare lo sguardo e si ha la sensazione di esser stati accerchiati, senza neppure accorgersene. Alcuni si spingono sino al ciglio della strada, che ripercorre l’esatta linea divisoria fra gli schieramenti napoleonici e quelli dello zar, ma molti altri disegnano strane geometrie per i campi, ridanno vita ai contingenti al comando dell’eroico Bagration o del prudente Murat.

Il disorientamento è forte, perché al di là della strada, piante e terreni paludosi impediscono di muoversi agilmente: occorre accostarsi a pochi centimetri dai memoriali per capire quale sia la divisione che rappresentano, ma per farlo si devono attraversare ampie distese, scoprendosi inevitabilmente al fuoco nemico: a volte è lo stridere di una lamina sul marmo; altre il colpo ripetuto di un martello pneumatico. A Borodino si lavora alacremente per farsi trovare pronti nei giorni di celebrazione, dal 1° al 7 settembre, ma l’impegno con cui vengono forgiati percorsi lastricati o colonne segnaletiche conserva inevitabilmente un che di marziale. Gli operai si chiamano a gran voce da un punto all’altro, fanno segni, si spostano in gruppo o si accucciano sotto le piante: parlano sempre e solo in russo. Nessuna lingua straniera accompagna l’avanzata verso il fronte: forse le truppe napoleoniche hanno riparato altrove, sotto i colpi ripetuti dell’artiglieria. Forse i turisti attendono il grande evento per palesarsi.

Là dove un obelisco indica la via per il quartier generale dell’imperatore francese, all’incrocio della strada che da Semyonovskoe porta a Shevardino, scale e impalcature sostengono i resti del monastero del Salvatore. Attorno all’edificio adibito a museo la terra è sventrata, le gru infieriscono. Le opere di restauro parlano dei cannoneggiamenti ancor meglio delle divise strappate: non un lotto sembra esser scampato alla violenza del tempo, così come in fondo i resti della Grande Armeé. Mentre la cupola d’oro della tomba di Bagration è già tornata a risplendere, esaltando l’eroico sacrificio del maresciallo che coprì la ritirata tattica di Kutuzov, ben più difficile si sta dimostrando la raccolta di fondi per preservare il ricordo delle divisioni napoleoniche. Nonostante le truppe dell’invasore contassero fra le proprie fila volontari di tutt’Europa, dal Belgio alla Prussia, dall’Austria all’Italia, la preparazione per l’anniversario della battaglia di Borodino ha portato allo scoperto quanto fittizia fosse l’unità delle nazioni occidentali invocata da Napoleone.

Gli italiani, ad esempio, che furono i più stretti accoliti delle divisioni francesi, devono ringraziare soprattutto l’Associazione studi napoleonici per quanto riguarda il ricordo dei propri caduti. Grazie alla poesia “Il soldato di Napoleone”, scritta nel 1953 dall’illustre intellettuale Pier Paolo Pasolini per onorare un suo avo caduto in battaglia, la regione del Friuli è infatti l’unica ad aver sempre mantenuto vivo un legame speciale verso i 50mila arruolati per la campagna di Russia. Non a caso, anche quest’anno ha riportato in scena lo scontro dei belligeranti nei pressi di Porcia, mentre una delegazione è pronta a unirsi alla ricostruzione alle porte di Mosca. Per tutti gli altri italiani, invece, Borodino rappresenta una macchia da dimenticare, il gesto sconsiderato di un generale che fu salutato nel Belpaese come il vento della Rivoluzione, per poi rivelarsi niente più che un saccheggiatore di beni e tesori, un orgoglioso dittatore fattosi divorare dal gelo russo.

«Addio, addio, Casarsa, vado via per il mondo, il padre e la madre li lascio, vado via con Napoleone. Addio, vecchio paese, e compagni giovincelli, Napoleone chiama la meglio gioventù». Dove siano i resti di questi eroici caduti al grido libertè, egalitè, fraternitè, difficile dirlo. La campagna s’è inghiottita le loro spoglie. Sui memoriali scintillano numeri di divisioni, altisonanti nomi di comandanti, ma per i fanti che si fecero massacrare dall’artiglieria di Kutuzov, non una pietra. Non una croce. Non un soldo per mano di quei governi “alleati” sempre pronti a invocare sacrifici, per voltarsi poi lesti quando è la storia a reclamar onori. 




(ARTICOLO PUBBLICATO SU RUSSIA OGGI)