"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

giovedì 18 dicembre 2008

LA VALLE INSANGUINATA




Se solo ne avesse la possibilità, saprebbe per certo dove scappare. Anche a costo di attraversare a nuoto il mare di Flores, percorrendo chilometri e chilometri sino a crollare esausto al suolo. Dovesse andargli bene, già a Bali potrebbe incontrare qualche hindù dal cuore d’oro, pronto a venerarlo come un dio. Ma l’India! L’India! Basta il semplice nome per farlo tremare di gioia e spingere la sua coda a roteare vorticosamente come l’elica di un elicottero. L’India resta il suo sogno proibito, la terra promessa, il ricordo annebbiato di un’epoca remota di cui forse i soli Antenati potrebbero narrare senza titubanza alcuna.



Laggiù nessuno si permetterebbe mai di alzare contro di lui il terribile la’bo, il coltello sacrificale che con un sol colpo ne reciderà la giugulare, lasciandolo a soffrire, per interminabili minuti, in un lago di sangue: i suoi occhi allucinati, proprio come le narici dilatate, urlano lo stesso disperato appello, mentre s’agita tentando di scardinare il palo cui l’hanno costretto: “Cosa vuoi che m’importi d’essere il protagonista di una cerimonia funebre nella valle di Toraja? Credi forse che i colorati orpelli con cui ornano le mie corna e le pacche sulla groppa siano sufficienti per domare la mia bovide esuberanza? Lasciami vivere, ti prego! Lasciami affondare ancora, per un giorno almeno, nei freschi fanghi delle risaie! Legami al collo dieci aratri, mettimi in spalla venti bambini dal sorriso ingenuo, ma risparmiami! Salvami!”.



Non smetterà di rimproverarti la sua fine sino all’ultima stilla di sangue. Lì, tramortito al centro del “rante” sacrificale, fra muggiti strazianti e spasmi irriflessi, mentre l’odore acre della morte inonda i polmoni e spande pace nei cuori dei trapassati. Così è da secoli e così continuerà ad essere. Da quando un orpello di proto-malesi lasciò 25 generazioni fa le terre che si estendevano dalle propaggini orientali dell’India alle paludi cambogiane, sull’isola di Sulawesi le antiche tradizioni non hanno mai smesso di perpetuarsi. Proprio perché figli d’immigrati, giunti al centro dell’arcipelago indonesiano a bordo delle veloci imbarcazioni “lembang”, i Toraja si sono attaccati ai propri costumi originari sino a divinizzarli, a tal punto che la loro vita quotidiana altro non è che un continuo confrontarsi con la Legge degli Antenati (“Aluk Todolo”, in lingua locale). Un indifesso sottostare all’ostinazione dei tabù, nel timore di macchiarne la memoria ed incorrere nel loro infausto rancore.



Per certi versi ricordano quasi gli Etruschi, dal momento che ogni loro attività viene svolta solo in funzione del trapasso, lasciando che la morte vigili attenta in ogni istante del giorno e della notte. Come loro, hanno tombe e necropoli disseminate un po’ ovunque: scavate nel tronco degli alberi, dove seppelliscono i bimbi deceduti prematuramente e fanno scongiuri affinché i prossimi nascano robusti come piante; sospese su rami o affioramenti, in modo tale che il pallore delle ossa in vista rischiari le ombre dei bambù e ricordi che nessuna bara può nascondere per sempre un morto; o ancora scavate nel cuore della roccia, terrazze da cui s’affacciano inquietanti tau tau, le effigi in legno dei parenti che furono, dagli occhi eternamente sbarrati e vestiti di setosi ikat.



Rari sono i luoghi in cui tanto forte appare il contrasto fra la visione tragica della vita e la dolcezza assoluta del paesaggio, costellato di ridenti risaie, cristallini ruscelli dove le donne cantano ancora durante il bucato, così come da vette smussate che sfiorano però i tremila metri d’altezza, o da piantagioni di pregiatissimo caffè, il cui intenso aroma immancabilmente accompagna di villaggio in villaggio.





Eppure, dietro i mansueti sorrisi di un popolo dalla pelle bronzea e dalle voce ovattata, si nasconde ancora l’animo fiero delle prime tribù che qui si fecero spazio fra il fiume Sa’dan ed il monte Vagina, così chiamato per la sua impressionante forma cava, che spinse a considerarlo un sito sacro dove riaprire il ciclo della vita. I Toraja hanno infatti conservato il gusto per canzoni e danze marziali, che spesso si intervallano ad esibizioni di tono assai più melanconico, mescolando l’intraprendenza degli antichi conquistatori con l’inevitabile nostalgia per la terra perduta (la loro migrazione fu probabilmente causata dalle rovinose incursioni nomadiche antecedenti la fondazione dei grandi imperi asiatici).



Dai nomi paiono somigliarsi tutte: c’è la Ma’badong, la Ma’randing, la Ma’katia o la Ma’dondi, ma ognuna di esse segue un ben preciso rituale, dove alle voci melodiose delle donne rispondono le urla potenti degli uomini, con tanto di aleggianti corone di piume e corna in testa, lasciando che l’ipnosi dei tamburi scandisca le volte dei danzatori in cerchio. E’ in queste occasioni, quando gli animi s’inebriano di vino di palma e fumo kretek (inalando un tabacco aromatizzato ai chiodi di garofano), che può capitare d’assistere ai tipici combattimenti di Sisemba: sorta di kick-boxing locale, durante cui singoli o squadre si affrontano sino al totale stordimento dell’avversario, con calci volanti e violenti cariche, che portano spesso alla frattura degli arti. Analogamente a quanto accaduto per i furiosi scontri fra bufali o galli, sono stati “ufficialmente” banditi dall’ormai lontano 1981, non solo a causa della loro crudezza, ma altresì per il lucroso giro di scommesse che porta spesso questo popolo di semplici coltivatori di riso sull’orlo del lastrico.



In realtà l’organizzazione sociale dei Toraja poggia su basi molto solide, dal momento che il “gotong-royong” – ovvero il dovere della comunità di aiutare gratuitamente il singolo in difficoltà – resiste alle spinte centrifughe del libero mercato indonesiano, tanto da esser stato riconosciuto dal presidente Megawati Soekarnoputri (in carica dal 2000 al 2004) quale uno dei pilastri fondamentali dell’immensa nazione asiatica.
La dimostrazione più vivida si ha proprio in occasione dei grandi eventi della vallata, come i funerali o le cerimonie propiziatorie, che hanno sempre luogo fra i mesi di maggio ed ottobre, in coincidenza col periodo di raccolta del riso e il concludersi della stagione secca.



Trattandosi di celebrazioni d’ampia risonanza corale, destinate a protrarsi anche per settimane intere, la famiglia del defunto è tenuta ad allestire almeno tante abitazioni, quanti più saranno gli ospiti in arrivo: poiché il funerale resta però aperto a chiunque voglia onorare il parente scomparso, offrendo un pacchetto di sigarette o qualche dolciume da condividere con gli intervenuti, le risorse da mettere in campo sono spesso al di sopra di quanto ci si possa permettere. Chi non ha risparmi sufficienti per edificare nuove “tongkonan”, le abitazioni tradizionali il cui tetto arcuato richiama la forma delle antiche navi dei Toraja (o per altri le corna dei bufali), viene prontamente aiutato dai vicini; queste incredibili case sono costruite in modo tale da poter essere anche facilmente trasportate da più uomini, cosicché spesso vengono trasferite da un villaggio all’altro a mo’ di lussuose roulotte, dov’è tranquillamente possibile pernottare.



Le tongkonan sono forse il simbolo più popolare delle comunità toraja: vengono disposte in modo tale che ad un’abitazione corrisponda sempre un magazzino per il riso, di forma analoga ma più piccola, poiché nella visione cosmologica tradizionale questi va ad incarnare il principio femminile (è il luogo che “alimenta e conserva” la vita), inevitabilmente correlato a quello maschile (la casa è il luogo dell’azione, del fare). Sono generalmente raccolte in gruppi di 9 o 11 unità, le più antiche vantano tetti rivestiti in bambù (come nei villaggi-museo di Kete Ke’su o Palawa) e, grazie alla loro disposizione, definiscono una cardinalità sacra, funzionale alla diversa tipologia delle cerimonie: quelle legate alla felicità trovano posto sul lato orientale delle tongkonan e sono celebrate sino a quando il sole non raggiunge lo zenith; gli eventi infausti sono invece commemorati sul lato occidentale, a cavallo fra il pomeriggio e la sera. In sostanza disegnano un microcosmo che, sia nella disposizione che nella forma, punta a creare una correlazione col macrocosmo universale: il tetto, protendendosi verso il cielo, simbolizza l’anelito al paradiso, mentre i pilastri di fondamenta sono l’asse di giunzione con la terra ed il mondo inferiore, dove restano prigionieri gli spiriti degli antenati ai quali non è stato tributato il funerale.



La paura d’incorrere nella vendetta degli avi spiega perché le cerimonie funebri finiscano per assorbire la maggior parte delle ricchezze prodotte dalla famiglia: qualunque cosa sacrificata al defunto lo accompagnerà e lo renderà sereno nell’Oltretomba, evitando al contempo che un eccesso di beni materiali spinga i viventi ad occuparsi troppo degli aspetti materiali dell’esistenza, anziché operare per la salvezza della propria anima. Tutt’al più l’altezza dello status sociale viene ostentata impilando quante più corna di bufalo possibili sul fronte dell’abitazione, oltre che preservata da una rigida ripartizione della comunità in quattro caste, che ancor’oggi tradiscono le remote origini indo-asiatiche.



Considerato l’enorme valore che un bufalo ricopre nell’economia domestica, tanto più se di bianco vello (il rapporto di valore con uno scuro è di 10 a 1), a pagare le conseguenze peggiori della Legge degli Antenati sono spesso i maiali, sacrificati in gran quantità e in grado di sfamare molto meglio gli ospiti della cerimonia. Certo a loro va peggio che ai bufali: nati nel più popoloso paese islamico dell’Asia, hanno avuto la sfortuna di ritrovarsi nell’unica vallata dove la parola di Maometto non è riuscita a scalzare la buona novella di Cristo.



Palpiti e lacrime salate. Strette al cuore e sguardi lucidi. In queste inusitate mattanze finisce per risvegliarsi inevitabilmente un senso di pietas universale che, di fronte al morboso assieparsi di obiettivi assetati più di sangue che di credo, fanno pesare la macchina fotografica quanto il fucile di un cacciatore. Forse sono le anime dei morti a chiamare. Forse soltanto gli scenografici sentieri montani di Lokomota e Batutumonga. Comunque sia, pare sia giunto davvero il tempo d’allungare il passo lassù. Di svanire liberi e leggeri fra nuvole vaporose. E grugniti di nomade felicità.



SIMBOLOGIE NASCOSTE



Per ora se ne contano ufficialmente 150. Ma non è escluso che, osservando attentamente le pareti delle tongkanan, o qualche incisione rupestre nella valle di Toraja, si riesca a scoprire qualche nuova e segreta simbologia taumaturgica. I disegni più facilmente distinguibili sono senza dubbio quelli legati al mondo animale, come il kottek (l’anatra), l’asu (il cane) o il tedong (il bufalo), ma dietro gli intarsi più complessi e le caleidoscopiche geometrie che impreziosiscono gli ambienti di vita locali, si cela in realtà un linguaggio antico di secoli. Ognuno di essi evoca infatti un elemento della natura indispensabile al raggiungimento dell’equilibrio nell’esistenza umana e, più varia è la composizione delle simbologie, maggiore sarà l’armonia del nucleo familiare che ne assorbe i benefici influssi: ad esempio, una sequenza di quadrati barrati da “x” interne – simili all’impronta di una zampa di pollo - sta a significare “vivere con dieci dita”, ovvero vivere con i piedi per terra, della forza del proprio lavoro. Le sinuose linee che ricordano il fiore di papaia servono invece a preservare l’abitazione dalla malaria, visto che le sue foglie sono appunto utilizzate nella medicina tradizionale per curarsi dalle pericolose punture delle zanzare. E ancora: l’accostamento di più svastiche, croci uncinate che possono “incastrarsi” fra loro solo in condizioni ben precise, ricorda che nella vita occorre usare sempre molta prudenza nell’instaurare relazioni personali, soprattutto quando si è chiamati ad agire come terzi nella risoluzione dei problemi altrui. Imparando a leggere questi piccoli frammenti di saggezza popolare, divenuti nel tempo uno degli elementi più caratteristici dell’artigianato toraja (oggi si vendono in particolare sotto forma di piastrelle, decorazioni parietali in legno, sottobicchieri o stampe da collezione), è così possibile riscoprire usi e costumi più tipici delle popolazioni di centro Sulawesi.

I POTERI DELL’IKAT



Fra le tante tecniche di lavorazione dei tessuti presenti in Indonesia, quella dell’ikat è fra le più antiche e misteriose. Originaria delle isole centrali dell’arcipelago, indica letteralmente l’azione del “legare” o “intrecciare”, trattandosi di uno stile di tessitura che impiega un processo di tintura resistente, attraverso cui i fili di cotone o di seta guadagnano spessore e danno così modo di comporre trame estremamente complesse. Il tessuto di fattura più raffinata risulta il “doppio” ikat, perché unisce di fatto due differenti strati (la base e la trama), i cui motivi variano sempre di regione in regione, esibendo una rete di disegni reputati “magici”. Simboli di status, di ricchezza, ma anche di prestigio e potere, gli ikat sono stati utilizzati nei secoli per contraddistinguere una persona o un nucleo familiare all’interno della società, a tal punto che la particolare tecnica ideata per la creazione di un singolo pezzo viene ancor oggi gelosamente custodita. In virtù della complessità di realizzazione e del lungo tempo richiesto per ottenere il prodotto, la popolazione locale ha così finito per pensare che questi tessuti nascano da un singolare intreccio di abilità tecniche e formule sacre: non è infatti raro riconoscere negli ikat il disegno di tau tau protettori o elementi zoomorfi cui si attribuiscono poteri speciali. Il modo migliore per avvicinarsi ai segreti di questa splendida arte consiste nel visitare il centro di tessitura presente nel villaggio di Sa’dan, dove l’antica tradizione toraja viene mantenuta in vita da vispissime vecchiette, pronte a realizzare su commissione l’ikat più adatto alla personalità e alla storia dell’eventuale visitatore.

IL MIGLIOR CAFFE’ D’ASIA



Chiamato un tempo “kalosi kopi”, dal nome della località che tuttora vanta il maggior numero di coltivazioni (ubicata circa 25 chilometri a sud della valle), il caffè di Toraja (www.torajacoffee.com) gode di un’altissima reputazione ben al di là dell’isola di Sulawesi. Grazie ad una concentrazione d’acidi particolarmente bassa, favorita dalla crescita del caffè ad alta quota, ma in clima equatoriale, il suo aroma è fra i più intensi al mondo, tant’è che può essere avvertito sino a 20 metri di distanza. Una caratteristica che ne sancì il successo sin dalle prime esportazioni avviate dalla Compagnia olandese delle Indie Orientali, che favorì la produzione in loco a partire dal 1600, nel tentativo di spezzare il monopolio arabo di mercato. La selezione dei chicchi risulta particolarmente ferrea, dal momento che vengono utilizzati solo quelli di diametro compreso fra i 6.8 ed i 7.5 millimetri, senza apportare alcuna correzione di miscela. Il caffè di Toraja viene fra l’altro coltivato in foreste protette e, grazie ad un progetto umanitario lanciato dall’associazione “coffee kids – grounds for hope”, i proventi derivanti dalla vendita delle sue tipiche scatolette in legno intarsiato sono oggi destinati al supporto dei bimbi indonesiani più poveri. Esteticamente i chicchi locali si distinguono per un colore meno scuro del caffè classico, ma non per questo hanno un sapore più tenue. Anzi. I chicchi semi-lavati e non eccessivamente tostati sono appunto quelli che garantiscono aromi corposi. Per mere ragioni d’immagine, in Occidente sono però più facilmente vendibili caffè dall’aspetto scuro e pulito.

RISTORANTI



RIMAN RESTORAN
Situato sulla centrale Jalan Andi Mappanyukki, a Rantepao, serve sia piatti di tradizione toraja che di cucina asiatica, ma è anche il punto di ritrovo preferito per tutti gli appassionati di rafting sui torrenti della vallata. Fra le specialità imperdibili, un piatto a base di riso nero con blocchetti arrostiti di carne di bufalo e verdure al vapore. Prezzi a partire da 3 euro per portata.

WAE RAMBUNG
Sul bivio che collega Rantepao a Kete Ke’su s’incontra un padiglione di legno affacciato sui campi di risaie, dove naturalmente le portate principali sono a base di riso fritto o bollito, servito in aromatici tronchetti di bambù, con mix di carne speziate e piccanti. A partire da 4 euro.

SAD’AN RESTORAN
Ricavato in una tongkokan a fianco del noto laboratorio di tessitura di Sa’dan, questo piccolo e familiare ristorante è gestito da una signora originaria di Makassar, che ha saputo fa apprezzare le virtù del pesce in una cucina votata quasi esclusivamente alla carne. Tipico è il Konro, servito grigliato e marinato con salse molto piccanti. Piatti a partire da 2 euro.

ALBERGHI



PIA’S POPPIES HOTEL
Situato a circa un chilometro a sud di Rantepao, immerso nelle risaie, questo piccolo hotel incanta per gli arredi tradizionali delle camere, i tanti arazzi appesi alle pareti e rilassanti acquari. Singole a partire da 4 euro.

HOMESTAY KALEMBANG INDAH
E’ una delle rare sistemazioni nel piccolo villaggio di Sangalla, d’ambiente molto familiare e senza grosse pretese, ma come quasi tutte le soluzioni private molto pulita e confortevole. Le tariffe di pernottamento, inclusive dei pasti, non superano i 5 euro.

IKAT HOMESTAY
Rivolgendosi al centro di tessitura di Sa’dan, cordiali vecchiette possono mettere a disposizione le tradizionali tongkanan del villaggio, per pernottamenti in tipico stile toraja. Le abitazioni non sono spaziosissime, ma dormire su morbidi materassini che vantano ikat tessuti a mano al posto delle lenzuola non capita tutti i giorni. Poco più di 3 euro a notte.

domenica 26 ottobre 2008

OPERASI KOTEKA




Inevitabilmente gli occhi cadono sempre lì. Senza falsi pudori. Senza malizia alcuna. Con un insistenza tale, che ti viene quasi il sospetto d’aver scordato di stringere la lampo, o d’aver forse indossato un paio di jeans sopravvissuti all’attillatissimo guardaroba di una rockstar anni ‘70. A Papua, un uomo senza koteka è come un armadillo senza corazza, sicché non c’è nulla di male nel farti capire che sarebbe cosa saggia intubare i tuoi genitali in una zucca cava, com’è costume fra le tribù Dani, o ancor meglio introfletterli con un vigoroso massaggio da ghiacciarti il sudore in fronte. Sottile astuzia dei guerrieri Korowai, che anziché correre in battaglia gravati da una sorta di proboscide fossile, spiazzano il nemico ostentando un guscetto di ghianda e nulla più. Ne vanno così fieri, che persino l’esercito indonesiano ha dovuto alzare bandiera bianca; fra i tanti scontri sostenuti con gli abitanti dell’isola, iniziati nel 1962 a seguito della “liberazione” dei poveri selvaggi dai bruti colonialisti olandesi (e mai conclusisi davvero), l’operasi koteka ha rappresentato una soglia spartiacque: più di 30 anni fa Jakarta emanò una direttiva che passò poi alla storia con slogan quanto mai bizzarri, del tipo “un paio di mutande per tutti!”.
La stampa ironizzava, ma intanto frecce avvelenate e lance affilatissime volavano su e giù per la Valle del Baliem: paradiso di un’umanità senza vergogna, scoperto solo nel 1938 e da quel momento in poi condannato alla “civilizzazione”, sotto l’egida dei fucili javanesi e del proselitismo missionario. Agli occhi del mondo l’Indonesia voleva mostrarsi ormai lanciata sulla via del progresso e del profitto, per quanto i metodi utilizzati somigliassero dannatamente a quelli della Compagnia delle Indie Orientali: inaccettabile che uomini nudi vivessero in capanne di paglia insieme ai maiali; intollerabile la mutilazione delle falangi alle donne di famiglia, dopo la morte di un parente maschio; insostenibile che si continuasse a coltivare patate dolci esattamente come nell’età della pietra, quando a scuola veniva insegnata una lingua, il bahasa, in grado di unificare gli scambi commerciali fra le quasi 18mila isole dell’arcipelago indonesiano. Tentarono di convincere i Dani con mutande di ruvido cotone e loro risposero facendo oscillare sbeffeggianti il loro koteka. Puntarono loro il grilletto alla tempia e si videro arrivare un’ascia nella schiena. Alla fine quel che la volontà non ha potuto, è riuscito invece alla tentazione: Wamena, il capoluogo della Valle del Baliem, è oggi una cittadina dove ancora si scorgono per le vie zucche “oscenamente” erette, benché le si veda circolare a cavallo di una motocicletta, o sedere davanti ad una soap opera dagli incantevoli visini balinesi. La notte si preferisce avvolgersi sotto le coperte, piuttosto che cospargersi di grasso di maiale, mentre vendere collanine di ciprea rende assai più che cacciare casuari imbolsiti.
Ma c’è chi non si è fatto abbagliare. Pochi chilometri fuori dalla città, le strade si perdono su monti impervi, ma dall’impossibile vegetazione equatoriale. I ponti d’acciaio tornano ad essere solo un intreccio di pali scricchiolanti e legati alla meno peggio. Il fragore cristallino di torrenti incontaminati riesce a coprire gli strepiti d’ambigui karaoke, dov’è facile scivolare dalle spire di una canzone melensa a quelle di un massaggio dal ritmo sensualmente ripetitivo. La natura mostra un volto così primitivo ed esuberante, che Wamena intera finisce per apparire la semplice caricatura di un mondo estraneo ed incomprensibile.
Nascosti dietro alte staccionate, gli abitanti delle vette continuano infatti ad estrarre sale battendo gambi di banano sino alla loro disidratazione, per poi immergerli in pozzi d’acqua mineralizzata. Capita di udire persino urla gorgheggianti levarsi d’improvviso attorno ai falò di mezzanotte, quando la cerimonia di smembramento di un cinghiale viene interrotta per armarsi d’arco, onde vendicare il furto di bestiame messo a segno dall’astuto vicino. Salvo accorgersi che queste faide estemporanee spesso non sono altro che lotte simulate, magari per sfogare gli ardori di uomini spaventati dalla potente magia dell’accoppiamento, o solo per tenersi in forma in attesa del festival che – ogni metà agosto – qui raccoglie tutte le tribù della zona: un’autocelebrazione degli antichi costumi, durante la quale ci si perde in danze forsennate, in sfide di cucito per realizzare borse di caurio poi legate alla testa, in virili corpo a corpo, necessari per iniziare il giovane all’implacabilità della vita e della caccia.
Papua è così. Offre barlumi appena di urbanità, concentrati sulla costa o in qualche sporadica radura dell’isola, per la quale ci si muove quasi esclusivamente a bordo di piccoli aerei. Al massimo di traghetti caracollanti, che dalla capitale Jayapura arrancano solo verso ovest, costeggiando le bianchissime spiagge di Biak, le affascinanti pitture rupestri di Fak Fak, per spingersi sino alle vaste pianure alluvionali della regione degli Asmat, dove defilate palafitte ospitano i più fini intagliatori del Pacifico, o a Merauke, in mezzo alle foreste allagate d’eucalipti. Estremo insediamento meridionale dove già si avverte aria d’Australia, osservando gli spericolati voli dei petauri, gli sbadigli omerici dei dingisi, o ancora l’infaticabile dedizione delle termiti, capaci di alzare nidi di cinque, sei metri, poi sfruttati dalle tribù Marind come comodi forni per cuocere la carne di canguro. Con il 75% del proprio territorio coperto da impenetrabili foreste, Papua preserva un ecosistema unico al mondo, i cui numeri danno il capogiro: 2.500 specie d’orchidee, 600 d’uccelli e 800 di ragni, per non parlare degli oltre 30mila tipi di coleotteri. Se tanto diversificato appare l’habitat naturale, non meno complesso è il mosaico delle tribù, che parlano almeno 250 dialetti e vivono per lo più isolate dal resto del mondo. Gli unici, sporadici contatti coltivati sono appunto quelli con alcune missioni protestanti o cattoliche, angustiate all’idea che dopo duemila anni dalla morte di Cristo qualcuno possa vivere ancora ignorandone il sacrificio.
Ma popolazioni come i Kombai o i Korowai hanno ben altro per la testa. Per loro il mondo finisce al di là dell’umidissima foresta in cui sono rimasti nascosti sino al 1979, benché nessuno abbia ancora un’idea precisa di quanti uomini abitino nelle khaim, le case che costruiscono in cima alle piante, ad oltre venti metri da terra. Pretendere da loro una risposta è impossibile, talvolta estremamente pericoloso. Chi padroneggia i numeri di solito è un khahkua, uno stregone dal cui malefico influsso ci si libera solo divorandone cuore, fegato e stomaco. Ancor peggio se a sollevare domande sui loro miti o i loro costumi sia un demone dalla pelle bianca, il cui solo contatto potrebbe rischiare di congelarli come ghiaccioli. Tutt’al più insegnano a lavorare le piante di sago, o a fumare in silenzio le loro pipe oblunghe e un po’ allucinogene. In fondo loro preferiscono starsene tutti soli lassù, lontani da occhi indiscreti e zanzare pedanti, vicini al mistero delle stelle, sordi al rumore delle motoseghe che – giorno dopo giorno – s’avvicinano sempre più, per cancellare gli incubi di un mondo dal quale l’uomo contemporaneo s’illude d’essersi affrancato. Almeno sino a quando il campo del suo telefonino non scompaia dal display, o le batterie delle torce si esauriscano inaspettatamente: sprofondato nel vischioso ed oscuro grembo della jungla, forse avrà modo di capire che salvare Papua, altro non significa che salvare se stessi. Uomini alla deriva in un mondo di silicone.

mercoledì 10 settembre 2008

DOVE IL NOME SI FA ONOMATOPEA



E’ più grave di quanto sembri. Ignorata ai margini dei planisferi, accortamente imbavagliata dal governo indonesiano e col grilletto costantemente alla tempia, Papua non solo ha perso la parola: suo malgrado riesce a sottrarla persino a quanti tentino di dire cosa mai sia. Trasmette alla penna lo stesso smarrimento che sorprende il naufrago davanti alle sue coste vergini, lungo cui la jungla si riversa in mare, gli uccelli del Paradiso ammutoliscono sgomenti e i nomi si fanno onomatopea ostinata.
Non sempre scorgere terra all’orizzonte è sinonimo di salvezza. Tibie abbandonate nella sabbia, pallida e compatta quanto il volto di un cadavere imbellettato, o magari un teschio che fissa amleticamente dall’alto di una grotta collassata, inducono a pensare che l’oceano possa riservare in fondo qualcosa di meglio, perché le promesse dell’orizzonte valgono ben più di un’Utòpia spogliata della sua aurea illusoria. Bisognerebbe ruotare la zattera su cui inevitabilmente condannano i capricci del cielo, rinfrancarsi un poco le braccia scosse da brividi improvvisi e allontanarsi il più in fretta possibile, prima che una freccia avvelenata scocchi dal nulla o tracce di sangue rappreso vengano ricondotte a ciò che la mente persiste a rifiutare incredula.
Troppo facile. Troppo codardo. Chiunque troverebbe la forza di credere in altro, pur di negare che la realtà sia proprio quella. Memori della spada del biondo Hagen, eroi già condannati dal fato, in realtà non possiamo far altro, se non infliggere il colpo che smembri i legni marci della fuga e guardare negli occhi l’orrore. Non perché dotati di forze sovrumane, né tanto meno per infatuazione di un gesto romantico. Sulle rocce di Papua non c’è poesia, grazia o estetica che valga. Solo bruta necessità, crudo opportunismo cacciatore, la consapevolezza per cui distogliere lo sguardo non aiuterebbe a dimenticare, bensì ad alimentare velenosamente, giorno dopo giorno, l’inquietudine dell’irresoluto. Occorre fare come Ulisse: consegnarsi all’ineluttabile richiamo di sirene mortali, nella speranza che le corde della civiltà reggano e dell’impossibile ci si faccia prima o poi ragione.
A quel punto, forse, centinaia di mani rosse dipinte a pelo d’acqua non assomiglieranno più al disperato appello di memorie murate nel silenzio caduco, ma allo slancio creativo di aborigeni ostili solo alla morsa del tempo; sarà più facile credere ai giganti di Fak Fak e Kaimana, osservando pelvi abnormi, verosimilmente appartenute a creature preistoriche. Sulle sponde del lago Sentani si stagliano in fondo megaliti che giustificano i nostri lumi: poco importa se la loro forma richiami l’inafferrabile sfinge o alteri i profili d’animali estintisi da epoche remote, seguendo la vibrazione dell’onda che si propaga nel dubbio stagnante.
Se quella suona una spiegazione credibile, allora avremo rischiarato già un poco il cuore di tenebra papuano. Né dovremo indietreggiare qualora l’odore di grasso di maiale e di penne essiccate diventi tanto penetrante, da risvegliare nuovamente la nausea esistenziale. Quell’odore è tale solo perché lo hanno costretto fra pareti di cemento armato e vestiti di terza scelta; ricorda il corpo ammuffito di un certo Theys Elias, che in nome di una terra libera è finito sepolto dalla sua stessa terra, relegato in un campo le cui zolle rischiano d’essere risucchiate da un momento all’altro, per via di un aereo in partenza. Difficile, infatti, che qualcuno si trattenga fra rubicondi sputi di betel e polvere soffocante, che continui a camminare per strade oltre le quali si aprono solo fogne, che resista al canto sgangherato di karaoke i cui unici ospiti sono l’Aids e javanesi dalle mani di fata. Se lo fa, è solo perché sta meditando il modo migliore per far saltare in aria l’ennesimo convoglio militare, giunto a proteggere immigrati che non ritroveranno certo il sole sulle labbra coltivando riso a buon mercato, mentre gli intransigenti della patata dolce banchettano oltre le montagne con i resti di chi si è spinto troppo in là, seguendo i consigli di un burocrate di Jakarta che confonde uomini con oranghi. Le sue cartine contemplano poche strade cieche, prevedono il rilascio di permessi per camminare dove non esistono confini, ma oltre cui basterebbe solo l’umiltà di una semplice richiesta. Indicano villaggi di capanne da incendiare, selvaggi che vestono solo zucche sui propri genitali, oppure che ci arrotolano qualche foglia, ostili al taglio delle piante pronte a dar loro vita, irriducibili ad un credo piovuto dal cielo senza buona novella, che staccano dita di donne alla morte di un parente e divorano fegati di demoni dalla pelle bianca. Selvaggi, dunque. Animali che non meritano stima, ma solo la suola degli stivali in faccia, l’urina negli occhi, lo scherno delle reclute che trascinano corpi ribelli lungo scie di sangue, tenendoli legati ad un cingolato a stelle e strisce.
Verità inoppugnabile di un patto scellerato, che in nome dell’oro di Freeport sacrifica diritti civili e miti democratici sull’altare del dollaro.
Allora non resta davvero che riparare sulle rive del Baliem, chiudendo la porta in faccia al mondo, per gioire di una collana di ciprea che rischiara il nero dell’anima, per danzare attorno ai fuochi di mezzanotte, divenendo uomini attraverso il pugnale che sventra i maiali, per sfogare la frustrazione di frecce che non possono più penetrare, o la paura di concupire donne da cui sgorga sangue impuro. Ma non basta. Wamena è già caduta in mano al nemico. I propri costumi ridotti alla parodia da festival. Gli spiriti antenati scacciati dalle croci. Le mummie degli avi relegate ai covoni della paglia. Bisognerebbe ripiegare ancora più all’interno, rannicchiarsi in un cantuccio sicuro quanto il feto di una madre, scappare in cima ad alberi alti venti metri e vivere di sago, denti di coccodrillo e larve di scarafaggi. Gli scudi intarsiati degli Asmat non servono più. Le asce dei Korowai appaiono spuntante contro le motoseghe dei musi gialli. I tamburi dei Marind mettono in fuga solo le termiti che hanno innalzato pinnacoli di terra fra le foreste d’eucalipto, i petauri volanti o i dingisi maculati, ma nulla possono contro i parà lanciatisi su Merauke.
Si resiste, come e finché si può. Ma quando tutto sarà perduto, a Papua non resterà che adottare la tecnica del nano Oskar Matzerat: rifiutarsi di crescere per non rendersi complici di un mondo assurdo, battere sul tamburo ogni volta che qualcuno vorrà alzare la voce, urlare sino ad infrangere i diamanti, qualora si vorrà privare i suoi abitanti persino di questo diritto. Ma sul banco degli sconfitti non siederà alcun selvaggio. Solo un uomo folle, ormai incapace di comunicare col proprio simile, per sempre privato dell’inestimabile tesoro di poter tornare a guardare chi un tempo fu e cosa poi divenne. E che alla domanda che vale una vita, saprà rispondere semplicemente così: wa, wa, wa…

sabato 19 luglio 2008

FANTASMI DEL BALTICO




Mettere piede sulle isole estoni ha ancor’oggi il sapore di una conquista proibita. Esattamente come 800 anni fa, quando mantello bianco spiegato al cielo e croce nera ad ottenebrare gli occhi, qui giunsero le armate dei cavalieri teutonici. I boschi di betulle continuano ad essere attraversati da sommessi cachinni, il vento salmastro è sempre pronto a sorprendere con la violenza del mare in tempesta, mentre all’orizzonte pare quasi impossibile scorgere anima viva.
Allora gli abitanti locali si erano radunati al completo sull’unico “rilievo” che Muhu conosca, una postazione difensiva alta qualche metro fra i villaggi di Linnuse e Aljava, decisi a far avanzare le guarnigioni germaniche per ingaggiare l’ultimo e fatale scontro su territorio estone.
Guidati dai rappresentanti più insigni dei diversi “maa” (distretti), si appellavano disperatamente al dio della luce e del tuono, bruciavano primizie al dio di quella terra tanto scura, che oggi sventola orgogliosamente nella banda nera del tricolore nazionale, ma si prostravano pure alla lucertola, al serpente e alla rana, davanti a qualunque creatura in grado di ostacolare la spietata marcia ad est dei monaci guerrieri.
Non ci fu nulla da fare: nel 1227 l’arcipelago di Oesel, che oggi comprende appunto le isole di Muhu e Saaremaa, capitolò di fronte all’attacco congiunto di tedeschi e danesi. “Che i cristiani di Sassonia e Westfalia difendano la Chiesa di Livonia – aveva sentenziato Papa Innocenzo III nella sua bolla del 1199 - e in cambio riceveranno la remissione dei loro peccati”. Quell’ordine si era di fatto trasformato in una delle più cruente crociate che il Medioevo abbia conosciuto, ma se da una parte contribuì a rilevare i ricchi traffici estoni di cera e miele, di pesce seccato e soprattutto di ambra gialla, dall’altra non ricondusse mai veramente le insofferenti popolazioni di ceppo ungro-finnico sotto la croce di Roma.
Lo si intuisce dalla strana forma delle chiese isolane, più simili a fortezze che a luoghi di culto: le pareti bianche all’esterno dell’edificio di Lausend, ad esempio, hanno in tutto e per tutto l’aspetto di severi bastioni, pronti a resistere alle torce infuocate di abitanti in rivolta da un momento all’altro; possenti croci di pietra, soffocate dal muschio, sono conficcate tutt’attorno a mo’ di filo spinato, mentre all’interno la mano pia degli scultori non è del tutto riuscita ad occultare le immagini di fluttuanti divinità armate di lancia.
Lungo la strada che dalla tenuta neogotica di Paedeste guida ai laboratori del legno di Liiva, affiora poi un circolo di pietre al cui interno svetta un impressionante dolmen: pare sia il primo insediamento abitato dell’isola di Muhu, risalente al 2.500 avanti Cristo, ma richiama con prepotenza i tipici ovoo sciamanici in cui l’ebbra danza a suon di tamburo barcolla nelle notti di plenilunio.
E ancora: sorvolando la linea di un orizzonte di paludi e canneti, di saune impudiche abbandonate all’aria aperta o di capanne in legno dai colori accesissimi, non è raro incrociare i peccaminosi siti per la celebrazione della festa di mezz’estate: accanto alle gigantesche altalene di legno, che sono solite essere decorate dai fiori più colorati della campagna, una pira di rami e frasche è sempre in attesa della fiamma purificatrice. Non è neppur escluso che, frugando sotto qualche cespuglio, sbuchi una vecchia bottiglia di vodka o del famoso liquore d’erbe “Vana Tallin”, grazie a cui le notti s’inebriano di canti a squarciagola e i boschi si riempiono di coppie in amore.
“Un altro solstizio d'estate era arrivato. – racconta a proposito lo scrittore Juhan Jaik, in “Notte di mezz’estate” - Quando il sole man mano calava e i boschetti, lontani e vicini, si scioglievano in un tenue color bluastro, quando la bruma si alzava dai laghi, avvolgendoli teneramente nel grigio della notte, allora il cielo cambiava. Diventava di un rosa denso, mentre a ovest gridava ancora di rosso. L'incandescenza notturna del cielo di ponente rischiarava i pinnacoli e le facciate delle chiese, mentre le cime degli abeti scintillavano, quasi le foglie acuminate avessero graffiato, fino a farli sanguinare, gli stormi di cornacchie volteggianti, e ora quelle stesse gocce di sangue languivano sui rami simili a perle delicate. Anche le colline rilucevano misteriosamente al tramonto. Un pennello distratto aveva tracciato, colpendolo con forza, una grossa chiazza rossa su un tronco di betulla, data come in preda a furore e agitazione, tanto da schizzare di vernice gli aghi di pino. C'erano più falò che stelle in cielo; brillavano enigmaticamente, come creature viventi che si strizzano l'occhio a vicenda, in segno di amichevole riconoscimento”.
L’arcana magia di questi riti senza tempo non rivive solo ai cambi di stagione, ma pervade la quotidianità di ciascun abitante di Muhu e Saaremaa, distante secoli dai rinnovati traffici anseatici di Tallin, benché ad appena 150 chilometri circa dalla capitale. In realtà queste isole sono così vicine alla costa che, durante la stagione invernale, nessuno resiste alla tentazione d’impugnare il volante e lanciarsi a tutta velocità sulle “strade di ghiaccio”, ovvero su quegli spessi ponti galleggianti che sino all’arrivo della primavera trasformano il golfo estone in una sconfinata pista da rally.
L’Estonia sarà pure il paese con la copertura wireless più estesa del mondo, tanto da permettere di collegarsi gratuitamente al web persino dalla più sperduta delle sue radure; sarà la geniale palestra informatica da cui è scaturita la rivoluzione interattiva di Skype, ma alle gente di mare poco importa. Loro continuano a sentirsi figli di pescatori, passano le giornate a stoccare pesce bianco, ad affumicare i salmoni o a raccogliere funghi in abbondanza; e poi spremono i ribes per deliziarsi col rubicondo succo di “mors”, lasciando alle donne il compito d’intrecciare pesanti maglioni di lana, mentre gli uomini si occupano di stringere i nodi alle reti da pesca. Ma dovesse levarsi la chiamata alle armi, fieri cavalieri e dame in costume non tarderebbero a radunarsi sotto le mura dolomitiche del trecentesco castello di Kuressare, l’esemplare meglio conservato di tutte le repubbliche baltiche.
Igakuula potrebbe sembrare un museo a cielo aperto, con le sue abitazioni dai tetti di canna e i pozzi a corda, ma poco o nulla è davvero cambiato dai tempi in cui qui riparavano i più insigni scrittori d’Estonia in cerca d’ispirazione. Le decine di mulini a vento che salutano da un capo all’altro delle isole non hanno mai smesso di far roteare le proprie pale traforate, proprio come le onde del Baltico, che proseguono imperterrite a scolpire capolavori nella grigia pietra calcarea delle scogliere a strapiombo: sono le “vette” del Paese, nonostante difficilmente superino i 20 metri di profondità. E’ come se ogni regurgito rivoluzionario finisse qui per impantanarsi irrimediabilmene, forse complici i ricchi fanghi che, dal 1824, hanno fatto di Kuressaare la capitale dei trattamenti terapeutici del vecchio impero zarista.
Neppure la caduta di un meteorite è stata in grado di smuovere da questa terra le sue genti: quando più di 4mila anni fa il cielo fu tagliato da una sfera incandescente, s’interpretò l’evento come una benedizione degli dei (tanto che il mito di Fetonte pare sia stato ispirato proprio da quest’impatto), anziché come la più grave collisione di un corpo extraterrestre mai registrata in zone abitate. Esistono in realtà leggende anche più colorite, come quella che vuole il lago un nascondiglio del Sole, vittima dei sortilegi della terribile strega Viro: capace di far apparire la Luna in cielo, esattamente come di occulare l’astro del giorno, traeva i suoi diabolici poteri proprio dalle forze segrete di quest’isola. Oggi il lago di Kaali è andato ad occupare un cratere ampio quasi 110 metri, è circondato da un bosco rigoglioso e conserva un’aurea quasi mistica, ma al tempo stesso appare un monito ai feroci bombardamenti e alle temibili operazioni militari che accompagnarono l’arrivo dei sovietici sull’isola di Saaremaa.
Sull’onda dell’inarrestabile avanzata verso Berlino, le truppe dell’Armata Rossa s’imbatterono nel 1944 in un’agguerritissima guarnigione tedesca rimasta sull’isola: entrambi sorpresi di trovarsi faccia a faccia col nemico in un posto tanto sperduto, ingaggiarono una furiosa battaglia che spazzò via a colpi di cannone i pochi rilievi allora esistenti, lasciando sul campo migliaia di vittime.
Proprio all’imbocco della penisola di Saare, l’estremo avamposto meridionale di Saaremaa, lo scontro è ricordato da un monolite in cemento armato, in cui sono scolpiti i volti cupi degli eroi bolscevichi: osservano pietrificati una distesa di tombe romboidali, su cui una ridondante stella rossa s’affanna ad accomunare nomi recisi ad ogni angolo d’Eurasia.
E’ tutto ciò che resta della loro gloria imperitura. Le possenti basi missilistiche che il Partito aveva nascosto in queste isole, ad un tiro di schioppo dall’Occidente, versano oggi in rovina. Da quando le ultime truppe se ne sono andate, nel 1994, rampe e magazzini sono stati abbandonati a sé. Bidoni arruginiti, pneumatici accatastati ed enigmatiche scritte in cirillico, continuano a riempire di fantasmi questi boschi dai mille segreti, mentre gli ingressi alle postazioni dei missili intercontinentali sono pronti ad inghiottire chiunque osi sfidarne le viscerali profondità, avvolgendolo fra le spirali argentee di un buio senza speranza.
Laggiù, dove la terra finisce, dove una lingua di ghiaia e sabbia bianca si protende nelle gelide acque del Baltico, un faro scrostato fa roteare incessantemente la sua luce d’allarme, ma i pescherecci caracollanti sembrano proprio non curarsene. Cardi coriacei ed orchidee multicolori stanno affiorando fra le spoglie di fatiscenti torrette d’avvistamento. Un mitra inceppato sorveglia l’orizzonte, con accanto una lattina di birra e in attesa dell’arrivo di un nemico smarritosi nel deserto dei Tartari.
Ce l’hanno fatta. Gli spiriti degli antenati sono riusciti a riprendersi finalmente quanto la mano dell’invasore aveva loro sottratto; ed è forse per questo che nell’urlo dei gabbiani, qui ancor più che altrove, ritrova voce il disperato appello di chi per troppo tempo sospirò la fuga sulle onde. Il canto “rivoluzionario” che infiammò il 1991. La promessa di un’Estonia che non deve più rendere conto a nessuno, fuorché a se stessa.

UN PARADISO NATURALE

Grazie alla loro posizione lungo la costa estone, le isole di Muhu e Saaremaa sono lambite dagli effetti benefici della famosa “Corrente del Golfo”: questa ne mitiga il clima rispetto alle terre continentali, alimentando un habitat particolarmente accogliente sia per la flora, che per la fauna. Non a caso qui sono stati creati ben due parchi nazionali, quello di Vilsandi e Vidumaeloodus Kautsela, si incontrano 34 specie di orchidee (fra cui la sontuosa Lady Slipper), crescono 3mila specie di funghi, mentre più di 1 milione e mezzo di uccelli transita sulle isole durante le proprie migrazioni. Nel villaggio di Nautse (Muhu) è stato addirittura possibile allestire un allevamento di struzzi, emu, canguri e nandi, integratisi perfettamente in loco, quasi si trovassero sulle coste d’Australia (www.jaanalind.ee). Oltre a fornire ottima carne per i ristoranti locali, hanno permesso di avviare un’intensa produzione di olii, che ben si sposa con gli effetti curativi dei fanghi di Saaremaa. Altra particolarità di rilievo sono i cavalli: conosciuti come “cavalli di Livonia”, hanno zampe piuttosto corte (arrivano sino ad 1 metro e 44 centimetri massimo d’altezza) e sono molto mansueti, tant’è che vengono considerati i migliori al mondo per viaggi su lunghe distanze, ma anche per l’avviamento all’equitazione. Entrambe le isole possono essere esplorate cavalcandoli, grazie alle numerose fattorie d’appoggio (la più grande delle quali è quella di Tihuse, su Saaremaa). Esiste fra l’altro una formazione rocciosa consacrata al cavallo: si chiama “Oo” (caso possessivo della parola “obu”, ovvero cavallo) e pare sia stata generata dallo scontro fra l’eroe locale Suur Töll ed il gigante Vanapagan, essendo quel che rimane del corpo del brado su cui quest’ultimo aveva rapito una bellissima fanciulla, per omaggiare la moglie di un’aiutante.

FANGHI MAGICI

Dal momento che le virtù dei fanghi locali erano note sin dai tempi degli zar, in Estonia si contano sedici stabilimenti ufficiali per cure terapeutiche (www.estonianspas.com). Fra i più apprezzati spiccano quelli di Saaremaa Valss, Meri e Rüütli, tutti e tre legati alla prestigiosa catena Saaremaa Spa Hotels ed ubicati nella capitale dell’isola più grande, Kuressare. Qui vengono trattati con successo casi di reumatismi, atrofie e cura della pelle, grazie alla forte salinità dei fanghi isolani, che agisce da depuratore epiteliale, favorendo al contempo la permeabilità delle proprietà lenitive dei fanghi stessi. I metodi d’applicazione abbondano: vengono proposti massaggi classici (per favorire la circolazione sanguigna ed il metabolismo), massaggi sportivi (adatti per accrescere l’elasticità muscolare), così come linfatici, plantari e aromaterapeutici. Naturalmente questi trattamenti coesistono con quelli di tradizione orientale, ma l’unicità dei fanghi di Saaremaa è provata dal fatto che possiedono una concentrazione di sostanze organiche dieci volte superiore a quella di qualsiasi altro fango marino, in particolare di solfuro d’idrogeno. Per via delle forti accelerazioni del metabolismo, già dalle prime applicazioni è possibile trarre grandi benefici, tant’è che a volte bastano pochi giorni per rimettersi completamente in forma.

GIGANTI DAI PIEDI DI FANGO

E’ questo il nome dato dagli abitanti locali alle numerose scogliere che caratterizzano il profilo della costa. Si tratta di pareti calcaree alte sino a 20 metri, che la violenza del mare ha scolpito nei millenni, conferendo loro forme alqanto bizzarre. La più emblematica è certamente quella di Uügu, sull’isola di Muhu: lunga quasi 450 metri ed alta circa 18, è il punto panoramico maggiormente spettacolare della zona. Da qui si possono osservare gli affioramenti minori di Kumari e Papilaid, la costa occidentale estone ed il profilo della città di Haapsalu, nonché tutto l’arcipelago di Hiiumaa. Proprio per la nitidezza d’orizzonte che spesso offre il Baltico, queste scogliere sono da sempre considerate “giganti guardiani” delle isole: l’analisi degli antichi coralli fossilizzatisi nel loro corpo le fa risalire a 405 miliardi di anni fa, mentre le forti tracce di dolomia hanno spinto l’industria chimica a sfruttare questi giacimenti a cielo aperto sin dal dicannovesimo secolo. Molto spesso alla loro base si trovano pure sorgenti d’acqua dolce dalle proprietà miracolose: secondo una leggenda del posto, la fonte di Uügu possiede misteriose proprietà curative per gli occhi. Chiunque offra monete, metalli preziosi o argento alle sue acque, potrà infatti guadagnare una vista tanto acuta quanto quella dei giganti.

domenica 29 giugno 2008

LA PIANTA DELL’OBLIO




O troppo, o nulla. Quando si ha a che fare con i grandi personaggi della storia, le mezze misure non contano. Tale è il caso di Gaetano Osculati, forse il più grande esploratore geobotanico che l’Italia abbia avuto nell’Ottocento, incredibilmente dimenticato per anni persino dai suoi stessi concittadini di Biassono, pittoresco borgo della bassa Brianza. Grazie all’impegno del Gruppo ricerche archeostoriche del Lambro, le sue gesta sono però tornate d’attualità, a tal punto che ben tre Comuni – Biassono, Vedano al Lambro e Monza – se ne sono recentemente contesi i natali a colpi di documenti ingialliti, pur di celebrare il bicentenario della sua nascita.
Le ultime ricerche lo legano indissolubilmente ad una vetusta casa conservatasi nella frazione biassonese di San Giorgio, dove appunto nacque il 25 ottobre del 1808, venendo tuttavia iscritto nei registri della parrocchia di Vedano al Lambro (allora competente su un territorio più esteso rispetto agli effettivi confini comunali). Poiché il futuro avventuriero trascorse lunghi periodi della sua vita a Monza, assai più nota dei suoi vicini, qualcuno pensato invece di “naturalizzarlo” post mortem quale figlio prediletto della città di Teodolinda.

Ovunque si voglia far ricadere la scelta finale, Osculati – primogenito di undici figli che il padre Gerolamo mise al mondo in due differenti matrimoni - risponderebbe ancor oggi a suo modo: alzando le spalle e guardando un po’ più in là. Compiuti i primi studi presso i Barnabiti di Rho, fece giusto in tempo ad avvicinarsi alla facoltà di medicina, per abbandonarla quasi subito a favore della matematica, delle scienze naturali e nautiche, discipline che gli valsero il grado di capitano di lungo corso a Livorno. Di fatto, un lasciapassare per i mari di mezzo mondo, verso cui si spinse già dall’età di 23 anni, onde sottrarsi alla provincialità dell’Italia risorgimentale, così come per assecondare i suoi interessi botanici. Per quanto il Sudamerica fosse diventato nel tempo la sua terra d’elezione, guadagnandogli l’appellativo di “Marco Polo del Brasile”, viaggiò in lungo e in largo senza mai mettere veramente radici.
Prima che in Amazzonia scoprisse le incredibili virtù farmacologiche del chinino e della cicona, potenti antimalarici di cui i saccenti Positivisti del periodo pensarono di fare a meno sin quasi ai nostri giorni, fu però l’Oriente a tenerlo a lungo avvinto.

IN CERCA DI “ERBE E RUINE”
Le prime esperienze di Osculati maturarono infatti nei deserti dell’Egitto e dell’Arabia, nella Siria e nell’Asia Minore, dove si recò nel 1831; tre anni dopo, appena tornato dal Levante, partì subito alla volta dell’America Latina e, nel 1836, ultimata la navigazione su un bricco francese, giunse a Montevideo. Di là, in carovana, superato l’altipiano dell’Uruguay infestato da nembi di zanzare e formiche volanti, giunse a Buenos Aires. Trascorse due mesi nella capitale argentina, spingendosi nelle semideserte Pampas per raggiungere l’altipiano di San Luis, punto attraverso il quale era possibile valicare la cordigliera delle Ande.
“I nemici erano pericolosi – ricorda lui stesso nelle sue memorie – tutti a cavallo, nudi i più, e con la lunga chioma, armati di smisurate lance di bolas, di lazos e di bastoni con cuspidi di ferro: e dietro di loro era una turba di donne, colle tende e coi fanciulli”.
Passato Valparaiso, s’imbarcò per il Perù, nella segreta speranza di trovare sul lido di Huacas qualche reliquia dei tempi di Pizarro: per lo più ossa e cadaveri “conservati assai meglio delle mummie ch’io aveva visto dissotterrare nell’Egitto tra le ruine di Menfi”.
Spintosi all’interno, Osculati dovette retrocedere per via della rivoluzione lì in corso, ma venne fatto prigioniero a Lima fino alla sua conclusione. Fatta allora vela verso l’Europa, cercò di ricominciare una vita di vocazione più borghese, ma l’insofferenza tipica del viaggiatore tornò a scalpitare presto in petto. Già nel 1841 partiva infatti col concittadino Felice De Vecchi per visitare la Persia e l’India.
Da Vienna, per la via fluviale del Danubio, si portarono a Costantinopoli e quindi a Tresibonda, costeggiando il Mar Nero. Seguendo una carovaniera trovarono Erzerun, in Persia, colpita dalla peste; passarono allora ai piedi dell’Ararat, monte su cui si posò la biblica arca di Noè, toccando il grande lago salato di Urma, poi Trebiz, dove invece scoprirono bizzarri concittadini impegnati in compiti sanitari. A Teheran si unirono ad altre carovane, onde proteggersi dai briganti, per approdare sul Golfo Persico bruciati dai venti. Con una nave francese si portano infine a Mascate, capitale dell’Oman, di dove su una sgangherata imbarcazione araba partirono alla volta di Bombay.
La traversata dell’Oceano Indiano fu disastrosa: falle continue, rese ancor più insidiose dalla rottura del timone che, con la bufera imperversante, pose la nave in balia delle onde. La ciurma in preda allo spavento lasciò le pompe e si mise a pregare Allah e Maometto; allora l’Osculati e il De Vecchi si avventarono sul capitano imponendo di far tornare gli arabi alle pompe, con la promessa di regali e la dispensa di pane e biscotti. Giunti finalmente nella grande città indiana, vennero ospitati con cordialità nella villa di un capitano inglese, e dopo aver visitato a lungo la zona di Bombay, partirono per Suez. Raggiunta Alessandria, s’imbarcarono per il ritorno toccando la Grecia, Ancona e Trieste.
“Appena reduce da quelle remote regioni d’Oriente – tentò di giustificarsi ai posteri – schivo di poltrire in ozio per me letale, mi decisi ad intraprendere il viaggio di circumnavigazione, nell’intenzione di percorrere le province dell’Indostan…per quindi perlustrare quegli arcipelaghi della Polinesia che ancor lasciano tanto a desiderare al geografo e al naturalista…”.
Non andò troppo lontano. La sua nave si incendiò appena raggiunto l’Atlantico, per lasciarlo “solo e quasi spoglio delle principali risorse”. Senza perdersi di coraggio prese allora un’altra imbarcazione per New York, e dopo aver visitato gli Stati Uniti ed il Canada, già stava per effettuare il progettato viaggio nell’Occidente, quando una forte burrasca spazzò di nuovo via parte del carico e gli avariò il rimanente.

LA TERRA FATALE
Cambiò allora idea e decise di attraversare l’istmo di Panama per raggiungere Quito, la capitale dell’Equador, in vista del fiume Napo, che avrebbe percorso dalle sorgenti alla foce nel Rio delle Amazzoni, per inoltrarsi poi nel cuore del continente e sbucare sull’Oceano Atlantico.
“Ardita, anzi temeraria impresa, superiore di troppo alle forze dell’individuo, perché oltre che l’esplorazione di regioni inospiti e quasi del tutto sconosciute, si dovevano incontrare tribù indiane ritenute tra le più crudeli e selvagge, sempre in guerra tra loro, aborrenti da qualsiasi arte della civiltà, date alcune all’antropofagia, celebri soltanto nella scienza di filtrare veleni e di massacrare nemici”.
Nonostante queste traversie, Osculati riuscì a portare a termine la sua più grande impresa, “nutrendosi di frutta e carni di tapiri e di scimmie appena rosolate”, ma soprattutto rilevando un fenomeno che avrebbe potuto cambiare il corso della storia.
Durante il suo terzo viaggio in Sudamerica si era infatti imbattuto in una zona miracolosamente indenne dalla malaria: dopo aver compiuto numerosi rilievi geografici, geologici, fisiografici e botanici (annotando fra l’altro la piaga del commercio fraudolento di alcune piante officinali), iniziò ad interessarsi sempre più della salsapariglia e del chinino, raccolte nella fetta di foresta al confine fra Perù, Equador e Brasile.
Come ha precisato l’esperto di botanica Francesco Bubbico, “con il termine salsapariglia si indica la radice di alcune specie del genere Smilax; piante rampicanti monocotiledoni delle Liliacee, tipiche delle regioni paludose centro-sudamericane. Sono caratterizzate da piccole foglie spicciolate, simili a quelle dei dicotiledoni più evoluti, con margine intero e nervature reticolate. I loro fiori sbocciano in piccole infiorescenze ascellari, mentre il frutto generato è una bacca. Di queste piante la parte più preziosa è rappresentata in realtà dalle radici, che polverizzate liberano diverse sostanze saponine (smilasaponina, sarsasaponina e parillina), venendo spesso bollite per ottenere un estratto depurativo per il sangue (impossibile da ricavare attraverso l’analoga specie mediterranea della Smilax aspera, priva di principi attivi)”.
Per quanto riguarda la Chincona, si tratta invece della pianta utilizzata per ottenere le cortecce di china. Ha foglie opposte, brevemente spicciolate, con una corteccia arrotolata di spessore compreso fra i 4 ed i 9 millimetri, nonché un profumo debolmente aromatico. Al suo interno si trovano diversi alcaloidi (di cui la chinina ne è appunto uno), preziosissimi per la cura della malaria. Non a caso il nome Chinchona viene da quello della Contessa di Cinchon, moglie del viceré del Perù, guarita dalla malaria grazie probabilmente alle polveri della corteccia di questa pianta. Sorte vuole che solo essa abbia trovato fortuna in Europa sin dal 1639, venendo apprezzata come “polvere della Contessa” o “polvere dei Gesuiti” (suoi principali divulgatori).
Gli studi di Osculati avevano perciò individuato un’alternativa efficace per spezzare il monopolio del chinino, rifacendosi all’utilizzo di una pianta apprezzata da secoli dalle popolazioni indigene dell’area del Rio Napo, sotto il nome di Yaual Chunca.
Nonostante la pubblicazione di un testo miliare come le “Esplorazioni delle regioni equatoriali” del 1854 (di cui si conserva una copia autografata proprio nel museo civico di Biassono), il mondo della botanica e della medicina snobbò completamente il suo contributo.
Ancor più amari furono però gli anni.a venire.
Del suo ultimo viaggio del 1857, quello nell’Indostan e nella Cina, non si è neppur conservata alcuna testimonianza scritta: a causa del disordine dell’editore milanese che ne avrebbe dovuto curare la pubblicazione, il testo originale andò infatti perduto.
La scomparsa dell’esploratore, giunta di lì a breve, non rese così giustizia alla modestia di un uomo che girò per il mondo senza alcuna sovvenzione pubblica o privata: spentosi a Milano il 14 marzo 1894, si vide persino misconosciuta dal Bollettino della Società Geografica italiana del 1881 la priorità della scoperta del Rio Napo, attribuita invece ad un francese (nonostante solo un anno prima l’Imperatore del Brasile si fosse compiaciuto con l’esploratore delle “sue terre”). Per fortuna ci pensò Re Umberto I a lenire l’amarezza del povero Osculati, conferendogli la croce di Cavaliere dell’Ordine Mauriziano, molto prima che Milano e Biassono gli dedicassero rispettivamente una via.

“Ed infine citeremo quest’aneddoto; – ha ricordato Luigi Viganò, curatore di un articolo a lui dedicato sull’antica rivista “Brianza” – l’Osculati, sbarcato a Venezia e ricoverato al Lazzaretto in quarantena, perché proveniente dal Lavante (regione infetta da peste orientale), venne alloggiato in un sudicio ed umido ripostiglio, senza un giaciglio. Lo stambugio dava sopra un cortile isolato a ridosso della camera mortuaria, dove trovavasi in deposito il furgone, verniciato in catrame, decorato di teschi e tibie, adibito all’estremo trasporto. All’Osculati balenò subito l’idea di servirsene per fusto da letto, e approfittando dell’assenza del guardiano, tirò lestamente il carro nella sua stanza (veicolo che pochi giorni prima aveva trasportato gli appestati), vi pose senza complimenti il suo stramazzo e vi si cacciò dentro fumando allegramente”.


Il gesto provocatorio costò all’Osculati quasi una denuncia per trasgressione ai regolamenti sanitari, ma la sua giustificazione concluse lo screzio in una burla. Proprio la stessa sorte che il destino pare avergli poi inflitto.


domenica 15 giugno 2008

LA RIGA NELLA SABBIA



Un minuto. Almeno un minuto di silenzio. Non appena il finestrino della Toyota 4x4 si frappone con ermetica intransigenza fra visi sconvolti e torridi sbadigli di calore, non resta che il lamento ondivago del muhezzin. Clacson nevrotici, urla beduine, fruscii di veli ancheggianti, improvvisamente ammutoliscono dietro l’unica cupola di cristallo concessa a chi non vanta sufficienti petroldollari per dirsi sceicco. Sarà l’aria condizionata a ridare ossigeno alla fantasia, così a lungo mortificata dalle acrobrazie di grattacieli che paiono figli di un mare agitato, o forse la pulizia morale di uno sguardo ormai cieco, ma cinquant’anni di magnifiche e progressive sorti degli Emirati Arabi Uniti si rivelano per magia una semplice bolla di sapone.
Nelle note profonde e melanconiche di quel canto remoto, proveniente da uno dei mille minareti che cercano inutilmente di rivaleggiare con la mastodontica moschea Zayed - orgoglio della capitale - vibra il segreto sdegno di un popolo rimasto prigioniero dei sogni d’Occidente. Scabra, rude, eppur dannatamente poetica, la voce dell’infinita preghiera porta con sé il vuoto delle dune costrette ai margini della civilità, il profumo di mirra bruciata sotto cieli stellati, l’aroma della menta che si libera sorseggiando un tè bollente. Ha vagato per chilometri e chilometri, disegnando spirali attorno alle oasi di Liwa ed Al-Ain, blandendo confini sauditi ed aspre rocce omanite, riemergendo da pozzi prodighi di vita per incanalarsi lungo falaj serpeggianti, nunzi d’acque cristalline che dissetano in egual misura agricoltori e palme da datteri, il più prezioso tesoro delle tribù senza pretese. E fra loro di nuovo conduce, chi al suo canto sa prestare orecchio.
Ma non inganni l’aspetto. Questi beduini altri non sono che gli astuti discendenti dei Bani Yas, pronti a scaricare sui vicini Qawassim l’onere d’improvvisarsi pirati sulle coste concupite da Sua Maestà d’Inghilterra, per poi trovare un ben più vantaggioso accordo con gli stranieri dai volti slavati. Beduini è un nome che sta loro addirittura stretto, avendo abdicato da tempo al proprio statuto di nomadi, preferendo la certezza degli orti stanziali al sudore delle carovane in cammino, così come i confortevoli appartamenti di città alle nere tende di vello di capra, le leggendarie beit ash sha’ar: lussuosi rifugi dall’arsura del deserto, che accolgono fra tappeti scarlatti e soffici cuscini rigorosamente decorati con motivi geometrici, teiere in ottone e bracieri intarsiati.
Le hanno ridotte a pezzi da museo, proprio come quelli esposti nel Forte Orientale di Al-Ain, oasi un tempo raggiungibile da Abu Dabi dopo cinque giorni a dorso di cammello, oggi ad appena un’ora e mezza di fuoristrada.
Tagliata in due dal confine col Sultanato d’Oman, pronto a ribattezzare la propria metà col nome di Buraimi, incarna forse il più emblematico paradosso scaturito dalla meticolosità dei righelli coloniali inglesi: prima di lasciare quest’appendice di golfo nel 1971, furono loro a percorrere in lungo e in largo l’intero territorio arabico, volendo sondare a quali emiri le tribù locali riconoscessero la propria fedeltà. Storicamente riottosi e pronti ad inusitati voltafaccia, gli abitanti di Al-Ain non fecero eccezione, preferendo una soluzione di compromesso con i massimi produttori di franchincenso, piuttosto che lasciarsi fagocitare dagli appetiti egemonici dei vicini Sauditi.
Prevedibile in fondo una difesa tanto accanita della propria indipendenza, visto che l’oasi ha dato i natali al padre dell’attuale presidente degli Emirati, il compianto sceicco Zayed bin Sultan Al Nahyan, vinto dall’ardito sogno di trasformare Al-Ain in un’amena città verdeggiante, prima di ascendere al cielo nell’ormai lontano 2004. Lontano, sì: perché qui gli anni possiedono un loro peculiare metro di misura e quel che in Europa può richiedere secoli d’evoluzione, negli Emirati prende forma in lustri luce. Erigere flessuose torri di cristallo o trasformare la sabbia in erbetta fine sono sempre state bazzecole per menti illuminate come Zayed, che, trasferitosi sulla costa dopo la scoperta del petrolio nei ‘60, seppe fare di un villaggio di pescatori di perle un inno alla verticalità pensile babilonese. Tant’è che il nome solo della capitale custodisce oggi la memoria di quell’eden un tempo orgogliosamente definito il “Padre delle Gazzelle”: Abu Dhabi appunto.
Là un crocevia di etnie e tecnologie ha dato origine ad un’avanguardistica Utòpia. Ad Al-Ain passato e futuro si guardano ancora in faccia, invitando ogni giorno ad un duro esame di coscienza.
Se un tempo le donne restavano rigorosamente confinate nell’haram, lo spazio proibito delle cosidette “case di pelo”, e ai soli uomini veniva concesso di trattenersi a colloquio all’ingresso delle beit, oggi li si vede anche passeggiare fianco a fianco all’interno di sfavillanti mall, in cerca dello sguardo fatale che farà scoccare la scintilla. L’unico segno che si possa cogliere senza ambiguità, visto che i corpi femminili si mostrano avvolti solo in leggiadri veli, da cui, di tanto in tanto, fanno capolino sottili dita decorate di henné o splendidi gioielli d’argento: ciondoli triangolari in cui sono incastonate pietre rosse e blu (Qiladah), braccialetti intarsiati come pizzi (Banager), o addirittura rarissime catene intrecciate, lasciate cadere sulle spalle con invitante tintinnio (Ilagah). Ultimi bagliori di una tradizione artigianale che, accanto alla tessitura domestica, resiste al tempo ed incanta con la stessa grazia di un Nabati, vernacolo poetico caro alle notti di luna piena, durante le quali vengono decantate le virtù delle proprie genti e gli amori consegnati alle sabbie.
A differenza di quanto accaduto nel resto degli Emirati, ad Al-Ain si è preservato anche l’ultimo grande mercato all’aperto di cammelli, il cui valore può incredibilmente variare dai 500 dirham per un cucciolo (circa 80 euro), agli oltre 10mila per gli esemplari da corsa. Prezzi d’occasione che costano ore di trattative di fronte a recinti sgangherati, immersi negli odori penetranti della fatica, eppur baciati dal sole dell’alba, che tinge di rosa gli slarghi sterrati su cui ci si accovaccia rosicchiando dolcissimi datteri, in attesa dei visitatori più previdenti. Dicono siano i migliori d’Arabia, forse perché raccolti con infinita pazienza nell’enorme palmeto al centro dell’oasi, verso cui la gente accorre per trovare rifugio dall’arsura, o per passeggiare semplicemente fra i sussurri delle frasche, osservando lo zampillio dell’acqua sorgiva lungo i canali che delimitano le singole proprietà.
I più audaci conoscono però altre vie. A una trentina di chilometri dall’oasi si leva infatti la più alta montagna di Abu Dhabi, Jabel Hafeet (1.180 metri), che offre una panoramica mozzafiato sino alle propaggini dell’Oman, aprendosi su un paesaggio d’aspri pinnacoli: un occhio imprenditoriale non poteva lasciarsi sfuggire l’occasione e qui è stato infatti inaugurato il lussuoso Mercure Grand Hotel, disegnato ispirandosi ai Giardini di Babilonia, con tanto di cascatelle e piscine refrigeranti. Già si vocifera che nei prossimi anni potrebbe prendere piede un progetto faraonico, che prevede di coprire 18 chilometri di montagna con un’avanguardistica struttura ermetica, creando in tal modo le condizioni ideali per il più grande impianto al chiuso di sci. A detta delle malelingue, un capriccio voluto dalle mogli degli sceicchi per poter vestire le pellicce comprate in Occidente.
Chi fosse in cerca di ristoro potrebbe in realtà bearsi delle calde fonti termali di Mubazzarah, le cui acque non solo vengono bevute per curare il peso degli anni, ma alimentano una vegetazione quasi alpina ai piedi dello Jabel, tant’è che al primo impatto ci si crede spesso vittime di un miraggio.
Eppure è l’intero territorio dell’oasi a conservare tesori incredibili: basta non lasciarsi abbagliare dai neon con cui emiri e sceicchi tentano di sedurre i forestieri. Il Forte Orientale non è che uno degli insigni esemplari delle decine di costruzioni difensive sparpagliate lungo la valle, costruito in mattoni di fango e difeso da possenti torri dalla merlatura simile ai denti di uno squalo: risalente al 1910, al suo interno ospita tende khaima e case barasti (ricavate dal legno di palma), in un percorso a ritroso sulle origini dalla civiltà beduina che affonda sino al terzo millennio avanti Cristo, grazie al ritrovamento delle tombe appartenute alla cultura bronzea di Umm al-Nar (di cui si possono visitare resti ad appena una decina di chilometri dall’oasi, nei pressi del parco archeologico di Hili). Accanto ai ben più antichi forti di Jaili (la casa madre degli sceicchi) o Al-Khandaq (visitabile senza bisogno di visto nella parte omanita dell’oasi), l’Orientale sorge sui resti delle stazioni un tempo dislocate lungo la via dell’incenso, attraverso cui Medio Oriente ed Mediterraneo venivano approvigionati della profumata gomma secreta dai rami di Boswellia.
La stessa che continua a conferire un aroma inebriante ai coloratissimi souk della cittadina, ma ancor più agli accampamenti sparpagliati nel deserto, dov’è possibile pernottare al termine di avventurosi safari su cammelli o a bordo di spericolati fuoristrada.
Lasciandosi alle spalle la riserva naturalistica di Al-Ain, dove vivono più di quattromila diverse specie all’interno di una superficie di quasi 850 ettari (fra cui la rarissima Orice d’Arabia, la gazzella del deserto), un oceano di dune cangianti si spalanca a perdita d’occhio.
Ed è proprio qui, lanciandosi in vertiginose acrobazie lungo i pendii del vento, che l’ebbrezza dei volteggi rivive nei balli illuminati dai fuochi di mezzanotte, nel sinuoso divincolarsi delle danzatrici del ventre, nel battito forsennato delle mani levate al cielo. Tra gorgheggi selvaggi e sguardi traboccanti desiderio, d’improvviso si fa spazio l’arcano anelito a lasciarsi rapire: a consegnarsi inermi nelle mani degli ultimi predoni, alle loro promesse di una vita spesa lungo stuoie impolverate, con la tenda sulle spalle e l’infinito nel cuore.

OASI GALLEGGIANTI

Anche se sulle carte geografiche appaiono indicati col suggestivo nome di “Desert islands” (www.desertislands.com), gli affioramenti al largo della Costa dei Pirati – nel Golfo Persico – sono meglio noti come “le otto oasi galleggianti”. Un appellativo che rende omaggio soprattutto ai due paradisi naturalistici di Sir Bani Yas e Dalma, cui sono associate altre sei minuscole “Discovery Islands”. Per raggiungerle s’impiega poco più di un’ora e mezza di autostrada da Abu Dhabi, più altri dieci minuti di nave, ma una volta in vista dell’arcipelago il paesaggio cambia repentinamente. Grazie alla loro posizione defilata, queste isole si sono infatti trasformate in un rifugio spontaneo per la fauna locale, ospitando antilopi, gazzelle, fenicotteri e milioni di uccelli migratori in fuga dai rigidi inverni europei. Il modo migliore per avvicinarsi agli stormi consiste nell’affitare un kayak, attraverso cui spingersi nelle foreste di mangrovie, o semplicemente dedicandosi ad un po’ di trekking sulle abbaglianti montagne di sale, qui plasmatesi in milioni d’anni. Dominatrice delle vette è l’Orice d’Arabia, reintrodotta dallo sceicco Zayed quand’era ormai in procinto di estinguersi sulla terra ferma, vittima del bracconaggio.
Considerata la delicatezza dell’ecosistema, il governo degli Emirati Arabi ha deciso di dare avvio ad un progetto di sviluppo sostenibile che, oltre a prevedere la creazione di resort “verdi”, a breve vedrà l’impiego di sole energie pulite, principalmente di origine eolica.

IL PARADISO DEI FALCHI
Com’è tradizione delle popolazioni nomadiche, anche i beduini non sono rimasti immuni al fascino aristocratico della falconeria, ovvero l’arte di allevare falchi per finalità di caccia. Anzi, fu proprio grazie all’espansione degli arabi nel Medioevo se tale pratica riuscì ad attecchire pure in Europa, dando vita in Italia ad alcune delle scuole d’addestramento più prestigiose: basti citare i sei trattati scritti in Puglia dall’imperatore Federico II di Svevia. Non è dunque un caso se, a capo della più importante struttura di allevamento e ricovero presente nella Penisola Arabica, sia proprio un veterinario tedesco. L’Abu Dhabi Falcon Hospital (www.falconhospital.com) è stato inaugurato nell’ottobre del 1999 e, ad oggi, ha visto passare per le sue cure oltre 24mila esemplari di falchi sagri e pellegrini; al contempo offre la possibilità di apprendere tecniche d’addestramento per la cattura delle prede, di riconoscere i segnali del volo, così come d’individuare le attrezzature più consone all’arte venatoria: dall’uso di guanti e bracciali Aylmeri, all’impiego delle pertiche da voliere o dei cappucci neri d’isolamento. Presso l’ospedale, che si trova a circa tre chilometri dall’aeroporto di Abu Dhabi, vengono inoltre cucinati tipici piatti beduini nelle folkloristiche majilis (mense arabe dove si mangia sdraiati per terra). Le visite possono durare dalle due alle tre ore, a seconda del tempo speso anche all’interno del museo locale, che ripercorre la storia della falconeria dalle sue origini mesopotamiche agli sviluppi paralleli delle tradizioni precolombiane.

COMBAT POP
Se oggi Nancy Ajram è la più famosa e seducente stella pop del mondo islamico, grande merito alla sua affermazione va riconosciuto proprio alle opportunità che le sono state concesse nei paesi del Golfo, in primis gli Emirati Arabi Uniti. Grazie alla politica liberale dei suoi sceicchi, più volte la giovane 20enne di origini libanesi ha qui potuto esibirsi in concerti “infuocati”, altrimenti boicottati nel resto del Medio Oriente con feroci polemiche.
A suo modo Nancy sta infatti portando avanti una rivoluzione non violenta, o se si preferisce una lotta d’emancipazione femminile, che raccoglie proseliti fra le donne di tutto il mondo arabo: canta senza velo, sperimenta irresistibili contaminazioni fra ritmi disco e musiche tradizionali (come testimoniato dalla prima pubblicazione del 2000, “Ya salam”, alla quarta e recente fatica “Ah wi nus”), sfrutta sul palco la propria bellezza fisica come arma politica, onde offrire al gentil sesso un esempio di valorizzazione del proprio ruolo in una società ancora fortemente maschilista. Memorabile, in tal senso, resta la sua performance del 7 giugno scorso al Music Festival di Abu Dhabi, dove si è esibita accanto all’altra icona maschile Assi Helani, ottenendo un enorme successo. Ben diverso da quanto capitò quattro anni fa nel più conservatore Egitto, il cui parlamento fu sul punto di promulgare un atto di deferimento, per via delle provocazioni lanciate accanto ad Enrique Iglesias nel 2004.

SAPORI ED OSPITALITA’

RISTORANTI

EDEN ROCK (AL-AIN)
Tel. +971 (0)3 783 8888
Collocato all’interno del prestigioso Mercure Grand Hotel, sulla cima di Jabel Hafeet, questo ristorante non offre solo un belvedere ineguagliabile, ma anche un ricchissimo buffet arabico a base di shwarma (carne tritata, riposta in un pane-pita aromatizzato con pomodori a fette ed aglio) e khuzi (agnello arrosto su un letto di riso speziato).

MIN ZAMAN (AL-AIN)
Tel. +971 (0)3 754 5111
Esibizioni di danza del ventre e shisha a volontà (pipa ad acqua) accompagnano una cucina di chiara impronta persica. Fra i piatti da non perdere, il makbus (involtino di carne e riso) e l’haires (agnello con cous cous).

AL KHAYAM (AL-AIN)
Tel. +971 (0)3 768 6666
Pur accentuando maggiormente le influenze della vicina cucina iraniana, i kebab del posto riescono a far apprezzare gli aromi più selvatici delle carni, benché la vera specialità sia l’Umm Ali (sorta di pudding a base di frutta secca).

ALBERGHI

AL-AIN ROTANA HOTEL
www.rotana.com
Tel. +971 3 754 5111, Fax +971 3 754 5444
Cinque stelle molto elegante, che conta 200 camere fra standard e suites, oltre ad ogni sorta d’impianto sportivo e per il benessere. Prezzi a partire da 100 euro per persona.


HILTON AL-AIN
www.hilton.com
Tel. +971 3 768 6666, Fax +971 3 768 6888
Offre 202 stanze, fra cui 131 camere standard e 22 suites, cui si aggiungono 49 chalets situati in un palmeto. Si trova infatti a ridosso dell’oasi verde della città. Prezzi a partire da 100/110 euro a persona.

MERCURE GRAND JEBEL HAFEET
www.mercure.com
Tel. +971 3 783 8888, Fax +971 3 783 9000
Vanta 115 stanze di moderno design, quasi tutte con vista spettacolare sulla vallata al confine con l’Oman. Rinomato il suo complesso di piscine a salti. Prezzi a partire da 150 euro a persona.