"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

giovedì 31 agosto 2006

TRANSINDIANA 2006/2



A proposito di amore e Russia (sull’Ilyuschin per Mosca)

- ritorno alla prima pagina -



Occhi alle pareti adagiati

che il passo interrogano

e un fugace sogno lambiscono.



Occhi al passo rubati,

che in un sorriso la primavera invitano

e di sospiri tramontano.



Occhi che più non sorridono

a fianco delle vuota porta

oltre la quale non è più casa



Sono tutti occhi azzurri

Liquida memoria di placenta

in cui il mio cordone ancor si culla e non si stacca.



Come madre, anelante e premurosa,

sul cammino mio tu vegli

oh amata Russia.

TRANSINDIANA 2006/1



SMOTTAMENTI DI UN MANCATO YOGI

"O hidden life, vibrant in every atom! O hidden light, shining in every creature! O hidden love, embracing all in oneness! May all who feel themselves as one with thee, know they are therefore one with every other” (Annie Besant)


03.08.06, h. 21.59 – due metri sopra il cesso, treno Agra-Varanasi.

Agra tiene fede al suo nome. E’ più acre che dolce. Per assaporarne lo spirito che fu occorre uno sforzo estatico, o forse un salubre conato, che ci rigetti lontano dai suoi esofagi pedanti, dalla nouvelle cousine del Taj Mahal, esattamente come dal suo tronfio forte arrostito in vino rosso. Scorie indigeste di un piatto già gustato troppe volte.

Tutta colpa della sua esotica bellezza, che fa prigionieri del deja vu, instillando l’inquietante dubbio di esser stati qui in un tempo lontano e dimenticato: è una sorta di maledizione che avvelena questa “lacrima piovuta sul volto dell’eternità”, come arguì il buon Tagore. Non si spiegherebbe altrimenti l’ambiguità del fastoso palazzo di Shan Jahan, trasformatosi in dorata cella per otto anni, allorché il figlio Aurangzeb prese il potere nel 1658.

Agra è allora e soprattutto il paradosso dell’India intera: invita ad uscire nel dentro, a travalicare un limite chiuso su se stesso. Perché solo nell’ansa delle mangrovie, oltre la calca urbana, rivive il dolore dal quale venne attanagliato l’inconsolabile Mogul prigioniero, nel lutto di una sposa onorata ben 14 volte. Non una parola, non una preghiera: solo la distaccata contemplazione di quella tomba che si crede bianca come il riscatto. Quale elefantiaco errore!

Nel celebrare la via al cielo, ghermito a terra dagli specchi delle fontane, neppure ci si accorge della disperata cerca del pescatore, che riempie di lacrime il fiume Yamuna perché la moneta della città gli ha rifiutato il pane quotidiano.

A nulla servono infatti i ghirigori di ametista e turchese: il pallore del marmo è più inscalfibile del rigor mortis. Bisogna patteggiare con la sporcizia per capire da dove si viene e per vestire i corpi della familiarità del tempo. Solo allora potremo alzare le spalle alla nostalgia di un desiderio mancato e gridare senza tema: India! India! India! Ci siamo stati tutti…

05.08.06, h. 4.37 – su un risciò in affanno, Varanasi.

Api Piaggio per strada, vacche sui marciapiedi, scimmie nei templi. Più che una sacra culla di pellegrinaggio, Varanasi pare un bestiario a cielo aperto, nel quale ogni classificazione riesce però impossibile. Non si dà alcun regno di Dio e neppure della bestia, bensì un ibrido che tende agli estremi attraverso l’esasperazione della libertà di culto. Ognuno è in cerca della propria via, sicché i vicoli della città sono diventati intrecci più fini dei sari colorati, lungo i quali togliersi le scarpe per onorare una testa di elefante equivale a far pipì su una roccia, che poi si scopre essere un test per sondare la capacità dello yogi di raggiungere lo stato del samadhi. Fortuna che il Gange, nel suo grigiore teoretico, si porta via tutto, come una grande fogna che ripulisce dagli escrementi delle strade e dalle feci del peccato: è un fiume che non respira, ma non certo perché dedito alle pratiche del pranayama; semplicemente trattiene il fiato sino a diventare cianotico, dovendo sorbirsi cadaveri galleggianti graziati dal morso di Shiva o ceneri di vite andate in fumo sui ghat ricostruiti. Ecco il grande paradosso hindù: lasciarsi alle spalle le scorie del passato senza preoccuparsi della loro biodegradabilità; ci si affida al ciclo delle reincarnazioni come ad una spazzatrice del governo, nell’illusione che un voto possa cancellare l’indelebile. Ma non c’è nulla da fare: sia che si accendano torce nella notte danzando su flutti arancioni, sia che ci si affidi alla mano salvifica dello straniero, le acque della metempsicosi restituiscono sempre quanto non è gradito.

07.08.06, h. 15.47 - al posto di un’apsara, Khajuraho

Sino all’ultima rupia. Sarà la presenza di corpi nudi ed esposti, sarà il gusto manierista del tantrico, o la preziosità del sito – insofferente alle autostrade del turismo – ma Kahjuraho resta in odore di prostituzione. Nulla a che vedere con il finto sdegno degli ufficiali vittoriani, che qui arrossirono nel 1838: il sesso in vetrina è pur sempre sterilizzato. Ma quando le sue provocazioni si celano per strada, parlando la lingua dell’ospitalità, allora viene il momento di chiedersi se non sia forse il caso d’infilarsi un paio di mutande di ghisa: quando il desiderio si fa pietra, imprigionato dai pur agili scalpelli Chandela, è difficile non immaginare quanto duro possa essere il tributo alla fiducia nostrana. Siamo tutti un po’ apsara nelle terre dell’altrove: danzatrici rapite dalla poesia dell’abbandono e, al contempo, prede di appetiti malcelati. Desiderosi di credere nel potere soteriologico dell’arte, ma irrimediabilmente condannati al baratto della parola. Non c’è da stupirsi se l’armonia del richiamo sia stata qui infranta dalla disseminazione, che ha schizzato gocce di vita ai quattro angoli della città, lasciando 25 orme di un balletto ben più complesso. Perduta è la lezione del maithuna: l’unione mistica tanto sbandierata sui templi porta solo all’eccesso di sé, dimentica della ritenzione che regala a Shiva e Çakti lo stesso sorriso, in costante tensione verso l’orgasmo nullificante. Meglio che la progenie d’oggi vada a spegnere i propri bollori borghesi sotto le cascate di Raneh: appena 30 chilometri dal luogo del misfatto, ma anni luce lontane dalla corruzione di un nobile seme.

10.08.06, h. 19.21 – sulla branda del degente, Sanchi-Bimbetka

Giù la testa. Agli stupa di Sanchi si accede solo da penitenti, dopo aver bruciato di febbre gialla, deposto l’orgoglio del conquistatore e con le tasche completamente vuote. Ashoka lo pretende, affinché oggi si ripercorrano i suoi stessi passi, si apprezzi col cuore in mano il frutto della sua dedizione da killer rammollito, ma non abbastanza da rinunciare al piacere insano dell’ordinanza, ripetuta dal Gajurat al Karnatka con un proselitismo sin troppo saccente. Come aspettarsi altro, quando si è figli di quella stessa coercizione bellica che riaffiora in un profluvio sedentario di mattoni, archi e ruote del Dharma?

Qui sta il peccato dei seguaci di Buddha: usano le pietre come parole, convinti di toccare le lacrime del dolore, mentre non fanno altro che erigere chiese sempre più sorde. A che serve leggere parabole ed interrogativi scolpiti più di 2.500 anni fa, quando si è analfabeti di fronte all’oggi? Perché girare attorno alle 4 porte del Samsara su una collina senz’occhi, quando è la polvere del cammino che disegna la via?

Non pago, il vecchio sovrano spedì persino il figlio dallo sguardo ceruleo alle piantagioni del vizio delle cinque. Ma come i monasteri tradiscono il pagano autocompiacimento del fedele, così il verbo straniero parla solo con le labbra: a Kunala venne cavata la sua cerulea bellezza per ordine della passione offesa, Sanchi fu dimenticata alla stregua di un capo demodé.

E’ il destino delle monadi, senza accessi e finestre: impermeabili all’altro, metastasi del sé, sono le tombe della fiamma prometeica e scompaiono piano piano nel proprio egoismo. Eppure non c’è “Grande Veicolo” che tenga. I conti si fanno sempre con se stessi, anche se la soluzione sta sotto il naso. Bastino i petroglifi di Bimbetka: vacche bianche al pascolo, cacciatori dagli archi di fuoco, immagini vecchie di diecimila anni, ma sagge quanto il nomade irrequieto. Perché la discesa nel ventre della terra partorisce sempre e solo la stessa verità: chi si ferma è perduto.

13.08.06, h. 11.59 – un gargouille di troppo, Ellora

E’ distante. Troppo distante. Ma non diamo la colpa a qualche premuroso pendolare, che nel consigliare il mezzo migliore per accedere ad Ellora, ti condanna al forte fagocitato di Aurangabad. Il malinteso è germinato secoli fa negli herpes delle lingue, che qui hanno onorato in modo promiscuo dei Hindù, mignoli di Buddha e peni di Jain. Ma la tolleranza è sempre figlia di Babilonia e, che siano una o trentaquattro, le cave dei monaci non ripetono altro se non l’incomprensibile. E’ vero, cercano di parlare per immagini e teste di bue, alludono per simboli ed Om, donano otto braccia a Vishnu e allungano i lobi al Mahatma, sino a rigettare le vesti dell’ambiguo nel nudo più impudico, ma la loro verità è ancora altro. O forse altrove. Di certo non in questo mondo, che ne disegna infiniti altri nella malleabilità del granito, benché il granito resti al di là di ogni possibile forma e ben oltre duecentomila tonnellate di detriti, rimossi nel tentativo di ricreare la casa di Shiva attraverso il tempio di Kailasa. Cocciuto, se ne infischia della sabbia delle clessidre ed è incapace di adeguarsi ai cambi di stagione.
Ellora non va svenduta come collezione d’eremi, perché qui alberga l’ancestrale mistero del cavo, dimentico della rassicurante tattilità della superficie, pronto a calare in un abisso senza suoni e senza colori, nel buio di un vuoto che risucchia verso l’imponderabile. Sarà per questo che chi ne ha toccato il fondo, è poi riemerso con in bocca una parola che vale ogni senso: Shamballah!

15.08.06, h. 16.01 – in attesa di una carrozza Telugu, Hampi

I morti vanno lasciati in pace, per essere ricordati. Ma ad Hampi pare proprio che la gente si diverta a danzare sui cadaveri di un impero, a posare accanto alle sue membra perfettamente conservate, ma ormai incapaci di scalciare l’invasore della valle accanto.
A furia di commerciare cumino e peperoncini verdi, la vecchia Vjayanagar si è disidratata sino all’aridità spirituale, lasciando i suoi templi preda di mercanti di fiori ed assonnati perdigiorno. Ma quando la notte e i monsoni portano refrigerio, ecco che le vene della capitale si gonfiano insieme alle sue rapide: via tutti! Battono i piedi le strade lastricate, urlano le colonne logorroiche: che qui si aggiri solo chi del sacro è degno! Un cobra di Krishna o un coccodrillo votivo, fa lo stesso. Sono loro i veri abitanti della città, quelli che si sorprendono di ritrovarsi scolpiti sulle lapidi degli estinti e che custodiscono i più intimi segreti della polvere.
Ma in fondo, di che preoccuparsi? Guardate la carrozza di Gamda: fa salire chiunque, eppur non muove più un passo. Forse perché ha raggiunto muta e silenziosa il sadhami tanto anelato dagli yogin: indifferente al mondo, posa senza scomporsi, è lì e altrove, si mostra ma non c’è più. Hampi è il miraggio della gloria. Qualcosa che pensi di aver raggiunto, nel momento stesso in cui ti sfugge.

17.08.06, h. 13.53 - vasca delle lacrime solitarie, Badami

Uno, due, tre ed eccolo qui! Neppure il tempo di allungare il passo ed il passante della provvidenza è già in agguato, pronto a guidarti nelle gole di Badami, esattamente come nelle fauci di qualche succhia rupie a tre ruote. E’ umile, ma sceglie lui cosa farti vedere; ti lascia tempo, ma guarda l’orologio, perché già pensa a quanto le rovine delle sue genti possano fruttare al suo sfacelo.
Peccato che la stessa dedizione non sia spesa per liberare i torrioni Chalkya dalle spoglie dei parassiti qui riparatisi per secoli; e che rabbia non poter accedere ai talami della dolomia, per via di chi non vide più la luce in fondo ai suoi tunnel, ma solo la disperazione che affretta il Nirvana. Tutta colpa di quei monaci misantropi che passarono la vita a scavarsi la tomba, ad illudersi con epifanie rubate alla polvere dei loculi. Ieratica sino alla paralisi, eternamente sospesa su acque artificiali, Badami non uscirà mai dai suoi vicoli ciechi, sarà per sempre il muto sigillo del Deccan. Parla come il mantra che risuona fra i suoi lavatoi o la nenia che avvolge il mercato senza stranieri: brusio confuso di epoche remote, incapaci di ascoltarsi e dal sapore stantio. Spiega, ma non sa cosa dice. E’ vuota dentro, come se i suoi anfratti fossero in realtà cibo per tarli che hanno smarrito ogni via d’uscita, a causa della loro ingordigia. Si divora dall’interno, aspettando la liberazione promessa dai suoi Buddha: venir dimenticata.

22.08.06, h. 17.52 – panchina rosa, Kollam

Nell’ora del risveglio ayurvedico i cieli sbiadiscono rarefatti, liberano neri solchi nelle loro spirali alate e fissano sguardi pallidi su orizzonti senza pupille.
Nell’ora del verbo karmico i suoni si chiudono su se stessi e conoscono solo il sipario dell’ermetico, che ripete e ripete ancora: finalmente! Oh sì, ambigua parola che invocando la fine attesa, voluta e trovata, non accordi alcun termine, ma di esso fai lo specchio del desiderio. Perché a Kollam il cerchio si chiude seguendo il tondo profilo del lago Ashtamudi, pur celandosi al saggio mancato.
Non avendo trovato alcun ekagrata su cui fissare la costruzione del sé, non restano che immagini sconnesse di canali dove pazienti Parche intrecciano fili di cocco, muti intagliatori stendono tappeti cavi per sbirciare l’oltretomba e di traghettatori d’anime prigionieri delle proprie reti.
Le backwaters sono un intermondo invalicabile, dove il rito quotidiano si perpetua come un’allucinazione labirintica: qui la vita e la morte si guardano in faccia come il pescatore e il serpente lacustre, reciproci dispensatori di reincarnazioni fittizie. Se c’è una via per riaprire gli occhi dell’infante, questa è nelle mani stesse dell’uomo, capaci di sciogliere i limiti della forma, di animare il brivido primigenio, di ungere l’Eletto assopito sino al dischiudersi della sua nuova crisalide.

24.08.06, h. 17.43, in memoria di un rickshaw giallo, Chennai

Niente da fare. Seduce e non si dona. Chennai è la più femminea delle città indiane, già per il semplice fatto di vestire un nome non suo, celando l’anima di una locandiera in trepidante attesa per il ritorno dei marinai portoghesi.
Quante promesse strappa, quanti sogni evoca, ma alla fine Mme Blatavsky non abita più qui, né le danze Baharata Natyam sono sollazzo per il primo belloccio. Bisogna avvicinarsi poco per volta a questa falsa isterica, aspettare che secchi il suo pesante trucco monsonico, le cui spoglie riempiono i vicoli di sacchetti multicolore, e che si spengano le luci della ribalta dietro tendopoli da marciapiede.
Solo allora calerà la maschera di prima donna, che a ben altre Indie spetta, per lasciar affiorare la timidezza di un collegio rosa, pronto però a solcare il teatro del mondo; solo allora scioglierà il severo cipiglio dei teosofi in fuga, per aprire a chiunque i cancelli di un nuovo giardino del vero.
Quando s’incrociano i suoi occhi senza mascara, non c’è ritrosia che tenga: ogni tempio diviene il tuo tempio, perché in esso è il cosmo intero a reggersi di divinità in divinità; ogni ritiro è il tuo ritiro, perché non c’è fede più alta che per l’uomo capace di leggere il segreto di un amore…