"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

domenica 29 giugno 2008

LA PIANTA DELL’OBLIO




O troppo, o nulla. Quando si ha a che fare con i grandi personaggi della storia, le mezze misure non contano. Tale è il caso di Gaetano Osculati, forse il più grande esploratore geobotanico che l’Italia abbia avuto nell’Ottocento, incredibilmente dimenticato per anni persino dai suoi stessi concittadini di Biassono, pittoresco borgo della bassa Brianza. Grazie all’impegno del Gruppo ricerche archeostoriche del Lambro, le sue gesta sono però tornate d’attualità, a tal punto che ben tre Comuni – Biassono, Vedano al Lambro e Monza – se ne sono recentemente contesi i natali a colpi di documenti ingialliti, pur di celebrare il bicentenario della sua nascita.
Le ultime ricerche lo legano indissolubilmente ad una vetusta casa conservatasi nella frazione biassonese di San Giorgio, dove appunto nacque il 25 ottobre del 1808, venendo tuttavia iscritto nei registri della parrocchia di Vedano al Lambro (allora competente su un territorio più esteso rispetto agli effettivi confini comunali). Poiché il futuro avventuriero trascorse lunghi periodi della sua vita a Monza, assai più nota dei suoi vicini, qualcuno pensato invece di “naturalizzarlo” post mortem quale figlio prediletto della città di Teodolinda.

Ovunque si voglia far ricadere la scelta finale, Osculati – primogenito di undici figli che il padre Gerolamo mise al mondo in due differenti matrimoni - risponderebbe ancor oggi a suo modo: alzando le spalle e guardando un po’ più in là. Compiuti i primi studi presso i Barnabiti di Rho, fece giusto in tempo ad avvicinarsi alla facoltà di medicina, per abbandonarla quasi subito a favore della matematica, delle scienze naturali e nautiche, discipline che gli valsero il grado di capitano di lungo corso a Livorno. Di fatto, un lasciapassare per i mari di mezzo mondo, verso cui si spinse già dall’età di 23 anni, onde sottrarsi alla provincialità dell’Italia risorgimentale, così come per assecondare i suoi interessi botanici. Per quanto il Sudamerica fosse diventato nel tempo la sua terra d’elezione, guadagnandogli l’appellativo di “Marco Polo del Brasile”, viaggiò in lungo e in largo senza mai mettere veramente radici.
Prima che in Amazzonia scoprisse le incredibili virtù farmacologiche del chinino e della cicona, potenti antimalarici di cui i saccenti Positivisti del periodo pensarono di fare a meno sin quasi ai nostri giorni, fu però l’Oriente a tenerlo a lungo avvinto.

IN CERCA DI “ERBE E RUINE”
Le prime esperienze di Osculati maturarono infatti nei deserti dell’Egitto e dell’Arabia, nella Siria e nell’Asia Minore, dove si recò nel 1831; tre anni dopo, appena tornato dal Levante, partì subito alla volta dell’America Latina e, nel 1836, ultimata la navigazione su un bricco francese, giunse a Montevideo. Di là, in carovana, superato l’altipiano dell’Uruguay infestato da nembi di zanzare e formiche volanti, giunse a Buenos Aires. Trascorse due mesi nella capitale argentina, spingendosi nelle semideserte Pampas per raggiungere l’altipiano di San Luis, punto attraverso il quale era possibile valicare la cordigliera delle Ande.
“I nemici erano pericolosi – ricorda lui stesso nelle sue memorie – tutti a cavallo, nudi i più, e con la lunga chioma, armati di smisurate lance di bolas, di lazos e di bastoni con cuspidi di ferro: e dietro di loro era una turba di donne, colle tende e coi fanciulli”.
Passato Valparaiso, s’imbarcò per il Perù, nella segreta speranza di trovare sul lido di Huacas qualche reliquia dei tempi di Pizarro: per lo più ossa e cadaveri “conservati assai meglio delle mummie ch’io aveva visto dissotterrare nell’Egitto tra le ruine di Menfi”.
Spintosi all’interno, Osculati dovette retrocedere per via della rivoluzione lì in corso, ma venne fatto prigioniero a Lima fino alla sua conclusione. Fatta allora vela verso l’Europa, cercò di ricominciare una vita di vocazione più borghese, ma l’insofferenza tipica del viaggiatore tornò a scalpitare presto in petto. Già nel 1841 partiva infatti col concittadino Felice De Vecchi per visitare la Persia e l’India.
Da Vienna, per la via fluviale del Danubio, si portarono a Costantinopoli e quindi a Tresibonda, costeggiando il Mar Nero. Seguendo una carovaniera trovarono Erzerun, in Persia, colpita dalla peste; passarono allora ai piedi dell’Ararat, monte su cui si posò la biblica arca di Noè, toccando il grande lago salato di Urma, poi Trebiz, dove invece scoprirono bizzarri concittadini impegnati in compiti sanitari. A Teheran si unirono ad altre carovane, onde proteggersi dai briganti, per approdare sul Golfo Persico bruciati dai venti. Con una nave francese si portano infine a Mascate, capitale dell’Oman, di dove su una sgangherata imbarcazione araba partirono alla volta di Bombay.
La traversata dell’Oceano Indiano fu disastrosa: falle continue, rese ancor più insidiose dalla rottura del timone che, con la bufera imperversante, pose la nave in balia delle onde. La ciurma in preda allo spavento lasciò le pompe e si mise a pregare Allah e Maometto; allora l’Osculati e il De Vecchi si avventarono sul capitano imponendo di far tornare gli arabi alle pompe, con la promessa di regali e la dispensa di pane e biscotti. Giunti finalmente nella grande città indiana, vennero ospitati con cordialità nella villa di un capitano inglese, e dopo aver visitato a lungo la zona di Bombay, partirono per Suez. Raggiunta Alessandria, s’imbarcarono per il ritorno toccando la Grecia, Ancona e Trieste.
“Appena reduce da quelle remote regioni d’Oriente – tentò di giustificarsi ai posteri – schivo di poltrire in ozio per me letale, mi decisi ad intraprendere il viaggio di circumnavigazione, nell’intenzione di percorrere le province dell’Indostan…per quindi perlustrare quegli arcipelaghi della Polinesia che ancor lasciano tanto a desiderare al geografo e al naturalista…”.
Non andò troppo lontano. La sua nave si incendiò appena raggiunto l’Atlantico, per lasciarlo “solo e quasi spoglio delle principali risorse”. Senza perdersi di coraggio prese allora un’altra imbarcazione per New York, e dopo aver visitato gli Stati Uniti ed il Canada, già stava per effettuare il progettato viaggio nell’Occidente, quando una forte burrasca spazzò di nuovo via parte del carico e gli avariò il rimanente.

LA TERRA FATALE
Cambiò allora idea e decise di attraversare l’istmo di Panama per raggiungere Quito, la capitale dell’Equador, in vista del fiume Napo, che avrebbe percorso dalle sorgenti alla foce nel Rio delle Amazzoni, per inoltrarsi poi nel cuore del continente e sbucare sull’Oceano Atlantico.
“Ardita, anzi temeraria impresa, superiore di troppo alle forze dell’individuo, perché oltre che l’esplorazione di regioni inospiti e quasi del tutto sconosciute, si dovevano incontrare tribù indiane ritenute tra le più crudeli e selvagge, sempre in guerra tra loro, aborrenti da qualsiasi arte della civiltà, date alcune all’antropofagia, celebri soltanto nella scienza di filtrare veleni e di massacrare nemici”.
Nonostante queste traversie, Osculati riuscì a portare a termine la sua più grande impresa, “nutrendosi di frutta e carni di tapiri e di scimmie appena rosolate”, ma soprattutto rilevando un fenomeno che avrebbe potuto cambiare il corso della storia.
Durante il suo terzo viaggio in Sudamerica si era infatti imbattuto in una zona miracolosamente indenne dalla malaria: dopo aver compiuto numerosi rilievi geografici, geologici, fisiografici e botanici (annotando fra l’altro la piaga del commercio fraudolento di alcune piante officinali), iniziò ad interessarsi sempre più della salsapariglia e del chinino, raccolte nella fetta di foresta al confine fra Perù, Equador e Brasile.
Come ha precisato l’esperto di botanica Francesco Bubbico, “con il termine salsapariglia si indica la radice di alcune specie del genere Smilax; piante rampicanti monocotiledoni delle Liliacee, tipiche delle regioni paludose centro-sudamericane. Sono caratterizzate da piccole foglie spicciolate, simili a quelle dei dicotiledoni più evoluti, con margine intero e nervature reticolate. I loro fiori sbocciano in piccole infiorescenze ascellari, mentre il frutto generato è una bacca. Di queste piante la parte più preziosa è rappresentata in realtà dalle radici, che polverizzate liberano diverse sostanze saponine (smilasaponina, sarsasaponina e parillina), venendo spesso bollite per ottenere un estratto depurativo per il sangue (impossibile da ricavare attraverso l’analoga specie mediterranea della Smilax aspera, priva di principi attivi)”.
Per quanto riguarda la Chincona, si tratta invece della pianta utilizzata per ottenere le cortecce di china. Ha foglie opposte, brevemente spicciolate, con una corteccia arrotolata di spessore compreso fra i 4 ed i 9 millimetri, nonché un profumo debolmente aromatico. Al suo interno si trovano diversi alcaloidi (di cui la chinina ne è appunto uno), preziosissimi per la cura della malaria. Non a caso il nome Chinchona viene da quello della Contessa di Cinchon, moglie del viceré del Perù, guarita dalla malaria grazie probabilmente alle polveri della corteccia di questa pianta. Sorte vuole che solo essa abbia trovato fortuna in Europa sin dal 1639, venendo apprezzata come “polvere della Contessa” o “polvere dei Gesuiti” (suoi principali divulgatori).
Gli studi di Osculati avevano perciò individuato un’alternativa efficace per spezzare il monopolio del chinino, rifacendosi all’utilizzo di una pianta apprezzata da secoli dalle popolazioni indigene dell’area del Rio Napo, sotto il nome di Yaual Chunca.
Nonostante la pubblicazione di un testo miliare come le “Esplorazioni delle regioni equatoriali” del 1854 (di cui si conserva una copia autografata proprio nel museo civico di Biassono), il mondo della botanica e della medicina snobbò completamente il suo contributo.
Ancor più amari furono però gli anni.a venire.
Del suo ultimo viaggio del 1857, quello nell’Indostan e nella Cina, non si è neppur conservata alcuna testimonianza scritta: a causa del disordine dell’editore milanese che ne avrebbe dovuto curare la pubblicazione, il testo originale andò infatti perduto.
La scomparsa dell’esploratore, giunta di lì a breve, non rese così giustizia alla modestia di un uomo che girò per il mondo senza alcuna sovvenzione pubblica o privata: spentosi a Milano il 14 marzo 1894, si vide persino misconosciuta dal Bollettino della Società Geografica italiana del 1881 la priorità della scoperta del Rio Napo, attribuita invece ad un francese (nonostante solo un anno prima l’Imperatore del Brasile si fosse compiaciuto con l’esploratore delle “sue terre”). Per fortuna ci pensò Re Umberto I a lenire l’amarezza del povero Osculati, conferendogli la croce di Cavaliere dell’Ordine Mauriziano, molto prima che Milano e Biassono gli dedicassero rispettivamente una via.

“Ed infine citeremo quest’aneddoto; – ha ricordato Luigi Viganò, curatore di un articolo a lui dedicato sull’antica rivista “Brianza” – l’Osculati, sbarcato a Venezia e ricoverato al Lazzaretto in quarantena, perché proveniente dal Lavante (regione infetta da peste orientale), venne alloggiato in un sudicio ed umido ripostiglio, senza un giaciglio. Lo stambugio dava sopra un cortile isolato a ridosso della camera mortuaria, dove trovavasi in deposito il furgone, verniciato in catrame, decorato di teschi e tibie, adibito all’estremo trasporto. All’Osculati balenò subito l’idea di servirsene per fusto da letto, e approfittando dell’assenza del guardiano, tirò lestamente il carro nella sua stanza (veicolo che pochi giorni prima aveva trasportato gli appestati), vi pose senza complimenti il suo stramazzo e vi si cacciò dentro fumando allegramente”.


Il gesto provocatorio costò all’Osculati quasi una denuncia per trasgressione ai regolamenti sanitari, ma la sua giustificazione concluse lo screzio in una burla. Proprio la stessa sorte che il destino pare avergli poi inflitto.


domenica 15 giugno 2008

LA RIGA NELLA SABBIA



Un minuto. Almeno un minuto di silenzio. Non appena il finestrino della Toyota 4x4 si frappone con ermetica intransigenza fra visi sconvolti e torridi sbadigli di calore, non resta che il lamento ondivago del muhezzin. Clacson nevrotici, urla beduine, fruscii di veli ancheggianti, improvvisamente ammutoliscono dietro l’unica cupola di cristallo concessa a chi non vanta sufficienti petroldollari per dirsi sceicco. Sarà l’aria condizionata a ridare ossigeno alla fantasia, così a lungo mortificata dalle acrobrazie di grattacieli che paiono figli di un mare agitato, o forse la pulizia morale di uno sguardo ormai cieco, ma cinquant’anni di magnifiche e progressive sorti degli Emirati Arabi Uniti si rivelano per magia una semplice bolla di sapone.
Nelle note profonde e melanconiche di quel canto remoto, proveniente da uno dei mille minareti che cercano inutilmente di rivaleggiare con la mastodontica moschea Zayed - orgoglio della capitale - vibra il segreto sdegno di un popolo rimasto prigioniero dei sogni d’Occidente. Scabra, rude, eppur dannatamente poetica, la voce dell’infinita preghiera porta con sé il vuoto delle dune costrette ai margini della civilità, il profumo di mirra bruciata sotto cieli stellati, l’aroma della menta che si libera sorseggiando un tè bollente. Ha vagato per chilometri e chilometri, disegnando spirali attorno alle oasi di Liwa ed Al-Ain, blandendo confini sauditi ed aspre rocce omanite, riemergendo da pozzi prodighi di vita per incanalarsi lungo falaj serpeggianti, nunzi d’acque cristalline che dissetano in egual misura agricoltori e palme da datteri, il più prezioso tesoro delle tribù senza pretese. E fra loro di nuovo conduce, chi al suo canto sa prestare orecchio.
Ma non inganni l’aspetto. Questi beduini altri non sono che gli astuti discendenti dei Bani Yas, pronti a scaricare sui vicini Qawassim l’onere d’improvvisarsi pirati sulle coste concupite da Sua Maestà d’Inghilterra, per poi trovare un ben più vantaggioso accordo con gli stranieri dai volti slavati. Beduini è un nome che sta loro addirittura stretto, avendo abdicato da tempo al proprio statuto di nomadi, preferendo la certezza degli orti stanziali al sudore delle carovane in cammino, così come i confortevoli appartamenti di città alle nere tende di vello di capra, le leggendarie beit ash sha’ar: lussuosi rifugi dall’arsura del deserto, che accolgono fra tappeti scarlatti e soffici cuscini rigorosamente decorati con motivi geometrici, teiere in ottone e bracieri intarsiati.
Le hanno ridotte a pezzi da museo, proprio come quelli esposti nel Forte Orientale di Al-Ain, oasi un tempo raggiungibile da Abu Dabi dopo cinque giorni a dorso di cammello, oggi ad appena un’ora e mezza di fuoristrada.
Tagliata in due dal confine col Sultanato d’Oman, pronto a ribattezzare la propria metà col nome di Buraimi, incarna forse il più emblematico paradosso scaturito dalla meticolosità dei righelli coloniali inglesi: prima di lasciare quest’appendice di golfo nel 1971, furono loro a percorrere in lungo e in largo l’intero territorio arabico, volendo sondare a quali emiri le tribù locali riconoscessero la propria fedeltà. Storicamente riottosi e pronti ad inusitati voltafaccia, gli abitanti di Al-Ain non fecero eccezione, preferendo una soluzione di compromesso con i massimi produttori di franchincenso, piuttosto che lasciarsi fagocitare dagli appetiti egemonici dei vicini Sauditi.
Prevedibile in fondo una difesa tanto accanita della propria indipendenza, visto che l’oasi ha dato i natali al padre dell’attuale presidente degli Emirati, il compianto sceicco Zayed bin Sultan Al Nahyan, vinto dall’ardito sogno di trasformare Al-Ain in un’amena città verdeggiante, prima di ascendere al cielo nell’ormai lontano 2004. Lontano, sì: perché qui gli anni possiedono un loro peculiare metro di misura e quel che in Europa può richiedere secoli d’evoluzione, negli Emirati prende forma in lustri luce. Erigere flessuose torri di cristallo o trasformare la sabbia in erbetta fine sono sempre state bazzecole per menti illuminate come Zayed, che, trasferitosi sulla costa dopo la scoperta del petrolio nei ‘60, seppe fare di un villaggio di pescatori di perle un inno alla verticalità pensile babilonese. Tant’è che il nome solo della capitale custodisce oggi la memoria di quell’eden un tempo orgogliosamente definito il “Padre delle Gazzelle”: Abu Dhabi appunto.
Là un crocevia di etnie e tecnologie ha dato origine ad un’avanguardistica Utòpia. Ad Al-Ain passato e futuro si guardano ancora in faccia, invitando ogni giorno ad un duro esame di coscienza.
Se un tempo le donne restavano rigorosamente confinate nell’haram, lo spazio proibito delle cosidette “case di pelo”, e ai soli uomini veniva concesso di trattenersi a colloquio all’ingresso delle beit, oggi li si vede anche passeggiare fianco a fianco all’interno di sfavillanti mall, in cerca dello sguardo fatale che farà scoccare la scintilla. L’unico segno che si possa cogliere senza ambiguità, visto che i corpi femminili si mostrano avvolti solo in leggiadri veli, da cui, di tanto in tanto, fanno capolino sottili dita decorate di henné o splendidi gioielli d’argento: ciondoli triangolari in cui sono incastonate pietre rosse e blu (Qiladah), braccialetti intarsiati come pizzi (Banager), o addirittura rarissime catene intrecciate, lasciate cadere sulle spalle con invitante tintinnio (Ilagah). Ultimi bagliori di una tradizione artigianale che, accanto alla tessitura domestica, resiste al tempo ed incanta con la stessa grazia di un Nabati, vernacolo poetico caro alle notti di luna piena, durante le quali vengono decantate le virtù delle proprie genti e gli amori consegnati alle sabbie.
A differenza di quanto accaduto nel resto degli Emirati, ad Al-Ain si è preservato anche l’ultimo grande mercato all’aperto di cammelli, il cui valore può incredibilmente variare dai 500 dirham per un cucciolo (circa 80 euro), agli oltre 10mila per gli esemplari da corsa. Prezzi d’occasione che costano ore di trattative di fronte a recinti sgangherati, immersi negli odori penetranti della fatica, eppur baciati dal sole dell’alba, che tinge di rosa gli slarghi sterrati su cui ci si accovaccia rosicchiando dolcissimi datteri, in attesa dei visitatori più previdenti. Dicono siano i migliori d’Arabia, forse perché raccolti con infinita pazienza nell’enorme palmeto al centro dell’oasi, verso cui la gente accorre per trovare rifugio dall’arsura, o per passeggiare semplicemente fra i sussurri delle frasche, osservando lo zampillio dell’acqua sorgiva lungo i canali che delimitano le singole proprietà.
I più audaci conoscono però altre vie. A una trentina di chilometri dall’oasi si leva infatti la più alta montagna di Abu Dhabi, Jabel Hafeet (1.180 metri), che offre una panoramica mozzafiato sino alle propaggini dell’Oman, aprendosi su un paesaggio d’aspri pinnacoli: un occhio imprenditoriale non poteva lasciarsi sfuggire l’occasione e qui è stato infatti inaugurato il lussuoso Mercure Grand Hotel, disegnato ispirandosi ai Giardini di Babilonia, con tanto di cascatelle e piscine refrigeranti. Già si vocifera che nei prossimi anni potrebbe prendere piede un progetto faraonico, che prevede di coprire 18 chilometri di montagna con un’avanguardistica struttura ermetica, creando in tal modo le condizioni ideali per il più grande impianto al chiuso di sci. A detta delle malelingue, un capriccio voluto dalle mogli degli sceicchi per poter vestire le pellicce comprate in Occidente.
Chi fosse in cerca di ristoro potrebbe in realtà bearsi delle calde fonti termali di Mubazzarah, le cui acque non solo vengono bevute per curare il peso degli anni, ma alimentano una vegetazione quasi alpina ai piedi dello Jabel, tant’è che al primo impatto ci si crede spesso vittime di un miraggio.
Eppure è l’intero territorio dell’oasi a conservare tesori incredibili: basta non lasciarsi abbagliare dai neon con cui emiri e sceicchi tentano di sedurre i forestieri. Il Forte Orientale non è che uno degli insigni esemplari delle decine di costruzioni difensive sparpagliate lungo la valle, costruito in mattoni di fango e difeso da possenti torri dalla merlatura simile ai denti di uno squalo: risalente al 1910, al suo interno ospita tende khaima e case barasti (ricavate dal legno di palma), in un percorso a ritroso sulle origini dalla civiltà beduina che affonda sino al terzo millennio avanti Cristo, grazie al ritrovamento delle tombe appartenute alla cultura bronzea di Umm al-Nar (di cui si possono visitare resti ad appena una decina di chilometri dall’oasi, nei pressi del parco archeologico di Hili). Accanto ai ben più antichi forti di Jaili (la casa madre degli sceicchi) o Al-Khandaq (visitabile senza bisogno di visto nella parte omanita dell’oasi), l’Orientale sorge sui resti delle stazioni un tempo dislocate lungo la via dell’incenso, attraverso cui Medio Oriente ed Mediterraneo venivano approvigionati della profumata gomma secreta dai rami di Boswellia.
La stessa che continua a conferire un aroma inebriante ai coloratissimi souk della cittadina, ma ancor più agli accampamenti sparpagliati nel deserto, dov’è possibile pernottare al termine di avventurosi safari su cammelli o a bordo di spericolati fuoristrada.
Lasciandosi alle spalle la riserva naturalistica di Al-Ain, dove vivono più di quattromila diverse specie all’interno di una superficie di quasi 850 ettari (fra cui la rarissima Orice d’Arabia, la gazzella del deserto), un oceano di dune cangianti si spalanca a perdita d’occhio.
Ed è proprio qui, lanciandosi in vertiginose acrobazie lungo i pendii del vento, che l’ebbrezza dei volteggi rivive nei balli illuminati dai fuochi di mezzanotte, nel sinuoso divincolarsi delle danzatrici del ventre, nel battito forsennato delle mani levate al cielo. Tra gorgheggi selvaggi e sguardi traboccanti desiderio, d’improvviso si fa spazio l’arcano anelito a lasciarsi rapire: a consegnarsi inermi nelle mani degli ultimi predoni, alle loro promesse di una vita spesa lungo stuoie impolverate, con la tenda sulle spalle e l’infinito nel cuore.

OASI GALLEGGIANTI

Anche se sulle carte geografiche appaiono indicati col suggestivo nome di “Desert islands” (www.desertislands.com), gli affioramenti al largo della Costa dei Pirati – nel Golfo Persico – sono meglio noti come “le otto oasi galleggianti”. Un appellativo che rende omaggio soprattutto ai due paradisi naturalistici di Sir Bani Yas e Dalma, cui sono associate altre sei minuscole “Discovery Islands”. Per raggiungerle s’impiega poco più di un’ora e mezza di autostrada da Abu Dhabi, più altri dieci minuti di nave, ma una volta in vista dell’arcipelago il paesaggio cambia repentinamente. Grazie alla loro posizione defilata, queste isole si sono infatti trasformate in un rifugio spontaneo per la fauna locale, ospitando antilopi, gazzelle, fenicotteri e milioni di uccelli migratori in fuga dai rigidi inverni europei. Il modo migliore per avvicinarsi agli stormi consiste nell’affitare un kayak, attraverso cui spingersi nelle foreste di mangrovie, o semplicemente dedicandosi ad un po’ di trekking sulle abbaglianti montagne di sale, qui plasmatesi in milioni d’anni. Dominatrice delle vette è l’Orice d’Arabia, reintrodotta dallo sceicco Zayed quand’era ormai in procinto di estinguersi sulla terra ferma, vittima del bracconaggio.
Considerata la delicatezza dell’ecosistema, il governo degli Emirati Arabi ha deciso di dare avvio ad un progetto di sviluppo sostenibile che, oltre a prevedere la creazione di resort “verdi”, a breve vedrà l’impiego di sole energie pulite, principalmente di origine eolica.

IL PARADISO DEI FALCHI
Com’è tradizione delle popolazioni nomadiche, anche i beduini non sono rimasti immuni al fascino aristocratico della falconeria, ovvero l’arte di allevare falchi per finalità di caccia. Anzi, fu proprio grazie all’espansione degli arabi nel Medioevo se tale pratica riuscì ad attecchire pure in Europa, dando vita in Italia ad alcune delle scuole d’addestramento più prestigiose: basti citare i sei trattati scritti in Puglia dall’imperatore Federico II di Svevia. Non è dunque un caso se, a capo della più importante struttura di allevamento e ricovero presente nella Penisola Arabica, sia proprio un veterinario tedesco. L’Abu Dhabi Falcon Hospital (www.falconhospital.com) è stato inaugurato nell’ottobre del 1999 e, ad oggi, ha visto passare per le sue cure oltre 24mila esemplari di falchi sagri e pellegrini; al contempo offre la possibilità di apprendere tecniche d’addestramento per la cattura delle prede, di riconoscere i segnali del volo, così come d’individuare le attrezzature più consone all’arte venatoria: dall’uso di guanti e bracciali Aylmeri, all’impiego delle pertiche da voliere o dei cappucci neri d’isolamento. Presso l’ospedale, che si trova a circa tre chilometri dall’aeroporto di Abu Dhabi, vengono inoltre cucinati tipici piatti beduini nelle folkloristiche majilis (mense arabe dove si mangia sdraiati per terra). Le visite possono durare dalle due alle tre ore, a seconda del tempo speso anche all’interno del museo locale, che ripercorre la storia della falconeria dalle sue origini mesopotamiche agli sviluppi paralleli delle tradizioni precolombiane.

COMBAT POP
Se oggi Nancy Ajram è la più famosa e seducente stella pop del mondo islamico, grande merito alla sua affermazione va riconosciuto proprio alle opportunità che le sono state concesse nei paesi del Golfo, in primis gli Emirati Arabi Uniti. Grazie alla politica liberale dei suoi sceicchi, più volte la giovane 20enne di origini libanesi ha qui potuto esibirsi in concerti “infuocati”, altrimenti boicottati nel resto del Medio Oriente con feroci polemiche.
A suo modo Nancy sta infatti portando avanti una rivoluzione non violenta, o se si preferisce una lotta d’emancipazione femminile, che raccoglie proseliti fra le donne di tutto il mondo arabo: canta senza velo, sperimenta irresistibili contaminazioni fra ritmi disco e musiche tradizionali (come testimoniato dalla prima pubblicazione del 2000, “Ya salam”, alla quarta e recente fatica “Ah wi nus”), sfrutta sul palco la propria bellezza fisica come arma politica, onde offrire al gentil sesso un esempio di valorizzazione del proprio ruolo in una società ancora fortemente maschilista. Memorabile, in tal senso, resta la sua performance del 7 giugno scorso al Music Festival di Abu Dhabi, dove si è esibita accanto all’altra icona maschile Assi Helani, ottenendo un enorme successo. Ben diverso da quanto capitò quattro anni fa nel più conservatore Egitto, il cui parlamento fu sul punto di promulgare un atto di deferimento, per via delle provocazioni lanciate accanto ad Enrique Iglesias nel 2004.

SAPORI ED OSPITALITA’

RISTORANTI

EDEN ROCK (AL-AIN)
Tel. +971 (0)3 783 8888
Collocato all’interno del prestigioso Mercure Grand Hotel, sulla cima di Jabel Hafeet, questo ristorante non offre solo un belvedere ineguagliabile, ma anche un ricchissimo buffet arabico a base di shwarma (carne tritata, riposta in un pane-pita aromatizzato con pomodori a fette ed aglio) e khuzi (agnello arrosto su un letto di riso speziato).

MIN ZAMAN (AL-AIN)
Tel. +971 (0)3 754 5111
Esibizioni di danza del ventre e shisha a volontà (pipa ad acqua) accompagnano una cucina di chiara impronta persica. Fra i piatti da non perdere, il makbus (involtino di carne e riso) e l’haires (agnello con cous cous).

AL KHAYAM (AL-AIN)
Tel. +971 (0)3 768 6666
Pur accentuando maggiormente le influenze della vicina cucina iraniana, i kebab del posto riescono a far apprezzare gli aromi più selvatici delle carni, benché la vera specialità sia l’Umm Ali (sorta di pudding a base di frutta secca).

ALBERGHI

AL-AIN ROTANA HOTEL
www.rotana.com
Tel. +971 3 754 5111, Fax +971 3 754 5444
Cinque stelle molto elegante, che conta 200 camere fra standard e suites, oltre ad ogni sorta d’impianto sportivo e per il benessere. Prezzi a partire da 100 euro per persona.


HILTON AL-AIN
www.hilton.com
Tel. +971 3 768 6666, Fax +971 3 768 6888
Offre 202 stanze, fra cui 131 camere standard e 22 suites, cui si aggiungono 49 chalets situati in un palmeto. Si trova infatti a ridosso dell’oasi verde della città. Prezzi a partire da 100/110 euro a persona.

MERCURE GRAND JEBEL HAFEET
www.mercure.com
Tel. +971 3 783 8888, Fax +971 3 783 9000
Vanta 115 stanze di moderno design, quasi tutte con vista spettacolare sulla vallata al confine con l’Oman. Rinomato il suo complesso di piscine a salti. Prezzi a partire da 150 euro a persona.