"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

martedì 27 dicembre 2005

BRASILE



DIETRO LA MASCHERA CARIOCA

Recife - In Brasile sembra davvero tutto facile. Troppo facile. Non hai neppure il tempo di controllare il timbro sul passaporto, che già un roboante corteo di maracatu e caboclo irrompe colorato nel cuore della notte, trascinandoti tuo malgrado per le antiche vie di Recife. Sono loro i famosi guerrieri dalla testa enorme e dal fiore in bocca, i meticci indo-africani posseduti dalla frenesia ancheggiante del frevo, i volti di quella superba aristocrazia coloniale che, al giorno d’oggi, se ne va in giro con un microscopico top unisex, impreziosito da assurde maniche a sbuffo e corredato da un minuscolo ombrellino regale. Cantano, ballano, tambureggiano sin nel cuore dell’Avenida Guarapes, come se fosse Carnevale. Il fatto è che si potrebbe essere in qualunque altro periodo dell’anno, ma a loro non importa granché. Ogni pretesto è buono per far festa, a tal punto che attendere un anno intero per sfoggiare di nuovo maschere e costumi costerebbe troppa pazienza: ad ottobre i recifendes si sono inventati addirittura un secondo appuntamento ufficiale per aizzar baldoria – e i due milioni di perdigiorno che accorrono puntuali in città danno loro volentieri man forte – ma l’avvallo della burocrazia è un optional quanto mai volubile.



Si può ridere e scherzare di tutto, sia che si tratti delle catene degli schiavi ancora in mostra al Museu do Homen do Nordeste, che della prigionia imposta nella Casa da Cultura: ovattato eufemismo per indicare quell’imbarazzante mercato dove bancarelle e statuine di terracotta riempiono le celle in cui, sino al non lontano 1979, languiva il popolo dal triste volto. Sarà certo e anche effetto del fumo dolciastro che inebria i vicoli di Polo Bom Jesus, storico quartiere protetto da canali e case cornice, nel quale la samba si fonde inspiegabilmente col raggie, il tabacco con la marjia, e il forrò incalza con prepotenza ovunque: proprio come accadeva durante le serate goderecce nelle basi militari americane qui impiantate, quando il suo ritmato due/quarti era ancora lungi dall’ispirare Luiz Gonzaga, compianto maestro del tamburo zabumba. Eppure le orge notturne odierne sono ancora capaci di recuperare l’originaria filosofia yankee delle feste “For all”. O, come dicono i brasiliani, “forr ò(ll)”.



Gira e rigira, il paradosso è sempre lo stesso: il tempo passa, ma qui la storia sembra non lasciare tracce dei suoi voltafaccia. Né colpa va imputata al filantropismo dell’Unesco, che ha fatto della vicina città di Olinda un museo splendente ed impeccabile. Lassù, sulla collinetta che domina la baia della capitale del Pernambuco, case secentesche si succedono come colori appena piovuti dall’arcobaleno: gialli albeggianti, blu oltremare, ocra verecondi, gli ineguagliabili azulejos dell'Igreja do Amparo; e ancora, maliziose ragazzine che dipingono nei laboratori artigianali, barracas che vendono collanine di cocco e sesso a buon mercato, del tipo: “Hai qualche dollaro? No? Facciamolo lo stesso, sei così carino!”; e poi profumi di carne do sol sprigionati da incantevoli pousadas, dove le fette di vitello vengono fatte essiccare al vento e cosparse di sale, secondo l’antica ricetta delle baracche del Rio Grande do Norte. Dell’incendio che gli olandesi appiccarono qui nel 1636, in ritorsione alle continue rivolte dei proprietari di piantagioni cattolici, non c’è però più traccia. Delle frustate inflitte agli schiavi africani mentre sfibravano le canne da zucchero, nessuna parola. Dei segreti della loro danza mortale, solo pittoresche esibizioni che fanno della capoeira un piacevole intrattenimento per turisti. Delle favelas, una vergogna da occultare meglio del proprio pube.







Forse il Pernambuco è davvero uno degli ultimi paradisi terrestri. Prova ne è l’arcipelago di Fernando De Norohna, con le sue acque cristalline, i suoi panorami tropicali, le sue 24 specie d’uccelli marini, riuscito sorprendentemente a scampare alla furia edilizia, proclamando il 70% della propria superficie parco nazionale protetto. D’altra parte avvisaglie di un destino felice si erano già scorte nel 1504, quando il nobile portoghese che dà il nome a questo remoto Eden atlantico, circa 500 chilometri a est della costa, ne ricevette in dono la proprietà da re Dom Maoel e tanto l’apprezzò, da dimenticarsene completamente. Aristocratiche sviste. Considerando la sua posizione strategica, a metà strada tra Europa e Nuovo Mondo, lunghe furono però le contese fra francesi, olandesi e portoghesi, che qui vi costruirono decine di forti oggi andati in rovina, perdendo non pochi relitti carichi d’oro. Ma tant’è: chi se ne ricorda più?



E come indugiare di fronte alle dune sabbiose di Natal, alle partite a domino sotto le capanne da spiaggia, o al più grande albero di acagiù del mondo, custodito a Pirangi do Norte, ed il cui groviglio di rami continua a crescere ben oltre i 500 metri della sua circonferenza?

C’è davvero qualcosa di magico ed inspiegabile sulle rive di questo mare dalle acque calde, sulle cui onde giunsero in tempi arcani alcuni biondi navigatori in cerca della Nuova Atlantide.

Sorseggiando in spiaggia un cocktail di açai, persi nel roseo tramonto di Porto de Galinhas, una sottile inquietudine non può tuttavia far a meno d’insinuarsi nell’ipnotica litania dell’oceano.

Questa volta non tocca ai macabri ricordi dei soliti neri perdenti, qui maltrattati e segretamente barattati a mo’ di “galline” ben oltre il 1888, anno d’abolizione della schiavitù; non è il dosaggio poco accorto di miele, cereali e guaranà che offusca il sapore di bosco nel nostro aperitivo; non è neppure il dubbio che la bronzea ragazza dal fondoschiena ammiccante e in misteriosa attesa di un segno all’orizzonte, possa rivelarsi a tradimento un trans al lavoro. No, nulla di tutto questo.



E’ semplicemente il dubbio che là dietro, oltre le colline, fra le palme e le mangrovie, si apra già quel grande nulla chiamato Amazzonia: l’ultimo regno capace di dare un senso alla vita e alla morte, dove la verità si consuma con la stessa ineluttabile tragedia del rito d’accoppiamento delle anaconde: aggrovigliate per settimane in una viscida matassa nella quale la femmina è concupita da più maschi, d’improvviso le future madri rivelano il loro vero volto, divorando i pretendenti con la foga di chi altro non desidera, se non di procreare in santa pace.

venerdì 2 dicembre 2005

IL TAM TAM DELLA SIBERIA/3


SULLA CARDINALITA' DELL'ANIMA

Pare proprio che ogni anima abbia un suo luogo cosmico: nulla a che vedere con strampalati mondi trascendenti; è piuttosto un sentirsi segretamente orientati verso la cardinalità dell’orizzonte. Una consapevolezza che nasce nel momento in cui ci si accorge di aver viaggiato per i quattro estremi del mondo e per i suoi sette mari, o forse un primordiale richiamo inscritto nella propria carne, ben al di là dell’incanutirsi del tempo.

Difficile argomentare una propensione tanto metamorfica: da una parte, l’altrove verso cui si tende effonde malia proprio perché totalmente altro, inarrivabile al passo, remoto ed arcano quanto l’irrazionale desiderio che impone ogni qual sorta di sacrificio; dall’altra avvince semplicemente perché è il nostro più proprio, il nostro da sempre, la culla obnubilata nell’estinguersi dell’ultimo vagito.

Ebbene, quella culla è per noi il nord-est, trasversale e leggermente ambiguo, perché al margine di qualunque incrocio. Là sono gli spazi sconfinati e vergini, i silenzi carichi d’attesa e rotti solo dallo scalpiccio dei bradi nomadi. Là è il verde rigenerante e l’intima pulizia del ritorno a sé, il respiro liberato dalla balsamica frescura della taiga.

Il nord-est non è propriamente il rigore morale dei ghiacci eterni, né il manicheismo della notte e del giorno. Non è neppure il mistero dell’inaccessibile. Seppur immacolato, nelle sue vene scorre l’irrequietudine dell’adolescente, la sete del non compiuto, la pretesa di lanciarsi nella luce albeggiante alla ricerca del loto dischiuso.

La sua dimensione è dunque l’anelito e il suo focolare la tenda, peregrina ma sempre accogliente, grave di ricordi lasciati e al contempo leggera come piume di sciamani danzanti.

Il nord-est ha occhi sottili, perché scruta in lontananza, senza lasciarsi turbare da improvvisi sobbalzi, avendo dentro di sé la grandezza d’animo degli spazi infiniti.

Qui fremono le betulle, come ninfe inviolate al primo audace tocco; qui batte il tamburo sordo e penetrante, rimbalzando il cuore sino ai remoti confini del noto e dell’ignoto. E’ per questo che le anime del nord-est mai disdegnano di travalicare la propria cardinalità, ma più da essa si allontanano, più avvertono stringersi tutt’attorno una dolce malinconia, tanto simile alla deriva dell’oggi nel domani mancato.

Oltre il nord-est la terra si fa negra e buia, perché là tramontano i sogni dai profondi sospiri.


giovedì 1 dicembre 2005

IL TAM TAM DELLA SIBERIA/2



MA TUVA DOV'E'?

La Repubblica di Tuva è una piccola escrescenza della Mongolia che sorte vuole sia stata racchiusa in territorio federale russo, nel punto in cui la taiga cede il passo alla steppa. Protetta alle spalle dai monti Sayan, è abitata da circa 310mila pastori nomadi, che credono in una forma religiosa a metà strada fra lo sciamanesimo ed il buddismo. Per secoli è stata terra di conquista: di qui sono passati gli Uiguri della Cina, i Turchi dell’impero kirghiso, senza dimenticare il terribile Gengis Khan. Proprio il ceppo mongolico è quello radicatosi sul territorio con maggior insistenza, tant’è che i Tuvini sono considerati “cugini” dei Mongoli: parlano un dialetto affine, suonano i tipici violini moohrin khuur (“teste di cavallo”), cantano di gola e nei giorni di Ferragosto organizzano le piccole olimpiadi di Naadim. Corse a cavallo, lotta a corpo libero, tiro con l’arco intrattengono locali e turisti alle porte della capitale Kyzyl, presso il cui teatro municipale viene organizzato il folkloristico concorso di bellezza Miss Tuva. La città è anche nota per essere il centro geografico esatto dell’intero continente asiatico e, non a caso, conserva un singolare obelisco piantato da un misterioso inglese nel XIX secolo: segno che ne attesta l’accesa spiritualità. Possiede diversi centri di studio sciamanico, dov’è possibile consultarsi con “medici” che guariscono da ogni sorta di malattie e predicono il futuro. Dotata di alberghi di stampo sovietico, in seguito alla riscoperta del best-seller americano “Tuva or Bust” di Leighton, così come del fortunato cd di canti di gola “Voices from the distant steppe” (ripreso da Frank Zappa), da qualche hanno si sta aprendo al turismo di nicchia con una rete di bed&breakfast ed artigianali agenzie d’incoming (www.ecotuva.ru; ecotuva@tuva.ru). Oltre all’organizzazione d’incontri con sciamani, con tanto di traduttori multilingue, vengono proposte escursioni a laghi salati terapeutici e alle fonti sacre della regione (contraddistinte da pile di pietre e fazzoletti colorati, chiamate ovoo). Viene data anche la possibilità di pernottare nelle tradizionali tende a cerchio chiamate “yurta”, apprezzando la cucina dei locali e loro esibizioni di canto.

IL TAM TAM DELLA SIBERIA


Stregoni. Guaritori. Veggenti. Come già faceva notare lo storico Mircea Eliade nella sua monumentale opera, “Lo sciamanismo” (Ed. Mediterranee), sono molti i nomi e le funzioni riconosciuti ai medici della tradizione siberiana. Eclissatisi nel periodo sovietico, stanno piano piano riemergendo e riportando in auge una spiritualità animista mai sopita, oltre che metodi di cura di stampo olistico: danzano sino alla trance per ricercare i pezzi d’anima smarriti dai propri pazienti nei Tre Mondi, leggono il futuro passando le scapole di capra sulle fiamme, acquisiscono poteri dagli animali e dialogano con le anime dei morti. Giudicati pazzi e imbroglioni dai bolscevichi, gli sciamani vengono oggi considerati l’ultima àncora di salvezza dai fallimenti del razionalismo occidentale, oltre che il simbolo di un’identità etnica troppo a lungo schiacciata.

A volte ritornano. Relegati nelle appendici più remote della Russia asiatica, dalla Yakutia alla Buriatia, dall’Evenkia alla Kamcatka, gli sciamani dagli occhi a mandorla si sono infine scrollati di dosso 70 anni d’ateismo di Stato, ricacciando lo spettro del Comunismo in qualche defilato antro del Mondo Inferiore. Lotta lunga ed umiliante, che ha mietuto vite con la stessa ineluttabilità delle trebbiatrici rosse, cui la collettivizzazione per troppo tempo li ha costretti, sempreché fossero scampati alla morsa dei gulag: all’inizio del XX secolo, solo nei territori al confine con la Mongolia si contavano almeno 20 monasteri buddhisti occupati da quattromila lama. Dispensavano responsi, guarivano da gravi malattie e presiedevano ai solenni eventi delle rispettive comunità, stando spalla a spalla con duemila sciamani. Medici per antonomasia: del corpo, così come dell’anima.


Poi la luce degli stupa si è oscurata. I fuochi rituali si sono spenti. Le preghiere sono state azzittite. Ma solo apparentemente; perché sotto le ceneri ha continuato a covare quella fiamma della predestinazione sacra che, per divampare, attendeva solo il vento secco del sud. E’ arrivato da Ovest, ma ugualmente ha fatto terra bruciata di un credo che non voleva accettare la sua fine: oggi sono ben cinque le società sciamaniche di rilievo a Tuva, il cuore della rinascita degli antichi culti nomadi, e a loro fanno capo più di duecento affiliati, decisi a ristabilire il corretto equilibrio fra il mondo dei vivi e quello degli spiriti.


Ancora troppi spettri vagano inquieti per le lande del dolore. Lo sa bene Saylyk-ool Kanchyyr-ool, l’uomo al quale il padre lasciò in eredità cinque cicatrici sul collo a forma di zampa d’orso: animale di potere cui ha scelto di consacrare il proprio centro cultuale a Kyzyl, oggi capitale della piccola repubblica tuvina al confine con la Mongolia. Sa che in periferia c’è qualcuno che si lamenta. Urla per le paludi, lancia improperi, tende sinistre trappole. D'altra parte, sotto le acque mefitiche che lambiscono la cittadina siberiana sono annegate non poche vacche.

Loro pretendono rispetto ed attenzione – ammonisce con voce grave, mentre raccoglie legna per un falò sacrificale – perché nessuno li ha più ricordati da quasi un secolo a questa parte. Li hanno assassinati sotto queste betulle, contorte dal dolore, semplicemente perché non volevano credere alla parola dei bolscevichi, ma a quella dei loro avi. I loro corpi sono da qualche parte, qui sotto, nel fango, ma le loro anime non vogliono lasciarci soli. O forse, non vogliono restare sole”.

China il capo alla notte. All’orizzonte nessuno, ma chi ha occhi da Cosacco non vede mai bene. Veste un costume in pelle d’orso, da cui pendono piume d’aquila e lembi di cuoio simili a serpenti. Piccoli totem di metallo tintinnano sul petto. Preludio alla convulsa danza che il suo tamburo a tracolla sta evocando attraverso un antico canto alghisc: “Lascia che il tamburo risuoni e di nuovo il vento chiami; lascia che sgombri la soma della sofferenza, sino alla radice più profonda; lascia che il tamburo rulli la sua melodia e mormori il battaglio; lascia che l’inquietudine se ne vada col vento. Per sempre…”.


Saylyk-ool Kanchyyr ha abbandonato questa terra. E’ vero, ancor si muove davanti agli occhi dell’ordinario, ma i suoi passi non hanno più nulla di umano. Cambiano ritmo, non trovano appoggio, lo giocano a terra. I suoi occhi sono eclissati dietro lo strazio delle rughe. La sua voce è greve e distorta come il muggito delle vacche, appese per le costole sulle bianche piante della paura. Il suo indice è ritto, a dispiegare il vuoto di una ferita che solo la memoria potrà colmare.

Ma non sono solo gli spiriti dei vecchi pastori a chiedere un po’ di conforto, anelando il fumo delle primizie loro offerte sul fuoco. C’è chi fugge dal neon dell’Occidente, chi cerca una nuova via preclusagli dalla sordità della propria chiesa, c’è chi ha avuto paura di perdere il proprio potere, come il vecchio zar Boris o il suo pupillo Vladimir. Per Kyzyl sono passati in tanti. Forse troppi. Lo sciamanesimo non è mai stata la panacea di ogni male, bensì un laborioso tentativo di raddrizzare ciò cui la volontà ha mollemente rinunciato. Eppure qualcuno sembra essersene dimenticato. Oppure finge. Finge di non sapere.

Ay-Churek Oyun ha fatto della sua vocazione una professione. Sotto le piume del suo costume tiene in tasca un bigliettino da visita, tradotto in inglese e russo: “Chairwoman of the Centralized religious organization of Tuva’s Shaman Tos Daar”. E’ una sciamana con tanto di certificato internazionale. Quando non chiede soldi ai turisti in cerca di facili emozioni, organizza conferenze o simposi su problemi psico-spirituali in tutto il mondo. Stati Uniti, Francia, Svizzera. Persino in Italia. Non corre buon sangue fra lei e Saylyk-ool Kanchyyr-ool. Uno sciamano ha bisogno della sua terra per conservare i propri poteri. Altrimenti è solo teatro e parole. Chiacchiere e distintivo.

E a Kyzyl inizia ad esserci troppo rumore: sarà perché il concorso di Miss Tuva promette ogni Ferragosto di premiare la ragazza più bella della Siberia; sarà perché assistere al festival del Naadim è un po’ come proiettarsi al tempo di Gengis Khan e dei suoi arcieri a cavallo, ma gli sciamani – quelli veri - sono tornati a mettersi in cammino. Verso nord, lontano dagli strepiti, vicino alla montagna sacra di Buyan Tugad, diretti alla gola che si apre sull’isola di Olkhon, sperduta nel cristallino Bajkal; o ancora più in là, oltre i torrioni cambrici dell’immensa Yakutia, proprio là, dove ogni interrogativo s’azzittisce nel ghiaccio eterno. Quel ghiaccio che ieri soffocò la marcia dei Mammuth ed oggi spregia l’oro dei compromessi.


MA TUVA DOV’E’?

La Repubblica di Tuva è una piccola escrescenza della Mongolia che sorte vuole sia stata racchiusa in territorio federale russo, nel punto in cui la taiga cede il passo alla steppa. Protetta alle spalle dai monti Sayan, è abitata da circa 310mila pastori nomadi, che credono in una forma religiosa a metà strada fra lo sciamanesimo ed il buddismo. Per secoli è stata terra di conquista: di qui sono passati gli Uiguri della Cina, i Turchi dell’impero kirghiso, senza dimenticare il terribile Gengis Khan. Proprio il ceppo mongolico è quello radicatosi sul territorio con maggior insistenza, tant’è che i Tuvini sono considerati “cugini” dei Mongoli: parlano un dialetto affine, suonano i tipici violini moohrin khuur (“teste di cavallo”), cantano di gola e nei giorni di Ferragosto organizzano le piccole olimpiadi di Naadim. Corse a cavallo, lotta a corpo libero, tiro con l’arco intrattengono locali e turisti alle porte della capitale Kyzyl, presso il cui teatro municipale viene organizzato il folkloristico concorso di bellezza Miss Tuva. 

La città è anche nota per essere il centro geografico esatto dell’intero continente asiatico e, non a caso, conserva un singolare obelisco piantato da un misterioso inglese nel XIX secolo: segno che ne attesta l’accesa spiritualità. Possiede diversi centri di studio sciamanico, dov’è possibile consultarsi con “medici” che guariscono da ogni sorta di malattie e predicono il futuro. Dotata di alberghi di stampo sovietico, in seguito alla riscoperta del best-seller americano “Tuva or Bust” di Leighton, così come del fortunato cd di canti di gola “Voices from the distant steppe” (ripreso da Frank Zappa), da qualche hanno si sta aprendo al turismo di nicchia con una rete di bed&breakfast ed artigianali agenzie d’incoming (www.en.tuvaonline.ru). Oltre all’organizzazione d’incontri con sciamani, con tanto di traduttori multilingue, vengono proposte escursioni a laghi salati terapeutici e alle fonti sacre della regione (contraddistinte da pile di pietre e fazzoletti colorati, chiamate ovoo). Viene data anche la possibilità di pernottare nelle tradizionali tende a cerchio chiamate “yurta”, apprezzando la cucina dei locali e le loro esibizioni di canto.