"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

mercoledì 18 novembre 2009

NON APRITE QUELLA TOMBA




SpiceJet ha scagliato la prima pietra. “Venite a Srinagar, la città che ospita la tomba di Gesù”. Così recitava la sua rivista di bordo la scorsa primavera, quando la giovane ed arrembante compagnia low-cost indiana era intenta a promuovere la rotta da Delhi verso la capitale del Kashmir.
Putiferio. Le comunità cristiane locali insorgono. Qualcuno parla di bestemmia pubblicitaria. A Roma i vertici del Vaticano rumoreggiano.



Eppure il collegamento aereo non avrebbe alcun bisogno di scoop, visto che sono in pochi a preferire 24 ore di bus per raggiungere l’estrema appendice settentrionale dell’India, ancor meno quelli che scelgono di viaggiare su rotaia: la tratta ferrata oggi disponibile s’interrompe nella polverosa cittadina di Jammu, da dove partono alcune jeep per un ulteriore slalom himalayano di 7 ore, in attesa che fra due anni o più si completino i lavori per l’attivazione del treno rapido diretto.
In realtà SpiceJet non ha fatto altro che dar voce ad una teoria da tempo circolante sul Kashmir, ma attorno alla quale il mondo del turismo ha sempre mantenuto un atteggiamento ambiguo: quella per cui le verdi vallate a ridosso del Pakistan sarebbero l’autentica “Terra Promessa”, “il Paradiso in Terra” di cui i testi biblici fanno menzione da millenni, a tal punto che qui pare abbiano riparato alcune delle dieci tribù perdute d’Israele. Non da ultimo, sulle loro tracce, proprio Gesù.



Certamente questa regione, insieme all’attiguo Ladakh, è meta sospetta di un numero di ebrei impressionante, soprattutto se comparato col resto del Paese o con altre destinazioni al mondo: ristoranti con la stella di David si trovano a destra e a manca, forse perché le zampette bollite di capra sono una specialità in comune con gli antichi beduini del Negev, mentre l’aramaico fa sempre chic, quasi quanto parlare un inglese oxfordiano o l’hindi forbito della neoborghesia in turbante. Sulla punta delle dita i kashmiri potrebbero però enumerare mille altre analogie col Popolo Eletto: non impiegano grasso per friggere il pane, ma usano solo olio; dispongono di coltelli a forma di mezzaluna; hanno timoni delle barche a cuore, del tutto simili ai corrispettivi in Galilea, o vestiti tradizionali quasi uguali agli israeliti, o ancora ragazze che danzano in due file contrapposte e a braccia unite. Hanno persino tombe orientate sulla direttrice est-ovest, a dispetto di quelle tipicamente islamiche disposte sull’asse nord-sud.



Non appena si sbuca dal lungo tunnel che fende i primi rilievi dalle piane soffocanti del Punjab, lo stupore sui visi è allora pari solo a quello di Mosé sul monte Nebo: l’aria si fa fresca e profumata di chinar, la pianta aromatica simbolo del Kashmir, polvere e scabre rocce vengono improvvisamente riassorbite da una natura in pieno rigoglio, mentre le acque del Dal Lake sembrano poter dissetare eserciti di profughi con la gola a secco da 40 anni di deserto. Difficile credere che fra queste lande si siano combattute le guerre più sanguinose della storia indiana, se non fosse per una massiccia presenza di militari, che occhieggia il passo dei visitatori metro per metro. Dopo l’ultima incursione del Pakistan nel 1998, Delhi tiene costantemente il coltello fra i denti ed oggi, in tutto il subcontinente himalayano, non c’è luogo più sicuro di questo tormentato lembo diviso fra due nazioni gemelle: ben 70 divisioni dell’esercito sono stanziate proprio qui, per un totale di oltre mille uomini in allerta 24 ore su 24. A Srinagar filo spinato e torrette di controllo fanno concorrenza diretta ai chioschi di pakora fritti. Lungo le due principali direttrici che corrono a ridosso del confine pakistano è invece più facile scambiare un cecchino in mimetica per una fascina fronzuta, magari in spalla a qualche pastore vinto dalla fatica delle serpentine.



La sensazione è che in Kashmir, al di là della leggendaria bellezza delle houseboat e delle coloratissime shikaran che ondeggiano sugli specchi lacustri, sia preservato qualcosa d’immensamente prezioso ed arcano. Già lo aveva intuito l’esploratore russo Nicolai Notovitch, quando sul finire dell’Ottocento venne a conoscenza della bizzarra storia di un messia approdato alle pendici himalayane, mentre alcuni monaci buddisti gli stavano offrendo assistenza presso il monastero ladakho di Hemis. Come molti altri eremi della zona, custodiva antichi testi sacri che narravano di un certo Yesha, o Juzu, o ancora Issa, giunto da lontano per predicare l’amore e la carità universale, fra uomini impegnati da secoli a cercare la salvezza ultraterrena per conto proprio (secondo i dettami della scuola Hinayana, o del Piccolo Veicolo). Il suo arrivo coincise con la grande svolta teorica adottata durante il Quarto Concilio buddista, che promosse il Grande Veicolo di salvezza per l’umanità intera (la cosiddetta scuola Mahayana) ed ebbe luogo ad Harwan, una dozzina di chilometri da Srinagar.



Presso l’odierno sito archeologico, tanto defilato quanto cruciale per le sorti della spiritualità asiatica, si possono contemplare le suggestive fondamenta delle strutture adibite al Concilio, la cui disposizione segue la grafica ipnotica degli yantra da meditazione.
Non dovrebbe sorprendere, a questo punto, sapere che la maggior parte delle raffigurazioni locali del Buddha richiama l’incarnazione dell’Amida, ovvero del “Salvatore”: fra gli esempi più eclatanti spicca l’imponente scultura di otto metri che, su un picco solitario del villaggio di Mulbekh, segna il confine fra il Ladakh buddista e il Kashmir islamico. Nei modelli di statue risalenti al I secolo dopo Cristo, un fiore di loto appare oltretutto nel palmo di ciascuna mano e sotto la pianta dei piedi, quasi a richiamare le famose stimmate di Cristo. Le stesse visibili in modo ben più tradizionale nel calco dei piedi del santo Yuzu Asaf, la cui cappella di sepoltura (Rozabal) si trova proprio al centro di Srinagar ed è meta venerata da fedeli di ogni confessione.



Quasi non bastasse, la capitale kashmira è dominata da un antichissimo tempio noto come “Trono di Salomone”, alla base del quale è stato espressamente trascritto che fu il santo Yuz Asaf – conosciuto come il Messia - a far ristrutturare l’antico sito dei suoi padri. Al pari del tempio di Martand, ispirato all’architettura ebraica, per secoli il Trono era rimasto abbandonato a se stesso.



Indubbiamente il Kashmir archeologico appare una miniera di ricordi preziosissima, ma ancora poco studiata rispetto alla ricchezza e all’importanza dei suoi reperti, soprattutto per via delle tensioni internazionali. Persino la momentanea scomparsa di un pelo della barba di Maometto – venerato a Srinagar nella moschea bianca di Hazratbal – è stata sufficiente per portare il paese sul baratro di un conflitto.



Oltre a possedere numerose località le cui matrici linguistiche hanno permesso di ridisegnare la carta geografica di una “Terra Santa” alternativa (si pensi agli evocativi “bagni di Mosé” nel piccolo villaggio di Bijbjara, dove le truppe pakistane hanno però gettato in acqua la millenaria pietra sacra ka-ka-bal, lasciando un “leone egizio” a sola ed offesa testimonianza), i territori a cavallo fra India e Pakistan celano tombe d’immensa rilevanza religiosa oggi quasi inaccessibili: fra queste, il sepolcro di Maria a Mari e di Mosé a Buth. O, come vorrebbe lo storico Fida Hassnain, proprio quella di Gesù. Il Messia “aiutato” a risorgere dalla setta degli Esseni, cui pare appartenesse, dopo tre giorni di cure nel Santo Sepolcro e una complessa fuga dalla Palestina.



Superata la cittadina di Bandipura, lo spettro dei Talebani aleggia però minaccioso e il Kashmir storico deve tornare a fare i conti con il Kashmir politico.
C’è chi preferisce dunque abbandonarsi alla serenità distaccata del Dal Lake e dei suoi canali navigabili, dedicandosi all’osservazione della ricchissima avifauna o barattando quotidianamente verdure al mercato galleggiante, e chi invece perdersi fra gli impetuosi torrenti della valle di Pelgham; c’è chi sceglie di setacciare le qualità del pregiatissimo zafferano coltivato a Pampur, e chi di lanciarsi a cavallo fra le popolazioni nomadi delle foreste.
D’altra parte qui paiono tutti in cerca di un proprio perché, rapiti da verità divine e vizi sin troppo umani. Forse il destino di ogni Terra Promessa: dannatamente vicina, quanto impossibile da credere.




FIDA HUSSNAIN



“Avanti! Avanti! Non perda tempo!”. Neppure una stretta di mano: il cancello anti-proiettile s’è già chiuso alle spalle. Benché il professor Fida Hussnain non rifiuti mai una visita nella sua graziosa villetta, scovarlo nella labirintica periferia di Srinagar non è affatto facile. Qui le vie s’attorcigliano come serpenti Naga, mentre la cinta di mura attorno alla sua abitazione è talmente alta che occorrerebbe un trampolino per scavalcarla. Da quando il suo libro più famoso, “Sulle tracce di Gesù l’Esseno” (1994), è diventato un best-seller internazionale, vivere nella capitale kashmira s’è fatto molto difficile. Non bastano i suoi venerandi 86 anni per godersi la pensione dopo una vita spesa come direttore degli Archivi Statali di Srinagar, né aver ricevuto la più alta onorificenza tributata ai ricercatori archeologici dal Governo di Jammu&Kashmir per passeggiare in città senza finire nel mirino di qualche integralista. I più scettici non si curano neppure del fatto che abbia conseguito il massimo grado di maestro sufi, a tal punto da essere considerato uno dei pochi esperti di mistica islamica capace di giostrarsi pure sul web (www.myasa.net); né sono pronti a riconoscere oltre sessant’anni di studi su fonti buddiste, sanscrite, persiane e himalayane: le teorie di Hussnain sulla sopravvivenza di Gesù alla Crocifissione continuano a dare scandalo e i Paesi di maggior impronta conservatrice (Italia inclusa) preferiscono boicottare i suoi libri, piuttosto che invitarlo a dibattiti pubblici. Per alcuni far visita al professore significa oggi provare il brivido del proibito, ma chiunque desideri davvero spingersi oltre la banalità del Vero non ha che da aprire quel cancello.

HOUSEBOATS



Cosa non s’inventa per tener lontani ospiti sgraditi. Sul Dal Lake le houseboats sono oggi lussuosi alberghi galleggianti dove rifuggire il caos di Srinagar, ma sino a poco più di 70 anni fa apparivano una delle armi diplomatiche più ingegnose. Volendo impedire agli inglesi di rilevare immobili sul proprio territorio, il maharaja del Kashmir escogitò nell’800 queste barche di legno finemente intagliato e preziosi tappeti, grazie alle quali i capricciosi diplomatici di Sua Maestà non avrebbero potuto vantare diritti di superficie. Poco è però cambiato. La Houseboat Owner Association (www.houseboatowner.org) si occupa tuttora di assegnare questi posti letto ai turisti più pretenziosi, o dal cuore perdutamente romantico.

martedì 8 settembre 2009

Schaefer Expedition



Yak postale n.1 - Chandighar (24.07.08)

Buongiorno Italia!
Sono appena riparato in un afosissimo Internet point di Chandigarh, dopo aver agguantato il primo bus in partenza da Delhi in piena notte. L'inizio del viaggio e' stato infatti particolarmente serrato, ma molto avvincente: non solo ho avuto modo di esplorare meglio la Kultfabrik durante la tappa notturna a Monaco (nell'isola dei divertimenti bavarese, proprio all'ingresso della Russian Disco Kalinka, svettano una bellissima testa gigante di Lenin e una stella rossa che valgono di per se' l'uscita), ma anche di fare un'incursione crociata in centro Istanbul, spezzettando piacevolmente i lunghi tempi di avvicinamento all'India.
Visitare la capitale turca e' stato un po' come rituffarmi nelle atmosfere della Via della Seta, benche' mi sentissi come Teofilatto da Bisanzio alla corte dei suoi irriconoscibili parenti. Profumi di kebab, musiche dalla rotante frenesia derviscia, mani al cuore in segno di saluto e un sole abbacinante sui vertiginosi minareti del Sultanato: benche' avessi poche ore a disposizione, e' certo bastato per farmi riassaporare l'antica gloria ottomana e conquistarmi alla visione panturanica dell'impero perduto, ma non ancora abbandonato. Mentre mi defilavo dall'aeroporto, un gentilissimo ingegnere della marina ha infatti lasciato scivolare qualche monetina nella mia mano, sollevandomi dall'obbligo di cambiare pochi euro, ma invitandomi a tutti i costi ad apprezzare la magnificenza della sua citta'.
Un gesto arrivato dritto dritto al cuore, perche' uno degli aspetti piu' affascinanti della cultura islamica autentica e' in fondo questo senso di fratellanza gratuitamente speso nei confronti dello straniero. Mi e' diventato ancor piu' simpatico nel momento in cui ha pensato io fossi russo, essendo lui stesso di ritorno da Mosca, dove ha impiantato una base strategica per concludere affari con i "fratelli" dell'Asia Centrale! Stiamo in guardia, dunque. Il Grande Gioco non e' ancora concluso. Vero e' che ascoltare un turco mentre parla della grandezza della propria cultura, potenzialmente in grado di estendersi da Istanbul alle appendici siberiane, suona come pura poesia ottomana: liquefa con estrema facilita' l'idea di confine, alimenta l'anelito ad oltrepassare quanto riteniamo ormai ripiegato su se stesso, invita a vivere il viaggio con coraggio ed ardimento.
Quanto all'India, stessi pregi, stessi vizi di tre anni fa. In aeroporto sono stati presi seri provvedimenti contro la febbre suina, con obbligo di mappare il percorso di ogni singolo passeggero e relazionarvisi solo indossando una mascherina di protezione. Nessun allarme, vero...pero'...pareva di esser finiti nella pellicola di Cassandra Crossing! Mi sono segretamente confessato: "Bzzz! Come sono diventati seri gli indiani!". Manco mi avessero sentito! L'addetto ai bolli si e' subito sfilato la mascherina prendendo un bel respiro rinfrancante, per poi stringermi calorosamente la mano, dal momento che avevo scelto di visitare il Sikkim (lo stato dove ha prestato servizio militare e su cui sembrava volermi raccontare gli ultimi tre secoli di diatribe ghelupa). Mi sono allora guardato con piu' attenzione intorno e ho notato che pure le altre addette alla sanita' indossavano la mascherina in modo molto flessibile: chi lasciando fuori una narice per il
troppo caldo, chi non facendola aderire bene alla bocca, chi un po' storta per meglio sorridere...beh, nessuna sorpresa se, a quel punto, ho visto zampettare a lato della dogana un maiale tutto trafelato.
"Psss...stia tranquillo! - ha ammiccato l'impiegato con complicita' - Da noi la suina e' sotto controllo. Vede come trattiamo bene l'ex direttore dell'ufficio immigrazione?". "Il direttore?". Alla mia domanda, il maiale mi ha grugnito solidale. Incredible India! Eccoci tornati a casa :-)
Vabbe', non mi soffermo poi sugli odori "incredibili", le mani strette, la curiosita' dei pendolari che non mi ha permesso di riposare per tutto il viaggio verso la capitale del Punjab...ormai accetto il samsara con buddista rassegnazione. D'altra parte la risalita al Fantasy Rock Garden di Nek Chand si e' trasformata in un'ottima piattaforma di lancio per raggiungere la vicina Dharamsala, la base operativa del Dalai Lama in esilio, che proprio quest'anno celebra i 50 anni dalla sua ignominiosa fuga da Lhasa.
Vestito da pellegrino, non mi resta che correre a studiare il nemico...

Un abbraccio peloso!
Albert Schaefer



Yak postale n.2 - Chandigarh/Dharamsala (26.07.08)

Dannati inglesi! Appena gli agenti della sicurezza sono stati informati del mio arrivo, non hanno perso tempo per sabotare l'incursione verso il Tibet esterno. Uno sgangherato bus Tata la loro trappola. La notte la loro subdola complice. Abbandonata Chandigarh dopo una strenua lotta alla stazione interegionale, durante la quale ho dovuto farmi largo in una massa informe di piedi in infradito, gulan gulan spappolati e temibili contorsionisti tantrici, pensavo che l'aver strappato il biglietto per Dharamsala m'avesse gia' consegnato in mano la vittoria. Macche'!
Alle prese con gomme traballanti e un volante svitabile, il povero autista Singh si e' reso conto troppo tardi che qualcuno doveva aver truccato pure il motore, ruggente sui 200 chilometri all'ora per tutto il tragitto diretto alle pendici himalayane. Ha cosi' preso avvio uno slalom falcidiante fra milioni di pellegrini riversatisi in strada per la festa shivaita dell'Himachal Pradesh, talvolta a fari spenti, piu' spesso celati da una nube di diesel supertossico.
Riconosciuto l'orrore sui volti dei poveri pedoni, che immancabilmente sparivano fra urla strazianti sotto il tergicristallo, ho tentanto di raggiungere la postazione di guida, appellandomi ai compagni di viaggio affinche' mi facessero scorrere sulle loro teste come un lombrico giurassico: strano a dirsi, nessuno di loro mostrava pero' segni d'inquietudine. Anzi, fissavano tutti l'orizzonte con occhi sbarrati. Eredita' dell'aplomb britannico-vittoriano? Infarto di massa? Una mano sventagliata rapidamente davanti al loro naso e' bastata per tradire il silenzioso voto fatto alla misericordia di Buddha. A differenza degli hindu' mutilati per strada, il tragitto per Dharamsala viene infatti coperto in via quasi esclusiva da seguaci del Loto, idealisti manovrati dalla Cia e qualche yeti furbetto.
"Mr Singh! Mr Singh! Dobbiamo riprendere il controllo del bus!". Nulla da fare. L'autista neppure mi sentiva. Solo dopo insistenti scrolloni ha infine alzato le mani, facendo toccare pollice e medio, prima di brontolare ad occhi chiusi un ridondante "Ommmm..mmmani padme hum". "No! No! Mani non vuol dire quello!!".
Sciocco! Solo quando ho avuto modo di gettarmi illeso nel parcheggio di Dharamsala tutto si e' illuminato: chi viaggia sotto la protezione di Buddha e' guidato da mano divina, per cui non corre alcun periocolo, se non quello di non risvegliarsi piu' dalla trance mistica. Chi e' ormai assuefatto, tende a rimanere per mesi o anni in quell'incredibile stato catalettico, tant'e' che bus Tata pieni di pellegrini vestiti in giallo sono stati rinvenuti fra i ghiacci di Novaja Zemlja, nei libri di Pasaalinaa o addirittura immobili nel giardino incantato di Nek Chand, proprio a Chadigarh.
Viaggio spirituale non significa infatti viaggio materiale.
Lo aveva intuito benissimo proprio il vecchio ispettore delle strade del Punjab, che senza dir nulla alle autorita' locali, dal dopoguerra a oggi e' riuscito a ricreare uno strepitoso mondo di allucinazioni nel parco della citta' piu' verde dell'India intera. Radici che prendono forme mostruose fra nevi di ceramica riciclata, spettrali ominidi che risorgono dai rifiuti e ti fissano come zombie dagli angoli defilati di fortezze fantasma, mentre cascate a tradimento e danzatrici in teak disegnano i confini di una terra proibita, eppur da sempre familiare.
La scelta di ricorrere all'arte del riciclo, per evocare le potenzialita' inespresse dei una realta' che si consuma senza mai morire, e' forse il primo degli insegnamenti che ogni buon esploratore della Terra delle Nevi deve mandare a mente. Una volta arrivati a Dharamsala, infatti, potrebbe provocare uno shock la scoperta che proprio i fuggitivi di Lhasa sono i piu' astuti tessitori di finti bisogni e demoni del desiderio, capaci di reiterare a piacimento la loro sacra capitale, solo per soddisfare l'inconscia richiesta dell'uomo di farsi catena ad anelli. Storditi da incensi dolciastri, litanie mormorate, distorti sibili di conchiglie a fiato e sinistre trombette, i guerrieri dello spirito hanno ormai compreso appieno il valore delle fitte nebbie che li avvolgono, cosi' come la suggestione dei veli di Maya. Hanno piegato la storia del loro paese al mito di un museo che dice solo mezze verita'; sfruttano l'antica cucina per sedurre assetati di fede con
corsi a buon mercato e, non di rado, s'approfittano pure delle scuole di massaggio per soddisfare una sessualita' ferocemente castigata (pare che, sino a non molti anni fa, chi non riuscisse a controllare i propri impulsi, dovesse farsi cadere un masso sui testicoli!). Parlano di compassione universale per l'uomo, ma sono solo loro a fare compassione, prigionieri di superstizioni e incapaci di vincere i propri secolari vizi.
Dopo uno spettacolo degno dei secoli bui del monastero di Samkya, non ho resistito dal lanciare una filippica sul registro degli ospiti. So che cosi' la mia copertura potrebbe saltare da un momento all'altro. Ma negli occhi di un pellegrino offeso per tanta mercificazione, nella sua mano tremante di sdegno mentre passava le perline del suo rosario, nel suo sospiro di anziano tradito ad un passo dalla tomba, incommensurabile era l'appello ad una giustizia piu' alta. Quella che solo ripara alla fine dei sentieri piu' impervi e guarda la valle con sovrano distacco. Piu' a nord ancora, verso l'enorme gola di Spiti, la promessa di Shamballa ci chiama con ostinazione e fierezza...

Un inchino feroce
Albert Schaefer



Yak postale n.3 - Nel regno di Guge (01.08.09)

...avrei dovuto dar retta a Lupin, Jigen&Co. Quanto piu' il regno di Guge effonde malia, tanto piu' avvince in una morsa oppiacea.
Non ho incontrato giganti che giocano a scacchi con umani, ne' discinte ninfe che avvelenano col loro segreto nettare, ma certo il tempo himalayano ha preso lentamente a sfumare nella dimensione di un sogno arcano: quanto ricordo da Dharamsala a Kaza, pare infatti niente piu' che un'ubriaca danza chaam di maschere proteiformi.
Eppure nella capitale degli esiliati ancora avevo avuto la forza di chiedere l'istituzione di una cattedra di filosofia teoretica nell'universita' dei berretti gialli, onde sbugiardare i decreti del vicino Kashag e offrire agli inermi monachelli la possibilita' di aprire la mente ad orizzonti piu' ampi. All'arte dialettica che trascende il pedissequo riprodurre le pitture thangka, o l'occuparsi di erbe medicamentose appartenenti ormai ad una terra troppo lontana.
Persino la notte ero stato in grado di non farmi giocare da un'adescatrice di Hong Kong, che pur con qualche problema di stomaco alla vista delle toilette di sosta verso Manali, tentava di strapparmi confessioni filocinesi con moine da bus notturno, per poi rivelarsi al primo check-point un subdolo agente sudcoreano.
Alle porte della valle di Spiti, verso le appendici del mitico regno di Guge, qualche demone tantrico dev'essersi pero' insinuato nei miei orifizi. Le avvisaglie sono stati gli urti di vomito durante i mille tornanti del Rothang Pass, ridotto ad una poltiglia di fango onnivoro, in grado di risucchiare ben piu' di qualche veicolo in affanno.
Mentre mi allungavo verso il finestrino, per quasi sette ore avvicinabile stando in equilibrio soltanto su una gamba, la divina bellezza dell'Himalaya, pudicamente cinto da pepli di vapore, ha comunque impedito ai miei occhi di scorgere variopinte macedonie riversarsi in aria dai sedili accanto. Giunto quindi all'antico monastero di Keylong, le gambe non si sono neppur accorte di aver scalato ottocento metri in appena quattro chilometri, rapite dall'ipnotico richiamo di un tamburo cerimoniale e dai gorgheggi di un monaco eremita.
Infine anche l'orologio mi ha abbandonato.
Ancora non so se siano trascorse sette ore o centocinquantanni nel grazioso villaggio di Granphu, indicato dalla guida come trafficato punto d'incrocio per raggiungere il cuore di Guge, perche' null'altro segno di civilta' ho colto, al di la' di una locanda in pietra grezza e sterco di yak. Solo macchiettistici personaggi scaricati da bus e jeep, diretti tutti verso la stessa meta, benche' mai fosse quella desiderata.
Un tronfio francese dal codino intrecciato e in sospetta compagnia di un'orfana del Bengala; una coppietta israeliana con pargolo riccioluto al seguito, che nel suo slancio fraternizzante si e' poi imbarazzata alla vista dell'innocente libro strappatomi di mano (il bellissimo resoconto della spedizione di Ernst Schaefer in Sikkim nel '39, dal titolo La Crociata di Himmler, con suggestiva foto del gruppo SS sotto la svastica del chogyal locale); quindi un'angelica mammima afrikaan con altro putto in groppa, fascinosamente abbrustolita dal sole di Leh e dal look crostaceo tipico di chi viaggia ininterrottamente da giorni.
Quando gia' la notte incombeva su un piatto di riso e fagioli saltati, ecco pero' svoltare verso Spiti una jeep alticcia. Grazie alla collaborazione di un pastore afghano e della sua roboante mandria di capre talebane, sono riuscito a bloccare subito il mezzo, implorando un passaggio per la valle proibita.
Ne e' disceso un David Niven completamente sbronzo, in calzini rosa e dal ruttino sommesso, ma con un impeccabile accento capace di farci sentire subito delle merdacce vittoriane.
Chris si sarebbe in realta' rivelato un driver straordinario, sprezzante della notte cieca e delle sue curve suicide, forte di due lattine di birra, ma soprattutto di un logorroico farfuglio inneggiante la sua vita nomade.
Insieme alla mammina afrikaan e al putto addormentato, posso infatti dirmi l'unico privilegiato che ha appreso della sua fuga dall'Inghilterra punk per le periferie dell'impero, senza sterline in tasca, ma con ottime idee sul neonato turismo di massa.
Purtroppo ci siamo addormentati tutti al secondo fallito tentativo di guadare un torrente da parte di una 500 formato Tata, ma all'alba delle tre Chris e' infine riuscito ad affidarci alle benevole mani di una vecchina tibetana, titolare di uno sperduto rifugio ad oltre quattromila metri.
Appariva visibilmente addormentata al nostro arrivo, ma si e' comunque sforzata di mostrarci con grande cortesia la grotta dove riposare: a dire il vero, deve aver forse sospettato che io, la mammina afrikaan ed il putto fossimo la reincarnazione della Sacra Famiglia (eppure tutti dovrebbero sapere che di Giuseppe ne esiste soltanto uno, con splendidi baffi corvini e appassionato di trattamenti Agiolax!), o, piu' verosimilmente, dev'essersi poi convinta fossimo bradi spettinati di qualche valle remota, perche' ancora non riesco a capire la sua raccomandazione di non disturbare la stalla, cosi' come l'inaspettata offerta di biada.
Nell'attesa dell'ultimo passaggio per un villaggio che gli intrepidi forestieri immancabilmente storpiano nel nome di un membro intirizzito, nuove ere sono trascorse nel silenzio immoto di mistiche pietraie; alla fine un messo divino si e' pero' concretizzato in un abbaglio di sole morente, introducendoci a ignote meraviglie mummificate da chilometriche spirali.
La misoginia delle cellette di Ki, arroccate sugli incisivi di un drago ridotto in polvere; l'orgoglio fallico della fortezza di Dhankar, da cui un tempo regnavano sovrani perdutamente innamorati di Bukhara e Samarcanda; il fango demiurgico di Tabo, un monastero fragile quanto un verso sussurato al vento, eppur sola ed unica testimonianza delle pire infuocate dalla Rivoluzione Culturale.
Immota e cristallina, pietrosa e torrenziale, la valle di Spiti conserva gelosamente il segreto dell'eterna giovinezza. Si abbevera del sudore di chi la percorre bruciato dal Sole nonostante un impeccabile maglioncino H&M in testa, mentre ciondola accanto a forre spaventose e a squaciagola canta versi voodoo propiziatori. Qui ancora passeggia meditabondo il grande traduttore buddista Ringchen Tzangpo, incerto se spingersi alle propinque corti del Tibet interno o verso gli aridi crinali di Mustang; qui donne dai lunghi capelli al vento sfidano l'ardita passione degli uomini per le folli corse a cavallo, mentre yak spettinati sbadigliano sfacciatamente, pensando a quanta strada dovranno fare per raccontare cio' che parola mai potra'...

Una capriola tantrica,
Albert Schafer



Freccia prioritaria n.1 - Port Blair (07.08.09)

Aria pesante a Port Blair. Umida e tesa come l'arco di un Jarawa acquattato. Sulle isole Andamane i vecchi fantasmi continuano ad imperversare indisturbati, terrorizzando gli sparuti forestieri qui dirottati da un governo sin troppo sospettoso. Le mie ricerche lungo i crinali dell'Himalaya non devono essere passate inosservate, visto che i servitori di Sua Maesta' hanno incaricato un etereo sufi affinche' mi distraesse durante gli spostamenti, in modo tale da dirottare l'aereo su cui viaggiavo verso la "Cayenne britannica". Mossa davvero astuta! Il saggio ha attaccato bottone chiamandomi con un curioso nomignolo: "Issa! Issa!". Quindi si e' portato la mano al cuore ed ha accennato un deferente inchino. Piano piano si e' confidato, associando immancabilmente la mia persona a quella di un vetusto santone del Kashmir, poi rivelatosi niente meno che Gesu'. Brividi! Ha insistito affinche' andassi a visitare la sua tomba, la stessa che avevo menzionato nel mio
reportage su Israele in tempi non sospetti, ma quando ho gettato l'occhio dall'oblo' era ormai troppo tardi. Il Sikkim si e' allontanato fra le nubi, mentre un mare tempestoso ha allungato i suoi artigli verso l'aereo.
Certo la notizia non mi ha lasciato indifferente, tanto piu' che echi e ricorrenze pare vogliano guidarmi proprio lassu', fra le remote vallate dove da secoli tre mondi si osservano assorti. Per fortuna il viaggio e' ancora lungo :-)
Dal canto loro le Andamane sprigionano un fascino sporco e maledetto.
Apparentemente liberi di circolare fra ville coloniali stritolate dalla jungla e resti di carceri che hanno portato a perfezione l'incubo disciplinare del Panopticon, i nuovi isolani non hanno di fatto alcun diritto. Appena atterrati sono costretti a firmare una confusa dichiarazione di sottomissione ai regolamenti locali, quindi le strade iniziano a prendere pieghe obbligate, le voci ad inseguirsi clandestine, i sorrisi a spendersi con un'ipocrisia insopportabile. Su tutti, quello dell'impettita Mrs Sodhi, segretaria generale del dipartimento del Tribal Welfare, pronta a discreditare in ogni modo le popolazioni aborigene, pur di evitare qualsiasi contatto fra loro e i nuovi giunti. Offrono vecchie foto, si appellano agli studi di fantomatiche istituzioni antropologiche (dietro cui si sono nascosti per anni gli interessi economici delle grandi aziende hindu'), reclamano l'assenza di mediatori linguistici, ma guai a puntare il naso oltre le porte del
Sekretariat. Solo l'idea che qualcuno possa invitare gentilmente i locali ad esprimere il proprio parere, magari sulla convivenza con gli invadenti coloni bengalesi, mette le scrivanie del governo in seria agitazione, spingendo a sguinzagliare spie su tutto il territorio.
Non avranno vita facile. Nei prossimi giorni tentero' una sortita lungo l'asfittica Andaman Trunk Road, col chiaro obiettivo di avvicinare gli stralunati Jarawa, cui l'umana curiosita' d'approccio verso il Nuovo viene negata a suon di pallottole e check-point. Peggio ancora va agli abitanti di North Sentinel, cui viene rinfacciato di aver usato frecce avvelenate contro contrabbandieri di legname, venendo cosi' relegati ai margini della loro isola di cocco. Sugli gli Onge possono vantare invece una meticolosa opera di cancellazione dell'identita' etnica, compiuta a suon di aiuti statali e tentazioni consumistiche.
Mentre riflettevo davanti alle rovine arrugginite di Ross e Viper Island, dove la gloria dell'Impero si regge in piedi come uno scheletro in un cimitero voodoo, fra nebbioline sinistre, bunker giapponesi ed urla strozzate di piccioni nicobarensi, lo sdegno contro l'ipocrisia del neocolonialismo e' tracimato. Una volta ancora una voce silenziosa mi aizza a nord, la' dove borbottano vulcani di fango e caverne calcaree deglutiscono a fatica...a noi lance e frecce! Si torna a caccia, dannati bastardi...

Pugni sul petto a tutti!

Albert Schaefer



Shikaran raccomandata n.1 - Bandipur (17.08.09)

Forse erano talebani in avanscoperta. Forse soltanto tribu' sbandate in cerca di facili prede. Non lo sapro' mai. L'avanzata verso la recondita tomba di Mose', rimasta ostaggio nella striscia di confine fra Kashmir e Pakistan, e' stata bruscamente interrotta da alcuni spari nel vuoto. In pochi secondi mi sono ritrovato con la faccia schiacciata nella terra, due militari sopra la schiena e il block-notes in una posizione intima piuttosto invasiva. E' arrivato cosi' il mio battesimo in qualita' d'improvvisato reporter di guerra. Come, le Andamane? Ah si', si', l'ultimo contatto risale ormai a diversi giorni fa e l'attacco potrebbe suonare depistante!
La missione nell'arcipelago maledetto si e' in realta' conclusa nel migliore dei modi, sebbene il contatto con le tribu' locali abbia richiesto perseveranza e scaltrezza, dovendo infrangere piu' volte i severi diktat della polizia forestale. Il primo raid lungo la Trunk Road aveva infatti fruttato alcuni scatti preziosissimi, ma durante i controlli di rientro - all'ultimo check-point - ho dovuto consegnare la macchina fotografica al cosidetto "Corpo di protezione Jarawa" e tutte le istantanee a tema ivi custodite sono state cancellate senza pieta', con multa simbolica di 300 rupie.
Mai sfidare i nati sotto il segno dell'Ariete! Lasciati trascorrere alcuni giorni di macchia, preziosisissimi per allacciare conoscenze strategiche lungo la sabbiosa spiaggia di Corbyn Cove, ho trovato un valido alleato nel gigantesco Roman, un giovanotto moscovita guadagnato alla causa con fine retorica soviet. Quando ancora il sole sonnecchiava pigro dietro le tentacolari liane di Barratang, il tandem d'assalto "Krasnji Udarniki" gia' rollava sulla prua di uno sgangherato bus protetto da placche d'acciaio. Udarnik77 con l'indice bollente sul tasto di scatto, Udarnik79 con un improponibile berretto conico calcato in testa (eredita' del nonno caduto a Stalingrado e suo portafortuna nelle missioni suicide), ma saggiamente dotato della fatale arma segreta di ogni recluta slava, ben piazzata in uno zainetto coperto di maialini volanti in pizzo. Un vaso di cetrioli piccanti mediante cui accattivarsi la golosita' dei selvaggi o, nel caso, strozzarli con un
tasso di spezie sottilmente depositate sul fondo e pronte a volatilizzarsi al primo scossone d'emergenza.
Udarnik79 si e' purtroppo dimostrato impulsivo e, al primo incontro in velocita', ha sfoderato subito il cetriolo piu' eretto, facendolo oscillare davanti agli occhi degli stralunati Jarawa. In risposta i selvaggi hanno fatto un gesto osceno e Roman e' parso rimanerci male.
"Cosa avranno voluto dirci?" - mi ha chiesto dopo alcuni minuti di muso offeso. "Nulla, Roman. E' il loro modo di dare il benvenuto". "Ah ecco - ha ribattuto - perche' il cetriolo era davvero di prima qualita'". "Non avevo dubbi, compagno. Viva Stalin!". "Si', viva Stalin!".
Recuperato Udarnik79 inanellando dieci motivi storici dell'Armata Rossa, ci siamo infine concessi una pausa in piena jungla, in attesa del traghetto arrugginito diretto alle sinuose grotte di Middle Andaman e al suo gorgogliante vulcano di fango.
E d'improvviso loro. Cosi', senza alcun rullo di tamburo. Senza nessun lancio di frecce. Fieri ed impettiti, silenziosi come il vento fra le felci sudate, sono apparsi piu' neri della notte: lui con l'arco al collo e lo sguardo sdegnoso, lei alle sue spalle, nuda e sanguinaria, col machete saltellante da una mano all'altra, pronta a colpire al primo click. Ma i due Udarniki, inscendando una frenetica morra cinese, avevano sagacemente nascosto lo zoom fra le cosce, pronti a scaricare le proprie armi sul nemico.
Non erano nemici. Non volevano neppure sgozzarci. Desideravano soltanto capire cosa mai fossimo e da dove venissimo...al ritorno un bimbo Jarawa e' balzo come un leopardo sul fianco del nostro bus, alzando la mano in segno di saluto, un sorriso sdentato sulle labbra. Il controllore lo ha prontamente respinto con una manata in faccia, aizzando l'autista ad ingranare la quinta, nonostante il piccolo stesse rantolando nella polvere...addio, piccolo Jarawa. Questa e' l'India d'oggi. Questa e' la civilta' del progresso e del libero mercato. Addio, piccolo Jarawa. Laggiu', nell'umido asfalto, in mezzo alle cartacce dei ghiaccioli e alle bottigliette di Sprite, lasciate in dono dai tuoi protettori...
Sono quindi seguiti giorni confusi di bus soffocanti diretti in Sikkim e monsoni degni di biblici diluvi, stelle comete nel cielo e apparizioni in sogno di un vetusto esploratore russo in Kashmir, visioni di Cristo nello specchio ed echi di una terra solcata da misteriosi templi ebrei e tombe santissime...

Ma questa e' un'altra storia.
La storia di Albert Notovic.

Paka', Tavarisci...
Alja



Shikaran raccomandata n.2 Srinagar (21.08.09)

A momenti mi rotola dalle scale. "Mein Gott, e' tutto finito!". Gli duole un piede e ad ogni gradino non riesce a trattenere un fumettistico "Oii, oii...". Eppure insiste, si aggrappa al corrimano e con gesto sovrano mi invita a seguirlo nel suo salottino stracolmo di libri. L'immagine che avevo del professor Hussnain e' ben diversa dall'attuale, ma d'altra parte si era formata su una foto di oltre vent'anni fa, quando nel pieno vigore delle forze aveva fatto tremare le colonne di S. Pietro e, grazie all'aiuto di un giovane collega tedesco, era riuscito a trapiantare le sue teorie da un capo all'altro del mondo.
Mai mi sarei dunque aspettato che un sufi tanto importante mi ricevesse al primo colpo di telefono, soprattutto dopo avergli confidato il desiderio di discutere in poche ore un argomento delicatissimo quale la sopravvivenza di Cristo alla crocifissione.
A Srinagar puo' essere molto pericoloso citare o interessarsi agli studi di Hussnain. Quando mi sono avvicinato all'umile tomba di Yuz Asaf, nel cuore della citta' vecchia, un gruppo di filopakistani mi ha quasi strappato dal collo la macchina fotografica, minacciandomi con un dito lasciato scorrere sottogola. Asaf e' il loro santo, un santo musulmano; guai dunque ipotizzare che quel sepolcro possa contenere le spoglie mortali del Messia. Eppure anni di ricerche provano che davvero le due figure sono la stessa persona, sebbene la fuga dalla Palestina omicida abbia costretto Gesu' a cambiare il proprio nome. Accanto alla tomba e' presente addirittura un calco dei suoi piedi, con tanto di stigmate, ma gia' gli invasati spintonano ed urlano insulti in una lingua feroce. I soldati pakistani che hanno invaso il Kashmir negli anni '90 hanno pero' fatto di peggio: mossi dall'odio verso qualunque forma di dialogo, in un infausto pomeriggio sollevarono la pietra
magica di Mose', da cinquemila anni riverita ai bordi del fiumiciattolo di Bijbihara, scaraventandola fra i flutti. Della tomba del padre d'Israele, per la visita della quale ero riuscito a strappare la scorta di due militari oltre il fluttuante confine col Pakistan, da anni non si sa piu' nulla: ogni ricerca o spedizione e' ormai impossibile e si vocifera sia caduta sotto il controllo di bande talebane, qui invitate con discrezione dal governo di Islamabad per mettere sotto pressione le truppe indiane.
Nonostante le guerra in Kashmir paia assopita, la tensione e' sempre altissima e ogni passo in citta' o in campagna e' accompagnato dallo sguardo rapace di oltre 70 unita' dell'esercito di Delhi, per un totale di quasi mille uomini, in allerta 24 ore su 24. Ovunque macerie, fili spinati, muri forati dalle pallottole e controlli asfissianti in nuvole di polvere.
L'ente turistico puo' cosi' insistere nel presentare Srinagar come l'idillica citta' galleggiante un tempo adorata dagli alti funzionari di Sua Maesta', ma al momento l'unico luogo sicuro sono le colorate shikaran che scivolano sull'acqua del Dal Lake. Forse anche la villa di Hussnain, protetta da alte inferriate e nascosta in un labirinto di vie ai margini del centro storico.
Per ore parliamo di storia delle religioni, antiche filosofie, vangeli apocrifi e politica internazionale, vincendo piano piano la reciproca diffidenza, sino a scoprire un anelito verso la verita' sorprendentemente identico. L'anziano Hussnain ha quasi le lacrime agli occhi, mi stringe la mano, mi accarezza come un nonno e m'invita a lottare contro qualunque forma d'ignoranza e superstizione. "Lasciamo le religioni in pasto ai cani! Noi dobbiamo credere nell'universalita' della natura umana, nella reciproca fratellanza, nella forza della critica".
Ora sono io a sentire il cuore battere con esuberanza e, nell'osservare la penna fra le dita, tremo di furor bruniano. Ho percorso chilometri e chilometri, solcato terre lontane e violato antichi segreti, ma al cospetto di quest'uomo i fili di ogni viaggio sembrano magicamente intrecciarsi. Sara' l'effetto dell'estasi mistica sufi: capisco perche' un regista francese mi ha abbracciato con incredibile vigore al nostro addio, sotto una statua di Buddha alta otto metri in pieno deserto ladakho; capisco perche' il titolare dell'houseboat ove ho soggiornato qui in Kashmir ha insistito sino allo sfinimento perche' a notte fonda ci perdessimo in canoa fra i flutti, per ritrovarci poi a contemplare le stelle su un tetto e a bere birra proibita; capisco perche' il pazzo Abdoul torna ogni sera a trovarlo su un asse marcio della palafitta in cui vive, raccontando di aver inventato strepitosi marchingegni, come una macchina fotografica che ti risucchia
nell'obiettivo, sparandoti agli antipodi del mondo.
Ogni pietra del Kashmir ha cosi' tante storie da raccontare, che non sorprende continui ad essere considerato una terra a venire, una terra da secoli immemori proiettata al futuro, una Terra Promessa. Certo l'umilita' della tomba di Yuz Azaf, al tempo stesso simbolo supremo di discordia e riconciliazione, si addice meglio alla natura del Cristo, volgendo l'occhio al business dei pellegrinaggi israeliti. Un po' come nella scelta del Santo Graal di fronte al Cavaliere del Destino: ne' oro, ne' argento per il Re dei Re, soltanto il legno sgrezzato di un anonimo calice.
Strano come il caso o il destino abbia voluto portarmi, una volta ancora, la' dove il suolo tracima sangue, in una regione dalle ferite aperte e dalle armi mai sazie di anime innocenti.
Osservo il Sole tramontare oltre il Trono di Salomone e sono finalmente in pace.
Almeno sino a domani.

La mano al cuore.

Albert Notovich



Carroarmato espresso n.1 - Attari (26.08.09)

La risposta indiana non si e' fatta attendere molto. Dopo le incursioni dei cugini islamici sul fronte nord, ad Attari e' andata in scena una battaglia bolliwoodiana fra fanti dall'ugola arrossata e carroarmati in grado di sparare samosa sino a Lahore. E si' che mi ero pure preparato spiritualmente, meditando tutta mattina lungo i bordi della piscina su cui scintilla il Tempio d'Oro dei Sikh. Convinto di dover sostenere uno scontro letale, l'ultimo giorno della mia spedizione avevo infatti deciso di sottopormi al rito purificatore del buon guru Nanak: ruminare lenticchie sul far dell'alba, affinche' la masticazione entri gradualmente in sintonia con gli ondeggiamenti dell'acqua celeste, dispensando la segreta leggerezza del guerriero alato.
Purtroppo la mia preparazione non ha convinto gli alti gradi dell'esercito.
Preso contatto con le truppe nemiche, sono stato prontamente relegato in cima ad una tribuna, da cui potevo gettare solo lo sguardo oltre la barriera di divisione dei due Stati. I miei compagni d'armi hanno invece iniziato a ballare sulle note dei loro idoli pop, lanciando le gambe piu' in alto di spogliarelliste parigine, gonfiando il petto a mo' di galletti crestati, per testare infine la loro capacita' polmonare nei microfoni di un cultore del karaoke. Motivo chiave: "Paaaakistannnnn! Prrrrrrrrrrrrrrrr....". Cinque. Sei. Sette minute di pernacchie sulfuree. Stessa sinfonia dall'altra parte del confine: "Indiaaaaa! Prrrrrrrrrr....". Otto minuti! Inammissibile! E via di nuovo alla successiva maratona di pernacchie. Le provocazioni sono andate avanti per circa un'ora, accompagnate da parate grottesche, con la folla ebbra d'orgoglio nazionalista e le bandiere alzate o ammainate con meticolosa precisione, in modo da non concedere all'avversario il diritto
di reclamare la propria superiorita' in cielo o in terra.
Pare che l'India si sia aggiudicata lo scontro sulla distanza, dal momento che il supporto dei pakistani e' risultato poco incisivo. Al primo giorno di Ramadan, hanno pensato di rivingorire il proprio spirito in altro modo. Gli indiani, in premio, si sono pappati una montagna di samosa inesplosi.
Totalmente spiazzato, al rientro ad Amritsar non ho potuto fare a meno d'interrogare il misterioso saggio incappucciato che, durante tutto il giorno, ha pregato all'interno del Tempio d'Oro per le sorti del Paese.
"Abbiamo vinto?". "Abbiamo perso?". "Quale sara' dunque il mio ruolo nell'India di domani?". "Quale la direzione da prendere?".
Avvolto in spirali d'incenso e col volto celato nella penombra, il saggio ha iniziato a dondolare la testa con fare enigmatico. Quindi si e' voltato di spalle quasi incupito. Uno scatto e, le mani al cielo, ha infine gettato il suo mantello in aria, urlando in portoghese: "Fooooi a mais linda História de amor/Que me contaram/E agora eu vou contar/Do amor do príncipe Shah-Jehan pela princesa Mumtaz Mahal...". Sono rimasto basito per cinque minuti. Poi, d'improvviso, l'illuminazione e l'urlo di risposta! "Taj Mahaaaaallll, Taj Mahaaaallll". E lui, tutto sorridente, finalmente ha assentito ieratico: "Quella e' la direzione! Si torna a casa". Piu' tardi ho poi scoperto di chi si trattasse. Poche parole per tradirlo. "Ebbene si', questa e' l'India: Incredible India!".
Sogno? Realta'? Forse sono semplicemente la stessa cosa.

Un botto a salve!

Albert Notovich

martedì 5 maggio 2009

LINNEO E IL TEMPO DELLE MELE

Se esiste un frutto da sempre capace di sedurre l’immaginario dell’uomo, questo è la mela. La ritroviamo nel giardino dell’Eden come simbolo della conoscenza e del peccato; è il dono con cui Paride celebrò la bellezza della dea Afrodite, omaggiandola addirittura di un esemplare d’oro; rappresenta il punto di svolta del pensiero scientifico, avendo avuto l’onore di colpire la testa di Isaac Newton mentre rimuginava sulla teoria della gravità universale. Gli episodi di colore abbondando e sarebbe quasi un torto non ricordare che proprio una mela fu il frutto utilizzato da Guglielmo Tell per provare la sua abilità con l’arco, ponendola coraggiosamente sulla testa del figlio, o il mezzo di cui si servì la strega cattiva per sbarazzarsi di Biancaneve.

Le sue origini sono infatti antichissime, dal momento che pare fosse consumata già in epoca Neolitica nei territori dell’Asia centrale: oggi se ne contano al mondo oltre 2000 varietà. Un numero impressionante, ma che lascia ben intuire la sua adattabilità a qualunque stagione, per quanto richieda la presenza di specifici impianti nel momento in cui superi il periodo naturale di maturazione, cioè a cavallo fra la fine di agosto e la metà di ottobre.

Non deve stupire, dunque, se in Svezia sia stata addirittura fondata una “Casa delle mele”, dove non solo è possibile conoscere gli aspetti più sconosciuti di questo strabiliante frutto, ma seguirne tutte le fasi di coltivazione e rielaborazione per le finalità più disparate. La “Appletshus” (www.appletshus.se) si trova nella ridente cittadina di Kivik, sulla costa orientale della Scania (Svezia meridionale), proprio a ridosso delle spiagge di sabbia bianca del parco nazionale Stenshuvud. E’ suddivisa in 10 aree tematiche attraverso le quali si spazia nell’universo della mela sia dal punto di vista agricolo che culturale, potendo osservarne in presa diretta anche le varie fasi di lavorazione per ottenere sidro, limpidi succhi, creme o prodotti alcolici.

Usi dettati dalla sua notevole ricchezza di vitamine, ma anche per il fatto che, all’interno della buccia e della polpa, sia presente un alto numero di terpeni in grado di variarne infinitamente il profumo così come il sapore, contribuendo dunque ad esaltare le sue virtù seduttive. Non da meno sono poi le proprietà terapeutiche (basti ricordare il proverbio: “una mela al giorno leva il medico di torno”), visto che il succo di mela strofinato sulla pelle agisce da rassodante, mentre se mischiato con succo di limone contribuisce al suo schiarimento. Tagliata a pezzi e cotta in mezzo bicchiere di latte la mela serve invece come antirughe, a differenza di quando viene usata a fette crude, ideali per tonificare la pelle mediante una maschera da tener applicata almeno 45 minuti (se la mela viene poi grattata e unita a miele e yogurt, infonde vitalità a pelli secche o spente).

“La “Appletshus”” si apre con una stanza dedicata alle conserve storiche di mele e delle bacche ad esse spesso abbinate – illustra Charlotte Van Engelhardt, responsabile comunicazione per la struttura - andando quindi a focalizzare l’attenzione sull’epopea della famiglia Aakesson: quattro generazioni fa, attorno al 1888, il capostipite Henric (che porta il nome dell’attuale erede) decise infatti di seguire i consigli del padre della botanica Carl von Linné, piantando i primi meli in una regione dall’intensa luce. La ricchezza di minerali del suolo e i lunghi autunni fecero sì che l’intuizione si rivelasse quanto mai feconda, tant’è che qui fiorì presto una produzione dal peculiare aroma che guadagnò fama in tutt’Europa”.

Il sito odierno non è che l’estensione e l’ampliamento dell’originale, via via arricchitosi negli anni di nuove meraviglie: nel “giardino della cultura” si possono infatti trovare meli risalenti agli inizi del 20° secolo, come il “Signe Tillish” o il “Blenheim Orange”, ma anche un esempio di “pianta delle malattie”, onde mostrare le conseguenze dell’esposizione ai rodilegno, al fuoco batterico (Ervinia Amylovora) o alla ticchiolatura, che insieme ai batteri oidio e afidi sono fra le principali cause di malattie dei meli (qui combattute solo con metodi naturali, quali l’impiego di coccinelle per mangiare insetti parassitari e batteri, o ferormoni capaci di tenere lontano i predatori in virtù dell’odore rilasciato). Il cuore del giardino è però la “Collection Orchard”, un’area verde dove sono coltivate 70 delle migliori varietà di mele, fra cui un’apposita pianta da “appartamento” che cresce solo in verticale, proprio per ovviare ad eventuali problemi di spazio.

Le varie sezioni sono collegate da “percorsi aromatici”, le cui pareti sono cioè composte da erbe deputate a creare delle barriere naturali contro i freddi venti invernali, ma anche da piante decorative come il melo “Professor Sprenger” (noto per i suoi bellissimi fiori rosa in primavera e per i suoi frutti dal raro colore arancione) o i peri “Bonnie Louise”, risalenti addirittura al 1825.

E’ comunque all’interno della “Appletshus” che si possono comprendere meglio le fasi di sviluppo e lavorazione delle mele, grazie all’esposizione dei macchinari utilizzati per ricavarne succhi integri in tutte le loro proprietà naturali, o per la presenza di spazi dove concedersi saggi di degustazione che oggi coinvolgono anche il settore gastronomico ed enologico (ci sono piatti esclusivi e torte a base di mele, ma anche vini di mele, di pere e d’uva ricavati da una qualità toscana del Chianti). Non mancano infine aree espositive dove vengono allestite mostre tematiche o conferenze (l’auditorium a disposizione può contenere 100 persone): fino al prossimo autunno, ad esempio, sarà possibile ammirare gli splendidi ritratti del fotografo francese Francois Gillet, i cui scatti dedicati alla transitorietà dei frutti sono raccolti sotto il titolo “Gioielli del mio giardino”.

“La “Casa delle mele” ha acquisito fama internazionale – riprende Van Engelhardt - per il suo ruolo chiave nel lanciare sul mercato nuove varietà o succhi arricchiti di proprietà salutari, grazie al contributo di rare bacche importate e coltivate poi in sede. Fra le protagoniste di questa stagione spicca la “Japanese Quince” (Chaenomeles japonica), una sorta di mela-limone molto dura, il cui colore può digradare dal giallo chiaro all’arancio scuro, molto apprezzata per marmellate e liquori. Notevoli sono poi i succhi a base di “Havtorn” (Hippophae Rhamnoides), una bacca arancione originaria della catena montuosa siberiana dell’Altaj, che i monaci tibetani iniziarono a raccogliere dopo aver notato quanto i loro cavalli ne fossero ghiotti (da qui l’origine del nome latino). Il suo succo, mescolato con quello della mela, è un provato ricostituente, tanto da esser stato considerato per secoli un elisir di lunga vita”.

Imperdibile, infine, è l’appuntamento tradizionale che va in scena l’ultima settimana di settembre e di cui quest’anno cade il 20° anniversario (www.kivikmusteri.se): un festival della mela che prevede un concorso di pittura dove i colori non sono altro che le varietà del frutto. In omaggio alla figura di Linneo, di cui si celebrano nel 2007 i 300 anni dalla nascita, è stato fra l’altro realizzato un ritratto che si avvale di ben 4mila mele. Parallelamente la comunità di Kivik assegna un prestigioso riconoscimento internazionale, la “mela d’oro”, a quanti si sono impegnati a realizzare progetti od iniziative utili a promuovere il frutto nel modo migliore. Fra i nomi entrati negli annali della manifestazione, spiccano quelli del noto cuoco Jan Hadt di Mälmo (2004) o del regista locale Richard Habert (1999). Perché “il tempo delle mele” non dura solo una stagione.

TAPPE DELL’ITINERARIO LINNEANO
La Appletshus di Kivik è la tappa più settentrionale di uno dei tanti itinerari botanici che, in occasione dell’anniversario di Linneo (1707-1778), è stato individuato a cavallo fra Danimarca e Svezia. Come anticipato nel precedente numero di Greenstyle, questa fu infatti la regione in cui maggiormente viaggiò il famoso botanico, passato alla storia per aver ideato il metodo di classificazione scientifico tuttora in vigore.
Il minitour comincia nel giardino botanico dell’università di Copenhagen (www.botanic-garden.ku.dk), fondato nel 1870 su una superficie di 10 ettari. Avendo inglobato nel tempo gli antichi bastioni della capitale danese, oggi questi fanno da suggestivi rilievi per la crescita di piante alpine e calcicole, benché qui siano coltivate a rotazione annuale più di 1.200 specie, su un totale di 20mila: fra gli esemplari più spettacolari, spiccano l’Haplopappus Glutinosus (Argentina), il Meconopsis Grandis (Himalaya) e la bellissima Primula Bulleyana (Cina), senza dimenticare l’ironico “cuscino della suocera”, un cactus “Aeonium” delle Canarie. Interessante anche la sezione delle piante terapeutiche, che vede nel Catharanthus Roseus uno dei rimedi più apprezzati per la prevenzione del cancro.

Risalendo verso nord, oltre l’avanguardistico ponte sullo stretto dell’Øresund, si passa in territorio svedese, dove ad attenderci sono la pittoresca cittadina medioevale di Lund (www.lund.se) ed il suo museo “Kulturen”, fondato nel 1892, il secondo più antico del mondo (il primo si trova a Stoccolma). Qui Linneo compì i suoi primi studi e, grazie alla ricostruzione architettonica attuata nel museo dal suo ideatore Georg Karlin, è possibile farsi un’idea di come fosse la città nei secoli addietro. Case trabeate in legno sono raccolte secondo le suddivisioni sociali dell’antico parlamento svedese: ci sono modelli che richiamano le abitazioni nobiliari, del clero, dei borghesi e dei contadini.

Ci si sposta quindi verso nord-ovest, per raggiungere l’importante città di Helsingborg, dove si staglia il castello di Sofiero (www.sofiero.se), un tempo residenza estiva dei sovrani svedesi ed oggi parco botanico apprezzato soprattutto per le sue collezioni di rododendri (introdotti in Europa proprio da Linneo). Benché risalente al 1864, l’attuale aspetto con torri e pareti luminose si deve ai lavori portati avanti agli inizi del Novecento sotto il principe Gustavo Adolfo: per l’anniversario del grande botanico è stato ricreato un tipico giardino del XVII secolo, mentre gli interni del castello sono stati arredati con essenze vegatali e floreali.

Sempre ad Helsinborg si trova il suggestivo museo-giardino Fredriksdal (www.fredriksdal.se), dove simpaticissime guide in vesti settecentesche conducono alla scoperta di uno dei più ricchi roseti di Svezia, ma anche di un orto strutturato secondo i principi di classificazione linneana e dotato di uno spazio ludico-propedeutico per i più piccoli. Districandosi fra erbe afrodisiache e velenose, è possibile compiere un viaggio a ritroso nel tempo, osservando l’evoluzione dei giardino sino al 1600.

L’itinerario si chiude con due tappe a Aahus, grazioso porticciolo dove risiede la fabbrica originale dell’Absolut Vodka svedese, e Ystad, roccaforte medioevale con una delle più imponenti cattedrali in mattone cotto, dotata di un giardino botanico al suo interno. Fra le due si trova appunto Kivik e la Appletshus, nonché il giardino-ristorante Olof Viktors (www.olofviktors.se), ma chi avesse tempo può sostare nei tantissimi garden della regione, presentati in dettaglio sul sito www.skane.com.

domenica 19 aprile 2009

IL TRIANGOLO DEI PIRATI






Le orme paiono ancora fresche. Potrebbero assomigliare a quelle di un piede umano, se non fosse per la presenza di una falange in più. “Forse la fanghiglia si è deteriorata” – azzardo in un improbabile slancio tardo-illuminista. Rob mi guarda con aria di compatimento e scuote la testa. “Cazzate! Ci dev’essere un duppy nei paraggi”. Circospetto, sfila quindi la sua inseparabile bottiglia di rum, facendo cadere qualche goccia proprio vicino alle orme. Un gesto che ricorda i riti propiziatori dell’Africa più nera, sebbene Little Cayman ansimi in un alveolo sperduto dei Caraibi. Ha un aspetto stravolto, con l’ispida barba scura impastata in treccine rastafarin, la pelle più rugosa di un’iguana blu e lo sguardo lontano di chi conosce bene le insidie dei Sette Mari. O forse sente ancora al collo l’umiliazione delle catene. Dinoccolato e vestito di pochi cenci scoloriti, dà l’impressione d’essersi appena messo in salvo dal naufragio di uno sloop pirata.
Non è proprio la figura che ci si augurerebbe d’incontrare sul far dell’alba, quando le lagune dell’isola vengono lacerate dai richiami di sule dalle zampe rosse e fregate dalla coda biforcuta, mentre l’acqua melmosa ribolle dell’impazienza del tarpone argenteo, un pesce d’incredibile agilità, che sfrutta l’onda lunga delle tempeste per lanciarsi in volo verso il mare aperto.
Sabbie mobili. Ponticelli marci. Fitti cespugli di mangrovie. Un tempo queste umide oasi non dovevano essere solo il rifugio prediletto di aironi guardabuoi o spettrali barbagianni, bensì un ricettacolo ove mettere in piedi capanne ubriache per riti voodoo.
“Se vivessi per un po’ qui, ti renderesti conto che le storie sui duppies sono tutte vere. Quando un marinaio muore, metà della sua anima sale in cielo, ma l’altra metà resta qui sino al giorno del Giudizio…e se non si sorveglia bene il cadavere per i tre giorni successivi, questa farà di tutto per scappare. E’ allora che la ritrovi in giro per l’isola e posso garantirti che un duppy non ha mai intenzioni benevole!”.
Dalle credenze meticcie non è difficile arguire come l’influenza di Sua Maestà sia arrivata tardi alle Cayman. Un tempo conosciute come Las Tortugas, per via delle numerose tartarughe giganti che Cristoforo Colombo avvistò nella sua spedizione esplorativa del 1503, le tre isolette a nord-ovest della Jamaica sono rimaste ai margini della politica imperiale britannica per secoli. Little Cayman e Brac iniziarono a popolarsi grazie all’arrivo di qualche profugo dalla scomoda vicina, trasformatasi in breve da capitale della pirateria caraibica ad acuminata spina della Corona, scaltramente infissa nel fianco delle ricche colonie spagnole. Grand Cayman, la maggiore, beneficiò invece del piano di assegnazione dei terreni che il governatorato inglese dei Caraibi inaugurò attorno al 1734, non riuscendo però a conquistarsi mai un posto di rilievo, se non come comodo scalo per rifornirsi di carne di tartaruga embricata e apprezzate corde di palma reale.
“Ma che motivo avrebbero di prendersela con noi?” – insisto spiazzato.
“Valli a capire! Secondo me hanno paura che qualcuno scopra i tesori nascosti per le isole, ma non escluderei che si divertano a far spaventare i passanti, solo per buttar giù un sorso. Le gente di mare ama far baldoria, in paradiso come all’inferno. Anche Bob cantava di loro, non ricordi?”.
Bob, naturalmente, è Marley. Il santone del reggae giamaicano, qui venerato almeno tanto quanto in patria, che raggiunto il successo s’affrettò ad ingraziarsi i maligni spiritelli caraibici, dedicando loro le suadenti “Duppy conqueror” e “My Cup”.
Di gioielli e monete d’oro sepolti si vocifera da secoli a Little Cayman, ma solo un pirata dal fegato spappolato potrebbe trovare l’idea saggia. Piatta e scabra, si gira a piedi in poche ore. Benché conti un centinaio d’abitanti, in 26 chilometri quadrati s’incrociano solo spiagge bianchissime e selvagge, un pittoresco centro d’osservazione ornitologica ed una sede di studi biomarini agognata da qualunque ricercatore oceanico. Per il resto, al Salt Rocks Dock l’antica miniera di fosfati è chiusa da anni, a scuola non si vedono mai più di un paio d’alunni, mentre la strada sterrata che disegna il perimetro dell’isola devia solamente verso il relitto arrugginito di una petroliera fantasma. E’ fra le pochissime incagliatesi in superficie, visto che i bassi fondali e il fitto intreccio di coralli, spugne e gorgonie hanno giocato più di un brutto tiro ai galeoni decisi ad avventurarsi per queste acque, finendo poi per consegnare ai fondali meraviglie leggendarie. Ne sanno qualcosa i discendenti del “naufragio delle dieci vele”, un convoglio di 58 navi andato a picco la notte dell’8 febbraio 1794, appena oltre la punta dell’East End. Nessun sub può poi dirsi tale, senza aver sfidato la vertiginosa parete di duemila metri del Bloody Bay Wall, o le cabine squarciate di un vecchio sommergibile dell’Armata Rossa, affondato nel breve tratto di mare fra Little Cayman e Brac.
“Comunque se avessi un tesoro per le mani, sicuramente sfrutterei il labirinto di cunicoli sotto il Bluff”. L’indice di Rob si leva proprio verso Brac, la cui parete rocciosa – 47 metri a strapiombo sulla rabbia delle onde - si scorge facilmente dal Point of Sand. Non è che la punta emersa di una montagna di corallo pietrificato di cui le Cayman rappresentano tre suggestive escrescenze, differenziandosi in tal modo da tutte le altre isole caraibiche, di origine vulcanica. In milioni d’anni le polveri dei vicini crateri si sono però infilate fra i vari strati del corallo, dando origine ad una pietra preziosa dalle variopinte venature, volgarmente nota come caymanite. Un gioiello che fa la felicità di ogni donna, più che un doblone o una maschera Inca. “Quando arrivano gli uragani, fra maggio e novembre, possono scoperchiare, risucchiare o distruggere qualunque cosa incontrino in superficie. Meglio sfruttare i cunicoli sotterranei, dunque; tanto più che oggi solo le grotte di Rebecca e Peter, o poche altre ancora sono aperte al pubblico, nel caso uno volesse capire effettivamente come un tempo i rifugiati trovassero scampo dalle tempeste. Per esplorarle tutte, bisognerebbe però essere agili speleologi e, soprattutto, ingraziarsi i pipistrelli”.
Sarà per quello che i Caymaniani riservano attenzioni spasmodiche per i Molossus Molossus. Ovunque si passeggi, non è difficile scorgere altissimi pali proiettati verso cieli blu cobalto, al cui apice una casetta con tanto di tetto e ingresso offre rifugio ai più veloci predatori della notte. Insieme alle iguane blu di Grand Cayman, lucertoloni preistorici vittime di auto frettolose e cani mattacchioni, sono fra le due specie più protette dell’intero arcipelago.
“A prima vista potresti scambiare queste isole per un Paradiso; in realtà la nostra è una vita di lotta. Sarà per punire l’avidità dei tanti pirati qui insediatisi, o dei finanzieri che oggi ne ricalcano le orme appellandosi a banche dalla bocca cucitissima, ma la violenza della natura pare volersi riprendere tutto ciò che l’uomo mette da parte. Ne sfida spudoratamente il diritto alla proprietà e noi possiamo rispondere soltanto come le formiche: mettiamo da parte il più possibile. Accumuliamo. Nascondiamo. E’ quasi un’ossessione nazionale”.
Il fatto che a Georgetown, la capitale delle Cayman, ogni vetrina ricordi le imprese di Barbanera o Calico Jack, mentre galeoni secenteschi presidino l’ingresso della baia in attesa dell’assalto di novembre (quando per una settimana intera tiene banco il festival commemorativo dei pirati, fra sfilate in costume e rapimenti di governatori), non è solo opportunismo d’immagine. Eccezion fatta per i pochi centri abitati, anche Grand Cayman si è guadagnata la nomea d’isola del tesoro, grazie al mantenimento di un vecchio sentiero – il Mastic Trail – che taglia da un capo all’altro la foresta umida dell’East End. A causa della superficie rocciosa e sconnessa, ribattezzata addirittura “Hell” (Inferno) là dove coralli millenari sono anneriti dai venti del nord, betulle rosse, mogani e begonie gialle hanno dato vita ad un groviglio di vegetazione intricatissimo, prediletto nei secoli da chiunque volesse far perdere le tracce di saccheggi o armi trafugate. Non a caso, nelle vicinanze, è possibile riconoscere ancora rifugi in pietra grezza difesi da cannoni ossidati, così come dal veleno della Comcladia dentata o della Mancinella, per non parlare dei graffi provocati dalle ruvide foglie di Cordia sebestena, un tempo usata come cartavetrata per lucidare i gusci di tartaruga.
Le antiche cittadine di Bodden Town o Pedro St. James, dal canto loro, ostentano case coloniche dal volto idillico, impreziosite con arredi tardo-settecenteschi e pizzi benaugurali, eppure sotto sotto hanno la coscienza sporca dei loro antichi inquilini. Il “castello”, ovvero l’unica abitazione in muratura oppostasi vittoriosamente a due terremoti, due incendi e ad almeno una decina d’uragani, fu infatti prigione per furfanti, teatro di sanguinose rivendicazioni della nobile famiglia Eden, oltre che prima e contestata sede del governo libero delle isole, dopo l’abolizione della schiavitù nel 1835.
All’ora del tramonto non è poi raro cogliere figure furtive che sgattaiolano per i cimiteri: allestiti in sabbia, decorati con bianche lapidi a forma di cuore o di nave, o segnalati semplicemente da strombi rosati (conchiglie che si avviluppano e risuonano come corni), celano a loro volta usanze sinistre. Soprattutto i più antichi, come quello di Prospect, occupato da casette spioventi che ricordano tanto le abitazioni di campagna inglesi cui i marinai del Seicento, prima di spegnersi con la ballata del mar salato negli occhi, regalavano il loro ultimo sospiro. Sempre in riva al mare, insidiati ogni stagione dalla furia impietosa dei flutti, continuano ad essere il luogo sacro per eccellenza dove interpellare gli spiriti defunti, custodi dei tanti misteri consegnati alle isole e che l’immancabile profumo di Llang Llang evoca in modo quanto mai evanescente.
Oggi i sottomarini dell’Atlantic permettono d’immergersi sino a 200 piedi e setacciare ogni angolo dei fondali; per un centinaio di dollari si può salire a bordo di modernissimi elicotteri da cui avvistare le incursioni dei barracuda, o le focose effusioni delle razze di Stingray City fra le cosce dei natanti terrorizzati; catamarani alati insidiano persino le baie vergini di Rum Point e Cayman Kai, mentre la dedizione dei botanici del parco “Queen Elizabeth II” non ha lasciato una pianta o un insetto senza nome. Eppure nessuno ha ancora scoperto il vero segreto delle Cayman, il triangolo dei pirati.
“Non servono mappe, né riti voodoo. Se guardi bene, capirai che ciò che tutti s’affannano a cercare è proprio davanti ai tuoi occhi”.
Il tempo di voltarmi per salutare Rob e di lui neppure l’ombra. Solo orme. A sei falangi. E il ghigno diabolico di Barbanera, che da qualche parte all’inferno, se la ride fra una bottiglia di rum e un paio d’orecchie mozzate.

DRAGHI TROPPO BUONI



Il caso Slugger ha fatto storia. Nato in cattività da due iguane blue, fu liberato nel parco botanico “Queen Elizabeth II” nel dicembre del 1999, conquistando tutti per la sua ruvida bellezza. Tre anni dopo una macchina da golf lo investì, ma sopravvisse miracolosamente. Neppure il tempo di rimettere una zampa all’aperto e di nuovo un pick-up gli passò sopra, senza però rompergli neppure un osso. Tutto sommato, la fortuna pareva dalla sua. Slugger stava infatti per diventare un gigante dal cuore tenero, avendo oltrepassato il metro di lunghezza all’alba del suo decimo compleanno, quando il 6 giugno del 2006 due cani randagi fecero irruzione nel parco botanico ove si crogiolava al sole, uccidendolo tragicamente. Oggi la sua tomba è allineata a quella di tante altre sfortunate iguane blu che, dall’arrivo dei primi colonizzatori, dei loro animali di compagnia e soprattutto dall’introduzione delle ingombranti auto americane, vengono uccise ogni anno nei modi più assurdi. Sorte davvero ingiusta per un animale che nei secoli è diventato un simbolo delle Cayman, grazie al colore blu-verde della sua pelle grinzosa. Delle 17 specie d’iguana presenti al mondo, la Cyclura lewisi è ora a rischio d’estinzione e sopravvive grazie agli sforzi del Blue Iguana Recovery Programme: un centro d’allevamento in cattività all’interno del “Queen Elizabeth II” che, ogni anno, contribuisce alla nascita di 80 esemplari, poi liberati in aree protette di Grand Cayman. Ne sono state avvistati in tutto un migliaio, ma le uova deposte in superficie, così come una dieta vegetariana non necessitante d’arti d’attacco, fanno sì che le iguane blu siano preda di qualunque animale in libertà. Uomo compreso. Fra i cartelli stradali delle isole, quelli segnalanti il diritto di precedenza delle iguane, o il rischio d’investimento all’avvio del motore, sono forse i più diffusi. Per contribuire alla loro salvaguardia, si può prendere contatto sul sito www.blueiguana.ky. John Marotta, storico leader del programma, è fra l’altro di origini italiane.

LA TEXANA DAGLI OCCHI D’AMBRA



Si chiama Gladys Howard, non dice mai l’età (ma orbita sulla settantina) ed è la vera regina di Little Cayman. Sua Maestà Elisabetta II le ha conferito infatti una medaglia d’oro al merito, per via del suo impegno nella difesa dell’habitat dell’isola e per aver promosso la costruzione del Centro Visitatori del National Trust, un grazioso edificio coloniale da cui è possibile rimirare col telescopio l’incredibile avifauna del Booby Pond, o dove erudirsi grazie all’unica biblioteca di Little Cayman. Titolare del Pirates Point, un resort a gestione familiare, sforna dolcetti e prelibatezze con la stessa facilità con cui pubblica libri di cucina (imperdibile il suo Little Cayman cookin’), conquistando ogni anno nuovi diplomi di Cordon Blue. Gladys sa tutto di qui, sebbene trascorra sull’isola solo sei mesi, per poi tornare periodicamente nel suo amato Texas. Qualunque curiosità su farfalle o piante è pane per i suoi denti, tant’è che il Pirates Point risulta circondato da un lussureggiante giardino ov’è possibile farsi un’idea su quasi tutte le specie botaniche presenti a Little Cayman. Donna spiccia (ha tirato le orecchie al governatore, per non aver evacuato in tempo l’isola all’arrivo dell’ultimo uragano) e dall’ironia contagiosa, è apparsa persino sul calendario “Support the boopies 2007-2009”, una raccolta di foto che ritrae in topless le bellezze un po’ attempate di Little Cayman. Boop non significa in inglese soltanto “sula”, cioè l’uccello più diffuso in loco, ma anche “seno”. Incredibile a dirsi, nello scatto di gruppo a fine calendario appare addirittura la sua migliore amica, la Regina Elisabetta! O forse un simpatico sosia.

OCEANI SENZA SEGRETI



Il Central Marine Caribbean Institute è senza dubbio il gioiellino tecnologico di Little Cayman, isola che, sino al 1990, risultava sprovvista ancora dell’elettricità e al posto del telefono faceva ricorso a radio ad alta frequenza. Organizzazione no-profit dedicata alla ricerca e all’educazione sulla biodiversità degli oceani, sfrutta energia solare e correnti eoliche per alimentare le proprie attività, monitorando quotidianamente la lenta agonia delle barriere coralline. Secondo gli studi dell’istituto, quella caraibica risente maggiormente degli effetti dell’inquinamento umano, dal momento che presenta solo 60 specie di coralli (contro le 350 del reef australiano) e poche centinaia di pesci (l’Australia ne vanta oltre 1500). Diventato nell’ultimo decennio un punto di riferimento per tutti gli studenti ed i ricercatori di settore, dallo scorso anno pubblica le cosiddette “Green Guide”, opuscoli in carta riciclabile che aiutano a capire e vivere l’habitat delle Cayman nel modo meno invasivo possibile. Il CMCI è infatti impegnato in una profonda campagna per la difesa del territorio delle isole, minacciato non solo dalla forte antropizzazione (che dal 1999 ad oggi ha ridotto il reef del 44%), ma anche dal crescere dell’incidenza degli uragani, generati appunto dal surriscaldamento dell’oceano. Dopo le Maldive, le Cayman potrebbero essere il secondo arcipelago al mondo sotto minaccia di totale inabissamento. In collaborazione con la National Oceanic and Atmospheric Administration, recentemente è stata dunque avviata l’installazione di una stazione network per l’osservazione dei coralli, grazie alla quale sarà possibile prevedere quali siano gli elementi critici alla base dei mutamenti climatici terrestri. Aggiornamenti e risultati delle ricerche sono disponibili sul sito ufficiale www.reefresearch.org.