"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

venerdì 23 settembre 2011

IL MONDO NON E' ABBASTANZA

“The world is not enough!”. Con la sua voce profonda e un po’ inquietante, alcuni anni fa la cantante dei Garbage ricordava all’agente segreto 007 che “nessuno è mai morto per aver voluto troppo”, ma che la Terra, in fondo, resta “il posto perfetto per cominciare”. Un’insolita lezione d’umiltà, in controtendenza rispetto alla moda imperante che ci vuole tutti supereroi. Belli. Ambiziosi. Vincenti. L’uomo ha infatti dimostrato di poter conquistare la Luna così come Marte, lasciando ventilare l’ipotesi secondo cui un giorno vivremo addirittura su un altro pianeta; eppure nell’astuta rimozione collettiva delle nostre diversità non è escluso che il sogno di domani svapori nell’antica illusione d’Icaro: raggiungere il Sole con ali di cera. Fortunatamente il viaggio ha ancora qualcosa da insegnarci. Soprattutto il più epico ed emblematico, quello che tutti anelano almeno una volta nella vita: il giro del mondo.
Lanciarsi nel periplo della Terra, oggi, non significa tanto sfidare i limiti dello spazio e del tempo, o esser vittima di allarmanti manie di grandezza, quanto piuttosto regalarsi un nuovo inizio. Tornare al punto di partenza nella consapevolezza d’aver scorto quale sia il nostro giusto posto. O così almeno si spera.
Non è un caso che le tipologie di viaggiatore rapite da un’idea così romantica siano studenti giunti alla fine del loro percorso educativo, accanto a freschi sposini in procinto di costruirsi una nuova vita. Se ad essi aggiungiamo pure qualche lavoratore in crisi d’identità, è facile intuire quali possano essere le motivazioni da cui trae alimento il mito del “Grand Tour”. Mito che, come dice già bene il nome, appartiene soprattutto al mondo anglofono, dov’è spesso conosciuto sotto forma di “Gap year”: anno buco, anno sabbatico, dal momento che i biglietti in circolazione concedono al massimo 12 mesi per farsi un’idea generale del nostro pianeta. 


Grazie ai progressi della tecnologia non occorre nemmeno investire ingenti somme, come fece invece nel “Giro del mondo in 80 giorni” il ricco Phileas Fogg, eccentrico personaggio scaturito dalla penna di Jules Verne: le cifre attuali per un biglietto Rtw (Round the world) orbitano fra i 1.900 ed i 2.300 euro in funzione del numero di miglia acquistate, dunque meno di un volo business per una qualsiasi destinazione di lungo raggio.
E’ vero. Di sola aria non si vive e, soprattutto, il costo della vita all’estero può risultare molto più salato di quanto sia in Italia. Il bello dell’impresa sta proprio qui, però: a differenza del protagonista di Verne, eroe conservatore perché attento a muoversi fra i rassicuranti confini dell’immenso impero britannico, chi sceglie oggi di votarsi al giro del mondo dispone di un ventaglio di possibilità decisamente più ampio. Non solo in termini d’infrastrutture, scali e soluzioni ricettive, ma nella visione di un mondo che, lungi dal celare terrae incognitae e cannibali cinocefali, si offre piuttosto in termini di “villaggio globale”.

Con 6 continenti parimenti raggiungibili, 675 destinazioni e 130 Paesi in programma, ognuno appare davvero libero di assecondare come meglio crede il proprio gusto ed i propri interessi. Scambiare la propria abitazione con quella di qualcuno che abita nel luogo da visitare, sfruttare sino in fondo le combinazioni delle tariffe ferroviarie o dei mezzi pubblici, andare in bicicletta, così come ricorrere al couchsharing, possono essere validi escamotage per agevolare la permanenza in loco. Unica regola su cui non si transige è il senso di marcia: o a ovest, o a est, ma una volta scelta la direzione sarà poi impossibile tornare sui propri passi (chiude un occhio il Pass Round The World, del gruppo Sky Team). La maggior parte opta comunque per l’ovest, avendo più ore di luce disponibili e risentendo meno del jet-leg. Al di là delle difficoltà tecniche che un improvviso dietro-front potrebbe generare, l’obbligo di proseguire cela sotto sotto un significato più profondo: il giro del mondo si configura come qualcosa di sostanzialmente diverso da un viaggio di piacere, da una vacanza avventurosa o da una spedizione titanica.
Iperbole e, al tempo stesso, paradigma dell’umano errare, pretende che s’impari ad andare oltre, che si vincano le difficoltà di fronte a noi, anziché rifugiarsi nella bambagia del già conosciuto: se la vita dell’uomo è fatta di corsi e ricorsi – come ben argomentava il nostro filosofo Gianbattista Vico – inevitabilmente il punto di partenza si ripresenterà, benché destinato a non essere più lo stesso.



Il giro del mondo resta in primis un percorso di formazione, una Bildung, un cammino filosofico insomma; ammantato forse di luccicanti orpelli e lussuose comodità, ma non poi così distante dal primo vero viaggio che la storia umana abbia mai conosciuto: l’epopea di Gilgamesh, il mitico sovrano sumero che all’alba dei tempi volle raggiungere i limiti del mondo, al fine di conquistare l’immortalità. Nessun’agenzia promozionale, né tanto meno i più quotati tour operator hanno oggi la sfacciataggine di promettere tanto, tenuto oltretutto conto che fu lo stesso Gilgamesh a perdere la pianta dell’eterna giovinezza sulla via del ritorno: è però interessante notare quale sia il premio vero del suo ardimento. “…l’uomo a cui erano note tutte le cose, il re che conobbe i paesi del mondo: era saggio; vide misteri e conobbe cose segrete; un racconto egli ci recò dei giorni prima del Diluvio. Fece un lungo viaggio, fu esausto, consunto dalla fatica; quando ritornò si riposò, su una pietra l’intera storia incise”. 
Fatica, saggezza, scrittura. Le rughe del tempo scavano il corpo del viaggiatore esattamente come le sue parole la pietra. Sono il frutto di un cumulo d’esperienze che, pur non modificando la dimensione spaziotemporale – il cosiddetto cronotopo - del nostro punto di partenza, consentono di tornare a guardare il medesimo di sempre sotto la prospettiva dell’altro.

E’ infatti sorprendente il numero di blog e pagine web che affollano oggi Internet nel tentativo di raccontare che cosa sia, o cosa esattamente significhi fare, “il giro del mondo”: forse il più originale è “girodelmondo.org”, non una semplice raccolta di dati e suggerimenti, ma una sorta di piattaforma per far incontrare i desideri di ciascuno e tradurli in un viaggio collettivo che aiuti ad abbattere i costi, lenire la nostalgia di una solitudine talvolta imposta dalla stravaganza del progetto, condividere un sogno attraverso emozioni vive, in presa diretta. Se la tecnologia aiuta a semplificare spostamenti e comunicazioni, non per questo sottrae al rischio di annichilire la tensione verso il “fuori”, di offrire una finestra sin troppo comoda su tesori che solo la mano dell’uomo rende davvero tali: “il giro del mondo in 80 webcam” non ha neppur bisogno di commenti. Mostra senza realmente esporre. Riduce il mondo ad un click, ad un fotogramma tanto immediato, quanto fasullo.

Analogamente i vantaggi del “villaggio globale” possono tradursi in altrettanti svantaggi per il viaggiatore in cerca dell’Altro. Fare tappa in Asia, piuttosto che in Africa o in Sudamerica, mette spesso di fronte a situazioni, immagini e costumi sostanzialmente omologati al modello consumista occidentale, dando l’impressione di percorrere lunghi chilometri per ritrovarsi di fatto sempre nello stesso punto. Il rischio insito in “giri del mondo” troppo compressi, ad esempio di un mese o tre, risulta appunto quello di appoggiarsi agli scali più funzionali, mai troppo lontani dagli aeroporti internazionali, da ipermercati in grado di rifornire di ogni prodotto, da cyber-café ed edicole in lingua inglese, sminuendo di fatto il principio di extra-territorialità sotteso alla scelta di questo tipo di viaggio. Ecco perché un buon consiglio, a costo di rendere meno epico il proprio viaggio, resta pur sempre prolungare il soggiorno su un numero ridotto di punti chiave dell’itinerario disegnato, immergendosi nella vita locale, lasciandosi trascinare da incontri casuali, andando ad imboccare le strade secondarie a discapito delle vie di comunicazione maggiori. L’unicità del “giro del mondo” nel XXI secolo non consiste tanto nel raggiungere un Paese insolito, o nel mappare l’intero globo terrestre, bensì nel far tesoro del margine, del frammento, delle periferie.

 Vale la pena ricordare le parole di un tipico “malato di viaggio” come Lawrence Osborne, giornalista del New York Times, oltre che autore di brillanti libri e reportage: “Nel mio caso si è manifestata in modo repentino, come un disturbo mentale ignoto alla psichiatria. Che cosa? Ma la voglia di fermarsi, mollare tutto, e partire, cos’altro. Certo, quel bisogno di uscire dal mondo e raggiungere un altrove può essere interpretato in modi diversi, ad esempio come un sintomo pregeriatrico, un anticipo di senilità. (…) Già, fai le valigie ma non sai dove andare. Ormai l’intero pianeta è diventato un’installazione turistica e ovunque si vada resta in bocca il saporaccio del simulacro”.
Ha ancora senso cimentarsi in un’impresa di oltre 29mila miglia, con costi difficilmente inferiori ai 10mila euro complessivi, sapendo di esser condannati alla circolarità del mondo, all’eterno ritorno dei suoi modi e dei suoi accidenti? Il giro del mondo, nell’era della globalizzazione, non è diventato piuttosto uno sterile giro su se stessi? Un ritrovare vizi, virtù, usi e costumi di cui sappiamo già tutto? E’ forse vero il detto per cui “tutto il mondo è paese”?
Gli umori d’oggi richiederebbero che si manifesti nostalgia per i tempi di Phileas Fogg, o ben prima di Fogg, quando esisteva un confine tra il noto e l’ignoto, tra il mondo della civiltà e chi civile non era, quando insomma la fuga dal nostro presente era ancora possibile. “Cercare di fuggire – osserva lo scrittore di viaggi John Krich – per lo meno nei modi promessi dagli opuscoli turistici, è come tentare di sfuggire alla morte. Sappiamo di non poterlo fare davvero, ma sappiamo anche che soltanto in questo tentativo troveremo un senso”.  

Vero è che il “giro del mondo” resta un viaggio sui generis. Un viaggio che non mette radicalmente in discussione il proprio presente, perché sin dall’inizio prevede un ritorno alla condizione originale. Non a caso è anche un viaggio che può essere ripetuto in fasi diverse della vita: fine degli studi superiori, conseguimento della laurea, matrimonio o pensione, tant’è che la stessa Lonely Planet – moderna bibbia del viaggiatore indipendente – gli ha dedicato un volume apposito. “The Big Trip”, appunto. I tour operator non stanno certo alla finestra: fiutato il successo, e forti soprattutto delle agevolazioni consentite dai propri network, Pool 5 TO, Quality Group e Azonzo Travel sono stati fra i primi a lanciarsi nel mercato, proponendo pacchetti temporalmente più ridotti, convenienti e su misura (da 3.100 euro per 16 giorni a 7.500 per 32, ad esempio). Ma sono forse i giochi dei bimbi a ricordarci quale debba essere la giusta dose di leggerezza per viaggiare nel mondo: sedersi di fronte ad un mappamondo, farlo roteare e chiudere gli occhi. Là dove cadrà il dito, voi sarete.