"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

sabato 26 maggio 2007

INFERNO VERDE


Leticia - Arranca. Sbuffa. Tossisce gli ultimi spasmi intossicati. L’ennesima finta, ma ogni volta il cuore ti balza in gola. Quando il motore della bagnarola s’ingolfa, sembra di trovarsi improvvisamente anni luce distanti da qualsiasi traccia d’umanità.



Di fatto il piccolo villaggio di Puerto Nariño è a meno di venti minuti dalle acque del lago Tarapoto e, se proprio la nostalgia delle drogherie in cui si vendono mate de coca o collanine in denti di piraña non dovesse passare, a qualche ora di torbidi ondeggiamenti si può sempre riparare a est, verso Leticia: ultimo avamposto civile prima della grande incognita chiamata Amazzonia, nonché capoluogo dell’estremo dipartimento meridionale colombiano, identificato per sinéddoche col cosidetto “trapezio”. Uno spazio di 6.275 chilometri quadrati che la Colombia si conquistò negli anni ’30 a spese del Brasile, in aggiunta ad un territorio selvaggio già di per sé ampio, ma privo di un accesso al Rio delle Amazzoni, vitale quanto un’aorta nell’economia singhiozzante del Sudamerica.



Fondata il 25 aprile 1867 dall’ingegnere Benigno Bustamante, Leticia conta oggi ben 35mila abitanti e rappresenta il cuore di una regione di libero traffico dove, con poche bracciate dentro le acque del temibile fiume, è possibile lasciarsi alle spalle la terra di Simòn Bolivar per una propaggine carnascialesca di rumba carioca o per sfiorare un lembo di Perù dallo sguardo rapace. Maggio è infatti uno dei pochi mesi in cui non si rischia la pelle, qualora si volesse sguazzare nel più lungo fiume del mondo: gonfiando le acque del letto, le piogge della stagione umida spandono il suo bacino sino ai terreni d’inizio foresta, ricchissimi d’insetti e ghiotti batteri che fanno la gioia dei pesci carnivori. Lì si concentrano le “acque scure”, quelle impenetrabili all’occhio del pescatore e da lui puntualmente evitate, conscio dei tabù che la natura stessa fissa per ogni specie.



Ma se da una parte essa toglie, dall’altra la sua mano è pur sempre prodiga: ognuno ha il suo, perché la foresta non tradisce mai i suoi figli, benché pretenda che sappiano cavarsela solo con le proprie forze e il proprio ingegno. L’Amazzonia resta infatti la biosfera di maggior selettività al mondo, nella quale persino una minuscola formica gialla diventa un avversario di tutto rispetto, possedendo un siero urticante che, con un solo morso sull’avambraccio, riesce a paralizzarne i muscoli per almeno otto minuti. Otto minuti in cui le porte dell’Inferno si spalancano per dispiegare le sue peggiori atrocità. Unita alle sue consorelle, dà così vita ad un esercito di guerriglieri ancora non ufficialmente riconosciuto dal presidente Uribe, troppo impegnato a fronteggiare gli indipendentisti marxisti e i narcotrafficanti del sud-est, ma altrettanto minaccioso ed efficace.





Per secoli le infaticabili inquiline dell’albero Tangarana sono state il miglior alleato delle popolazioni indigene, ma un patto di reciproco spalleggiamento pare sia stato siglato di nuovo: oggi le tribù più isolate sono infatti prese di mira da bracconieri famelici, sempre in cerca di pelli di giaguaro e squame di boa da sottrarre ai villaggi della foresta, sì da soddisfare le pretese onnivore di un mercato che non conosce giustizia: moderna Kalì perennemente assetata di sangue, Quetzal senza più piramidi sacrificali, ma capace di fare proseliti fra i superbi successori dei conquistadores di Cortez. Come loro, i bracconieri odierni s’avventano nella foresta forti di fucili e mitragliatori, convinti che la superiorità tecnologica avrà infine ragione di chiunque incroci il loro cammino, salvo poi ritrovarne gli scheletri legati al tronco di qualche pianta, vinti dalle terribili sofferenze inferte proprio dal morso delle formiche gialle, o infilazati dagli aghi di cerbottane intinti nella pelle delle rane velenose.



In Colombia il governo non ha ancora sviluppato un network wireless simile a quello improntato in Brasile, dove le popolazioni indigene “a rischio di bracconaggio” possono collegarsi in tempo reale al web e segnalare all’esercito le minacce incombenti: qui gli Yacuas, gli Huitotos e i Ticunas sono e restano veri indigeni, non attori dalla pelle scura che indossano costumini succinti per la gioia dei turisti, o che partono di tanto in tanto per gli studi televisivi dell’Occidente con smisurati pendagli indosso, decisi ad arricchirsi astutamente in nome dell’Amazzonia ferita ed umiliata.
Se mai teatro si dà, questo assume i toni gioiosi e un po’ ingenui del festival internazionale “Confraternidad Amazonica”, in programma ogni anno dal 15 al 20 luglio a Leticia: periodo nel quale la cittadina si ripulisce da fango e liane per trasformarsi nel palcoscenico di abili danzatori tribali, robusti natanti pronti a sfidarsi in canoa ed infallibili tiratori d’arco o cerbottana. Quasi un anticipo dell’altrettanto colorato “Festival autoctono de danza, murga y cuento” che va in scena fra il 29 ed il 31 dicembre a Puerto Nariño, impreziosito però dall’elezione dell’affascinante “Señorita Ticoya”, così come dalla partecipazione di ben 22 comunità municipali.



Poche restano infatti le concessioni che le tribù colombiane fanno all’occhio indiscreto dell’avventuriero, preferendo i sibili ed i mormorii della jungla agli strepiti del mercato. Le più ardite sono disposte ad accogliere nel loro villaggio i bianchi in arrivo dal Rio, cercando di racimolare qualche pesos attraverso la vendita di ornamenti in ossa e piume, o lasciandosi fotografare un po’ esterrefatte mentre coccolano chi un bradipo, chi un orsetto lavatore goloso di banane.



Ancor più dei soldi, magici foglietti volanti capaci di dare un valore a quanto non si tocca e non si vede, sono le magliette colorate i baratti più graditi, i cappellini che riparano dalle frequenti piogge, per non parlare dei quaderni e delle penne grazie ai quali inizia il riscatto dalla fatica e si dispiega la conquista dei sogni di cartapesta.
C’è però qualcosa d’inspiegabile nel loro sguardo: gli occhi degli anziani sono spenti, delusi, sono gli occhi di chi sembra aver perso la propria battaglia. Quelli dei giovani, ma ancor più dei bimbi, hanno invece un che di ostile e rapace: vogliono, desiderano, ma in fondo non si fidano. Come se presentissero che dietro tutta quella manna ingiustificata, si stia nascondendo un subdolo tranello.



Forse qualcuno è riuscito a raccontare degli strani “giochi” che gli adulti bianchi propongono loro, quando li portano con sé in remoti e perduti paradisi. Forse è la semplice paura di non rivedere più la propria casa, com’è accaduto a quegli amici che avevano solennemente promesso di tornare con grandi ricchezze ed ora sono spariti nel nulla. Scomaparsi senza più traccia, disonorando una parola che qui è ancora sacra. Tradendo, senza immaginare che altrove stava il tradimento.
Per questo la loro ammirazione non va tanto ai membri delle tribù sedentarie, per scelta o per necessità disposte al compromesso, ma ai nomadi della foresta, ai piedi veloci dei Nurak Maku: una delle ultime popolazioni che vive spostandosi da un nascondiglio all’altro, che teme i raffreddori mortali portati dall’uomo bianco, ma non le fauci dei giaguari o i morsi delle tarantole.



Loro seguono riti talvolta crudeli, talvolta irresistibilmente ludici, ma mai incoerenti.
Durante “La Pelasòn”, alle ragazze vinte dal primo ciclo mestruale non vengono semplicemente tagliati i capelli, per inaugurare la loro nuova vita da donne, ma questi sono strappati con una speciale resina attraverso cui si cambia pelle alla stregua del colorato serpente dei miti ancestrali L’isolamento all’interno della maloca, sacra costruzione circolare dove gli sciamani consultano i Tre Mondi bevendo ayahuasca e le donne insegnano le virtù dell’esser madre, non è un capriccio fra l’aderire alle credenze tradizionali o l’abbracciare uno strano uomo biondo messo in croce. Significa accettare di diventare qualcosa che non si sarà mai più, non certo voler apparire a seconda di come soffino i venti ed ostinarsi ad inseguire traguardi che il tempo ha già segnato. E ancora: imbattersi nello Yurapari, quando il dio della fertilità irrompe fra le capanne di iuta per battere le giovani col suo enorme fallo ligneo, il Capinuri, non è una sconcezza che perde l’anima agli Inferi, bensì il prender coscienza che il momento è fausto per assecondare il proprio destino di perpetuatori della specie.





Nulla accade per caso in Amazzonia. C’è un tempo per la fioritura della Victoria Regia, il più grande loto del mondo capace di sostenere sulle sue foglie persino un bimbo, e un tempo per le incursioni delle scimmie sull’Isla de los Micos. C’è un tempo per risalire i fiumi a nuoto e lottare con le proprie mani contro le anaconde, ed uno per capire che la forza a volte conta meno della parola, che l’esser guida può aiutare più che l’esser cacciatori, che diventare una leggenda vivente - come l’indio-tedesco “Capax” - può meglio cibare di emozioni chi è pronto a devastare un’Eden, pur di cogliere la mela della conoscenza.







Allora poca importa se il recondito El Dorado oggi ha trovato un nome ed un luogo nel lago vulcanico di Guatavita, alle porte di Bogotà. Oro, in fondo, è stato raccolto dalle sue acque e non è difficile immaginare su di esse il lento incedere della zattera di uno sciamano, che sotto gli occhi intimoriti dei fedeli getta a mollo le offerte con cui placare la rabbia degli dei zoomorfi, o grazie a cui evocarne la protezione. Né deve dolere se gli sfavillanti corredi sacri, le maschere enigmatiche e le ali per fendere le nebbie dell’allucinazione siano state raccolte nel Museo dell’Oro della capitale, dove semplici profani possono subodorare il loro potere metamorfico e trasmigratorio, ignorando la vera sorte dei Sinù, dei Tairona, dei Quimbaya e dei Muisca, spazzati via dalla furia della cupidigia, così come dalla cecità intollerante.





Anche l’uomo bianco ha bisogno dei suoi feticci, perché le vetrine lucenti della capitale non bastano più. Sorde sono le parole che si odono fra le colonne barocche della cattedrale di Plaza Bolivar, lontano il richiamo delle sue campane, disabitate le case dai colori pastello che illuminano l’antico quartiere de La Candelaria. Ad un piatto manieristico come l’ajiaco, con patate, grano, huasca e pollo, oltre a fette di avocado, capperi e riso, inizia ad essere prediletta una semplice portata di pesce pescado e banane fritte. Qualcosa nell’aria umida inizia a far presentire di esser diventati prigionieri del troppo. Del superfluo.





L’occhio dell’uomo dimentico di sé non riesce infatti a trovar più le giuste dimensioni del mondo circostante: vede forme dilatate come le donne di Botero o al limite dell’anoressia, affida al bisturi i ritocchi di corpi caraibici ormai incapaci di onorare la loro antica fama seduttiva, si affanna alla ricerca di un delfino rosa o grigio, senza rendersi conto che la benzina del sua imbaracazione sta per esaurirsi davvero.



Danza, ride e scherza, come i vip che affollano le sale turbinose del ristorante Andres Carne de Res, come gli ospiti di quel lussuoso battello che risalì un tempo il Rio delle Amazzoni e inconsapevolmente ne fu inghiottito dalle sue isole fantasma. Isole su cui boa costriptor, caimani e zanzare malariche non sono disposti a concedere alcuna chance ad un animale a tal punto addomesticato, d’aver persino dimenticato il luogo da cui un tempo emerse. Sporco di fango, con la lancia in pugno e la bocca spalancata.

sabato 19 maggio 2007

IL NODO ALLA GOLA…DI TODRA’


Ouarzazate - A volte le parole crepitano. Bruciano velocemente. Hanno un che di ludico e fatuo, per via del quale il loro significato si fa fumo senza lasciar traccia, se non quella di un suono più cupo o più brillante. Un pentagramma a venire, dove inspiegabilmente l’ordine del discorso si sfalda nel richiamo primigenio, per sprigionare quel calore istintivo che abita lo stare insieme dei beduini. L’ossitonia ridondante della lingua francese, ancor più che il berbero, ne è forse la riprova più manifesta, ma qualunque verso lasciato sfuggire lungo una carovana di cammelli, sotto sotto, riesce a rendere meno siderea la notte del deserto marocchino.



Non rimanere in silenzio è quasi un obbligo morale. Una necessità imperscrutabile. Si deve parlare per mantenere vivo qualcosa. Il senso di appartenenza. Il principio d’identità. L’idea del tempo.
Boutade, singulti, sciocchezzuole, tutto è ben accetto. Rendono meno vertiginose le discese lungo le dune, ne modulano l’ondivaga casualità, ed aiutano a non guardare indietro, così come a non interrogare l’orizzonte a fronte, perché mai oscurità completa è concessa fra le sabbie sahariane.



Dentro al silenzio la voce smarrisce la sua musica frastornante. Ti inchioda alla responsabilità di un pensiero che non si pone limiti, che ritrova tutte le possibilità, fra cui quella inevitabilmente fuggita, occultata, imbavagliata. La morte.
Il posto in coda alla carovana è appunto il più temuto. Persino i cammelli paiono presentirlo e si ribellano. Allungano il passo per appaiarsi ai loro compagni più fortunati, ma i tremolii delle zampe ad ogni affondo nel vuoto, l’angoscia dell’asma risvegliata dalla fatica, tradiscono le più innocenti confessioni dell’istinto, della volontà di rimanere al mondo. Nel mondo. Dietro, infatti, non c’è più nulla. Neppure la linea che separa la terra dal cielo. La polvere ne ha dissolto i colori, stemperato le forme, ha amalgamato il tutto nell’indefinito, aprendo uno sguardo sul pozzo abissale da cui ogni cosa ha avuto origine. Anzi, deve aver avuto origine.
Solo il dubbio che laggiù non ci sia un barlume di ragione strozza improvvisamente il respiro dei polmoni, chiude tutti gli spazi per quanto attorno non ci siano pareti, condannano alla claustrofobia del sé smarrito e abbandonato. Tragica ironia di un mondo che non ha bisogno di noi, del quale siamo partecipi solo per errore chimico. L’uomo di mondo, di questo mondo fatto di parole anziché di voce, non può accettare l’assurdità dell’eterno privo di senso.



Eppure è tutto ciò per cui si batte sino all’ultima goccia di sangue. Così ha fatto il berbero sin dai tempi in cui si opponeva alla civilizzazione di Roma, alla conversione di Uqba bin Nafi, alla corazzata del Kaiser. Darebbe qualunque cosa per lasciare una traccia, un segno, un indizio che sia per sempre, ma il taglio del tempo è comunque figlio della storia. Ben diversa è la natura, che assorbe l’uomo come una ferita da rimarginare, ne cancella la cicatrice e fa sì che non sia mai esistito se non nell’illusione altrui.
Ecco allora perché il fuoco dell’accampamento beduino cui si ripara scalda più di un abbraccio materno. Fa luce sui lati bui della coscienza. Ricaccia indietro la mano del bau bau cattivo che si annida nella notte. Ridà equilibrio all’ebbro volo dell’anima in libera caduta.



Le tende fanno quadrato acquietando il respiro dei cammelli, mentre il gorgoglìo del tè alla menta, che si tuffa da un bicchiere all’altro per addolcire la sua carezza, rievoca la cieca familiarità di un fonte salvifica. Quindi l’ipnosi dei canti gnauà, la frenesia dei corpi che possono infine stemperare tutta la tensione accumulata nell’incalzare dei tambureggiamenti, l’attesa del sonno fissando gli enigmi delle stelle, affinché il silenzio, quel silenzio, possa davvero esser tale. Muto. Inconsapevole. Puro dalle rughe del tempo.
Per un berbero è già troppo. Spingersi oltre, insistere per giorni e notti alla ricerca di un fondo che non si dà, fa davvero paura. Il berbero non è il tuareg. Si ferma alla prima duna sabbiosa del Merzouga, sta sulla soglia: lancia lo sguardo verso l’oceano di sabbia rossa, ma rimane saldamente seduto sulla sua vetta a mangiare datteri e cous cous. Ha bisogno di una terra dura da calpestare, magari scabra e secca come quella che insidia i monti vulcanici dell’Alto Atlante, ma pur sempre solida. Il berbero parla, pone domande come ogni buon sedentario, ma a differenza del tuareg non trova vere risposte. I suoi quesiti hanno il volto della Città d’Orione, della Scala Celeste o della Spirale d’Oro.



Follie illuministe dell’architetto tedesco Voth Hannsjorg, le installazioni create nel nulla che insidia le gole di Todrà rappresentano infatti il disperato tentativo di ritrovare un chiasmo esistenziale, una biunivocità di significati che rafforzi il sé davanti allo specchio. Poco importa che siano frutto di un lavoro ventennale, avviato nel lontano 1980. La loro potenza iconica vanta l’età dell’archetipo e l’inappellabilità della geometria: sette torri di argilla si protendono verso Riguel, Saiph, Mintaka, Almitak, Alnilam, Bellatrix e Betelgeuse, quei remoti diamanti incandescenti che sono guida nei cieli e ambigua promessa di verità. Un triangolo di 28 metri d’ipotenusa indica la via per l’infinto, nonostante la salita titanica appaia fuori dalla portata dell’umano passo. Attorno ad un punto si snoda un vortice di cifre che risultano essere l’una la somma delle precedenti due, inno solitario alla velenosa medicina della matematica.



L’ostinazione dell’uomo è tutta qui: ancor più esuberante delle mille kasbah dal profilo di gatto che si è impegnato a costruire lungo la valle del Dades, plasmando il fango come un dio ferito dalla solitudine; ancor più spinosa e seduttiva delle mille rose che profumano la lunga strada di oasi a cui danno il nome; ancor più sprezzante della verticalità rocciosa di Doigts de Singe, al cui cospetto le donne piegano la schiena sotto la fatica dei panni da lavare e delle fascine da trasportare.





Perché allora non si vede anima viva in questo tempio pagano dell’ardire metafisico? Per quale motivo tacciono le tribù riparate all’ombra dei palmeti di Tazzarine e si nascondono gli abitanti di Tamnougalt negli stretti vicoli della loro secolare fortezza? Ormai le lotte fra fazioni che incediavano il medioevo berbero per il controllo delle rotte commerciali sono alle spalle. I piaceri proibiti di John Malkovich ne “Il tè nel deserto” noti a milioni di cinefili. Né le ragazze hanno bisogno di farsi desiderare sino al Moussem, antica festa nata per onorare gli infelici amanti Tislit e Iseli: lacrime di una passione divisa e poi scioltasi nei due laghetti locali, presso cui la giovane femmina si fa cacciatrice in abiti seducenti, affinché alla sua porta bussino donatori di montoni e pane azimo per riscattarne la matura bellezza. Altri sono i tempi.



Perché tutto questo teatro a Tifoultoute, dove ancora si stagliano le spoglie di lungometraggi di successo, benché subdolamente menzogneri? Qui hanno fatto credere alla rivelazione dei “Dieci comandamenti”, all’epopea di “Re Salomone”, all’esistenza di “Asterix ed Obelix”.



Per le aride piane che si aprono oltre le case di fango e le torri merlate di Ouarzazate si è voluta tradire una verità non vera. Proprio come fece quella deliziosa fanciulla di nome Najia, che coperta dall’oscurità delle candele e dall’abbandono ai suoi massaggi, scrisse il proprio nome con l’henné sulla schiena di uno straniero riparato in un hammam.



Estrema volontà di possesso, per un segreto che non si ha la forza di pronunciare. Un segreto che profuma di eucalipto e fiori d’arancio.