"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

martedì 8 settembre 2009

Schaefer Expedition



Yak postale n.1 - Chandighar (24.07.08)

Buongiorno Italia!
Sono appena riparato in un afosissimo Internet point di Chandigarh, dopo aver agguantato il primo bus in partenza da Delhi in piena notte. L'inizio del viaggio e' stato infatti particolarmente serrato, ma molto avvincente: non solo ho avuto modo di esplorare meglio la Kultfabrik durante la tappa notturna a Monaco (nell'isola dei divertimenti bavarese, proprio all'ingresso della Russian Disco Kalinka, svettano una bellissima testa gigante di Lenin e una stella rossa che valgono di per se' l'uscita), ma anche di fare un'incursione crociata in centro Istanbul, spezzettando piacevolmente i lunghi tempi di avvicinamento all'India.
Visitare la capitale turca e' stato un po' come rituffarmi nelle atmosfere della Via della Seta, benche' mi sentissi come Teofilatto da Bisanzio alla corte dei suoi irriconoscibili parenti. Profumi di kebab, musiche dalla rotante frenesia derviscia, mani al cuore in segno di saluto e un sole abbacinante sui vertiginosi minareti del Sultanato: benche' avessi poche ore a disposizione, e' certo bastato per farmi riassaporare l'antica gloria ottomana e conquistarmi alla visione panturanica dell'impero perduto, ma non ancora abbandonato. Mentre mi defilavo dall'aeroporto, un gentilissimo ingegnere della marina ha infatti lasciato scivolare qualche monetina nella mia mano, sollevandomi dall'obbligo di cambiare pochi euro, ma invitandomi a tutti i costi ad apprezzare la magnificenza della sua citta'.
Un gesto arrivato dritto dritto al cuore, perche' uno degli aspetti piu' affascinanti della cultura islamica autentica e' in fondo questo senso di fratellanza gratuitamente speso nei confronti dello straniero. Mi e' diventato ancor piu' simpatico nel momento in cui ha pensato io fossi russo, essendo lui stesso di ritorno da Mosca, dove ha impiantato una base strategica per concludere affari con i "fratelli" dell'Asia Centrale! Stiamo in guardia, dunque. Il Grande Gioco non e' ancora concluso. Vero e' che ascoltare un turco mentre parla della grandezza della propria cultura, potenzialmente in grado di estendersi da Istanbul alle appendici siberiane, suona come pura poesia ottomana: liquefa con estrema facilita' l'idea di confine, alimenta l'anelito ad oltrepassare quanto riteniamo ormai ripiegato su se stesso, invita a vivere il viaggio con coraggio ed ardimento.
Quanto all'India, stessi pregi, stessi vizi di tre anni fa. In aeroporto sono stati presi seri provvedimenti contro la febbre suina, con obbligo di mappare il percorso di ogni singolo passeggero e relazionarvisi solo indossando una mascherina di protezione. Nessun allarme, vero...pero'...pareva di esser finiti nella pellicola di Cassandra Crossing! Mi sono segretamente confessato: "Bzzz! Come sono diventati seri gli indiani!". Manco mi avessero sentito! L'addetto ai bolli si e' subito sfilato la mascherina prendendo un bel respiro rinfrancante, per poi stringermi calorosamente la mano, dal momento che avevo scelto di visitare il Sikkim (lo stato dove ha prestato servizio militare e su cui sembrava volermi raccontare gli ultimi tre secoli di diatribe ghelupa). Mi sono allora guardato con piu' attenzione intorno e ho notato che pure le altre addette alla sanita' indossavano la mascherina in modo molto flessibile: chi lasciando fuori una narice per il
troppo caldo, chi non facendola aderire bene alla bocca, chi un po' storta per meglio sorridere...beh, nessuna sorpresa se, a quel punto, ho visto zampettare a lato della dogana un maiale tutto trafelato.
"Psss...stia tranquillo! - ha ammiccato l'impiegato con complicita' - Da noi la suina e' sotto controllo. Vede come trattiamo bene l'ex direttore dell'ufficio immigrazione?". "Il direttore?". Alla mia domanda, il maiale mi ha grugnito solidale. Incredible India! Eccoci tornati a casa :-)
Vabbe', non mi soffermo poi sugli odori "incredibili", le mani strette, la curiosita' dei pendolari che non mi ha permesso di riposare per tutto il viaggio verso la capitale del Punjab...ormai accetto il samsara con buddista rassegnazione. D'altra parte la risalita al Fantasy Rock Garden di Nek Chand si e' trasformata in un'ottima piattaforma di lancio per raggiungere la vicina Dharamsala, la base operativa del Dalai Lama in esilio, che proprio quest'anno celebra i 50 anni dalla sua ignominiosa fuga da Lhasa.
Vestito da pellegrino, non mi resta che correre a studiare il nemico...

Un abbraccio peloso!
Albert Schaefer



Yak postale n.2 - Chandigarh/Dharamsala (26.07.08)

Dannati inglesi! Appena gli agenti della sicurezza sono stati informati del mio arrivo, non hanno perso tempo per sabotare l'incursione verso il Tibet esterno. Uno sgangherato bus Tata la loro trappola. La notte la loro subdola complice. Abbandonata Chandigarh dopo una strenua lotta alla stazione interegionale, durante la quale ho dovuto farmi largo in una massa informe di piedi in infradito, gulan gulan spappolati e temibili contorsionisti tantrici, pensavo che l'aver strappato il biglietto per Dharamsala m'avesse gia' consegnato in mano la vittoria. Macche'!
Alle prese con gomme traballanti e un volante svitabile, il povero autista Singh si e' reso conto troppo tardi che qualcuno doveva aver truccato pure il motore, ruggente sui 200 chilometri all'ora per tutto il tragitto diretto alle pendici himalayane. Ha cosi' preso avvio uno slalom falcidiante fra milioni di pellegrini riversatisi in strada per la festa shivaita dell'Himachal Pradesh, talvolta a fari spenti, piu' spesso celati da una nube di diesel supertossico.
Riconosciuto l'orrore sui volti dei poveri pedoni, che immancabilmente sparivano fra urla strazianti sotto il tergicristallo, ho tentanto di raggiungere la postazione di guida, appellandomi ai compagni di viaggio affinche' mi facessero scorrere sulle loro teste come un lombrico giurassico: strano a dirsi, nessuno di loro mostrava pero' segni d'inquietudine. Anzi, fissavano tutti l'orizzonte con occhi sbarrati. Eredita' dell'aplomb britannico-vittoriano? Infarto di massa? Una mano sventagliata rapidamente davanti al loro naso e' bastata per tradire il silenzioso voto fatto alla misericordia di Buddha. A differenza degli hindu' mutilati per strada, il tragitto per Dharamsala viene infatti coperto in via quasi esclusiva da seguaci del Loto, idealisti manovrati dalla Cia e qualche yeti furbetto.
"Mr Singh! Mr Singh! Dobbiamo riprendere il controllo del bus!". Nulla da fare. L'autista neppure mi sentiva. Solo dopo insistenti scrolloni ha infine alzato le mani, facendo toccare pollice e medio, prima di brontolare ad occhi chiusi un ridondante "Ommmm..mmmani padme hum". "No! No! Mani non vuol dire quello!!".
Sciocco! Solo quando ho avuto modo di gettarmi illeso nel parcheggio di Dharamsala tutto si e' illuminato: chi viaggia sotto la protezione di Buddha e' guidato da mano divina, per cui non corre alcun periocolo, se non quello di non risvegliarsi piu' dalla trance mistica. Chi e' ormai assuefatto, tende a rimanere per mesi o anni in quell'incredibile stato catalettico, tant'e' che bus Tata pieni di pellegrini vestiti in giallo sono stati rinvenuti fra i ghiacci di Novaja Zemlja, nei libri di Pasaalinaa o addirittura immobili nel giardino incantato di Nek Chand, proprio a Chadigarh.
Viaggio spirituale non significa infatti viaggio materiale.
Lo aveva intuito benissimo proprio il vecchio ispettore delle strade del Punjab, che senza dir nulla alle autorita' locali, dal dopoguerra a oggi e' riuscito a ricreare uno strepitoso mondo di allucinazioni nel parco della citta' piu' verde dell'India intera. Radici che prendono forme mostruose fra nevi di ceramica riciclata, spettrali ominidi che risorgono dai rifiuti e ti fissano come zombie dagli angoli defilati di fortezze fantasma, mentre cascate a tradimento e danzatrici in teak disegnano i confini di una terra proibita, eppur da sempre familiare.
La scelta di ricorrere all'arte del riciclo, per evocare le potenzialita' inespresse dei una realta' che si consuma senza mai morire, e' forse il primo degli insegnamenti che ogni buon esploratore della Terra delle Nevi deve mandare a mente. Una volta arrivati a Dharamsala, infatti, potrebbe provocare uno shock la scoperta che proprio i fuggitivi di Lhasa sono i piu' astuti tessitori di finti bisogni e demoni del desiderio, capaci di reiterare a piacimento la loro sacra capitale, solo per soddisfare l'inconscia richiesta dell'uomo di farsi catena ad anelli. Storditi da incensi dolciastri, litanie mormorate, distorti sibili di conchiglie a fiato e sinistre trombette, i guerrieri dello spirito hanno ormai compreso appieno il valore delle fitte nebbie che li avvolgono, cosi' come la suggestione dei veli di Maya. Hanno piegato la storia del loro paese al mito di un museo che dice solo mezze verita'; sfruttano l'antica cucina per sedurre assetati di fede con
corsi a buon mercato e, non di rado, s'approfittano pure delle scuole di massaggio per soddisfare una sessualita' ferocemente castigata (pare che, sino a non molti anni fa, chi non riuscisse a controllare i propri impulsi, dovesse farsi cadere un masso sui testicoli!). Parlano di compassione universale per l'uomo, ma sono solo loro a fare compassione, prigionieri di superstizioni e incapaci di vincere i propri secolari vizi.
Dopo uno spettacolo degno dei secoli bui del monastero di Samkya, non ho resistito dal lanciare una filippica sul registro degli ospiti. So che cosi' la mia copertura potrebbe saltare da un momento all'altro. Ma negli occhi di un pellegrino offeso per tanta mercificazione, nella sua mano tremante di sdegno mentre passava le perline del suo rosario, nel suo sospiro di anziano tradito ad un passo dalla tomba, incommensurabile era l'appello ad una giustizia piu' alta. Quella che solo ripara alla fine dei sentieri piu' impervi e guarda la valle con sovrano distacco. Piu' a nord ancora, verso l'enorme gola di Spiti, la promessa di Shamballa ci chiama con ostinazione e fierezza...

Un inchino feroce
Albert Schaefer



Yak postale n.3 - Nel regno di Guge (01.08.09)

...avrei dovuto dar retta a Lupin, Jigen&Co. Quanto piu' il regno di Guge effonde malia, tanto piu' avvince in una morsa oppiacea.
Non ho incontrato giganti che giocano a scacchi con umani, ne' discinte ninfe che avvelenano col loro segreto nettare, ma certo il tempo himalayano ha preso lentamente a sfumare nella dimensione di un sogno arcano: quanto ricordo da Dharamsala a Kaza, pare infatti niente piu' che un'ubriaca danza chaam di maschere proteiformi.
Eppure nella capitale degli esiliati ancora avevo avuto la forza di chiedere l'istituzione di una cattedra di filosofia teoretica nell'universita' dei berretti gialli, onde sbugiardare i decreti del vicino Kashag e offrire agli inermi monachelli la possibilita' di aprire la mente ad orizzonti piu' ampi. All'arte dialettica che trascende il pedissequo riprodurre le pitture thangka, o l'occuparsi di erbe medicamentose appartenenti ormai ad una terra troppo lontana.
Persino la notte ero stato in grado di non farmi giocare da un'adescatrice di Hong Kong, che pur con qualche problema di stomaco alla vista delle toilette di sosta verso Manali, tentava di strapparmi confessioni filocinesi con moine da bus notturno, per poi rivelarsi al primo check-point un subdolo agente sudcoreano.
Alle porte della valle di Spiti, verso le appendici del mitico regno di Guge, qualche demone tantrico dev'essersi pero' insinuato nei miei orifizi. Le avvisaglie sono stati gli urti di vomito durante i mille tornanti del Rothang Pass, ridotto ad una poltiglia di fango onnivoro, in grado di risucchiare ben piu' di qualche veicolo in affanno.
Mentre mi allungavo verso il finestrino, per quasi sette ore avvicinabile stando in equilibrio soltanto su una gamba, la divina bellezza dell'Himalaya, pudicamente cinto da pepli di vapore, ha comunque impedito ai miei occhi di scorgere variopinte macedonie riversarsi in aria dai sedili accanto. Giunto quindi all'antico monastero di Keylong, le gambe non si sono neppur accorte di aver scalato ottocento metri in appena quattro chilometri, rapite dall'ipnotico richiamo di un tamburo cerimoniale e dai gorgheggi di un monaco eremita.
Infine anche l'orologio mi ha abbandonato.
Ancora non so se siano trascorse sette ore o centocinquantanni nel grazioso villaggio di Granphu, indicato dalla guida come trafficato punto d'incrocio per raggiungere il cuore di Guge, perche' null'altro segno di civilta' ho colto, al di la' di una locanda in pietra grezza e sterco di yak. Solo macchiettistici personaggi scaricati da bus e jeep, diretti tutti verso la stessa meta, benche' mai fosse quella desiderata.
Un tronfio francese dal codino intrecciato e in sospetta compagnia di un'orfana del Bengala; una coppietta israeliana con pargolo riccioluto al seguito, che nel suo slancio fraternizzante si e' poi imbarazzata alla vista dell'innocente libro strappatomi di mano (il bellissimo resoconto della spedizione di Ernst Schaefer in Sikkim nel '39, dal titolo La Crociata di Himmler, con suggestiva foto del gruppo SS sotto la svastica del chogyal locale); quindi un'angelica mammima afrikaan con altro putto in groppa, fascinosamente abbrustolita dal sole di Leh e dal look crostaceo tipico di chi viaggia ininterrottamente da giorni.
Quando gia' la notte incombeva su un piatto di riso e fagioli saltati, ecco pero' svoltare verso Spiti una jeep alticcia. Grazie alla collaborazione di un pastore afghano e della sua roboante mandria di capre talebane, sono riuscito a bloccare subito il mezzo, implorando un passaggio per la valle proibita.
Ne e' disceso un David Niven completamente sbronzo, in calzini rosa e dal ruttino sommesso, ma con un impeccabile accento capace di farci sentire subito delle merdacce vittoriane.
Chris si sarebbe in realta' rivelato un driver straordinario, sprezzante della notte cieca e delle sue curve suicide, forte di due lattine di birra, ma soprattutto di un logorroico farfuglio inneggiante la sua vita nomade.
Insieme alla mammina afrikaan e al putto addormentato, posso infatti dirmi l'unico privilegiato che ha appreso della sua fuga dall'Inghilterra punk per le periferie dell'impero, senza sterline in tasca, ma con ottime idee sul neonato turismo di massa.
Purtroppo ci siamo addormentati tutti al secondo fallito tentativo di guadare un torrente da parte di una 500 formato Tata, ma all'alba delle tre Chris e' infine riuscito ad affidarci alle benevole mani di una vecchina tibetana, titolare di uno sperduto rifugio ad oltre quattromila metri.
Appariva visibilmente addormentata al nostro arrivo, ma si e' comunque sforzata di mostrarci con grande cortesia la grotta dove riposare: a dire il vero, deve aver forse sospettato che io, la mammina afrikaan ed il putto fossimo la reincarnazione della Sacra Famiglia (eppure tutti dovrebbero sapere che di Giuseppe ne esiste soltanto uno, con splendidi baffi corvini e appassionato di trattamenti Agiolax!), o, piu' verosimilmente, dev'essersi poi convinta fossimo bradi spettinati di qualche valle remota, perche' ancora non riesco a capire la sua raccomandazione di non disturbare la stalla, cosi' come l'inaspettata offerta di biada.
Nell'attesa dell'ultimo passaggio per un villaggio che gli intrepidi forestieri immancabilmente storpiano nel nome di un membro intirizzito, nuove ere sono trascorse nel silenzio immoto di mistiche pietraie; alla fine un messo divino si e' pero' concretizzato in un abbaglio di sole morente, introducendoci a ignote meraviglie mummificate da chilometriche spirali.
La misoginia delle cellette di Ki, arroccate sugli incisivi di un drago ridotto in polvere; l'orgoglio fallico della fortezza di Dhankar, da cui un tempo regnavano sovrani perdutamente innamorati di Bukhara e Samarcanda; il fango demiurgico di Tabo, un monastero fragile quanto un verso sussurato al vento, eppur sola ed unica testimonianza delle pire infuocate dalla Rivoluzione Culturale.
Immota e cristallina, pietrosa e torrenziale, la valle di Spiti conserva gelosamente il segreto dell'eterna giovinezza. Si abbevera del sudore di chi la percorre bruciato dal Sole nonostante un impeccabile maglioncino H&M in testa, mentre ciondola accanto a forre spaventose e a squaciagola canta versi voodoo propiziatori. Qui ancora passeggia meditabondo il grande traduttore buddista Ringchen Tzangpo, incerto se spingersi alle propinque corti del Tibet interno o verso gli aridi crinali di Mustang; qui donne dai lunghi capelli al vento sfidano l'ardita passione degli uomini per le folli corse a cavallo, mentre yak spettinati sbadigliano sfacciatamente, pensando a quanta strada dovranno fare per raccontare cio' che parola mai potra'...

Una capriola tantrica,
Albert Schafer



Freccia prioritaria n.1 - Port Blair (07.08.09)

Aria pesante a Port Blair. Umida e tesa come l'arco di un Jarawa acquattato. Sulle isole Andamane i vecchi fantasmi continuano ad imperversare indisturbati, terrorizzando gli sparuti forestieri qui dirottati da un governo sin troppo sospettoso. Le mie ricerche lungo i crinali dell'Himalaya non devono essere passate inosservate, visto che i servitori di Sua Maesta' hanno incaricato un etereo sufi affinche' mi distraesse durante gli spostamenti, in modo tale da dirottare l'aereo su cui viaggiavo verso la "Cayenne britannica". Mossa davvero astuta! Il saggio ha attaccato bottone chiamandomi con un curioso nomignolo: "Issa! Issa!". Quindi si e' portato la mano al cuore ed ha accennato un deferente inchino. Piano piano si e' confidato, associando immancabilmente la mia persona a quella di un vetusto santone del Kashmir, poi rivelatosi niente meno che Gesu'. Brividi! Ha insistito affinche' andassi a visitare la sua tomba, la stessa che avevo menzionato nel mio
reportage su Israele in tempi non sospetti, ma quando ho gettato l'occhio dall'oblo' era ormai troppo tardi. Il Sikkim si e' allontanato fra le nubi, mentre un mare tempestoso ha allungato i suoi artigli verso l'aereo.
Certo la notizia non mi ha lasciato indifferente, tanto piu' che echi e ricorrenze pare vogliano guidarmi proprio lassu', fra le remote vallate dove da secoli tre mondi si osservano assorti. Per fortuna il viaggio e' ancora lungo :-)
Dal canto loro le Andamane sprigionano un fascino sporco e maledetto.
Apparentemente liberi di circolare fra ville coloniali stritolate dalla jungla e resti di carceri che hanno portato a perfezione l'incubo disciplinare del Panopticon, i nuovi isolani non hanno di fatto alcun diritto. Appena atterrati sono costretti a firmare una confusa dichiarazione di sottomissione ai regolamenti locali, quindi le strade iniziano a prendere pieghe obbligate, le voci ad inseguirsi clandestine, i sorrisi a spendersi con un'ipocrisia insopportabile. Su tutti, quello dell'impettita Mrs Sodhi, segretaria generale del dipartimento del Tribal Welfare, pronta a discreditare in ogni modo le popolazioni aborigene, pur di evitare qualsiasi contatto fra loro e i nuovi giunti. Offrono vecchie foto, si appellano agli studi di fantomatiche istituzioni antropologiche (dietro cui si sono nascosti per anni gli interessi economici delle grandi aziende hindu'), reclamano l'assenza di mediatori linguistici, ma guai a puntare il naso oltre le porte del
Sekretariat. Solo l'idea che qualcuno possa invitare gentilmente i locali ad esprimere il proprio parere, magari sulla convivenza con gli invadenti coloni bengalesi, mette le scrivanie del governo in seria agitazione, spingendo a sguinzagliare spie su tutto il territorio.
Non avranno vita facile. Nei prossimi giorni tentero' una sortita lungo l'asfittica Andaman Trunk Road, col chiaro obiettivo di avvicinare gli stralunati Jarawa, cui l'umana curiosita' d'approccio verso il Nuovo viene negata a suon di pallottole e check-point. Peggio ancora va agli abitanti di North Sentinel, cui viene rinfacciato di aver usato frecce avvelenate contro contrabbandieri di legname, venendo cosi' relegati ai margini della loro isola di cocco. Sugli gli Onge possono vantare invece una meticolosa opera di cancellazione dell'identita' etnica, compiuta a suon di aiuti statali e tentazioni consumistiche.
Mentre riflettevo davanti alle rovine arrugginite di Ross e Viper Island, dove la gloria dell'Impero si regge in piedi come uno scheletro in un cimitero voodoo, fra nebbioline sinistre, bunker giapponesi ed urla strozzate di piccioni nicobarensi, lo sdegno contro l'ipocrisia del neocolonialismo e' tracimato. Una volta ancora una voce silenziosa mi aizza a nord, la' dove borbottano vulcani di fango e caverne calcaree deglutiscono a fatica...a noi lance e frecce! Si torna a caccia, dannati bastardi...

Pugni sul petto a tutti!

Albert Schaefer



Shikaran raccomandata n.1 - Bandipur (17.08.09)

Forse erano talebani in avanscoperta. Forse soltanto tribu' sbandate in cerca di facili prede. Non lo sapro' mai. L'avanzata verso la recondita tomba di Mose', rimasta ostaggio nella striscia di confine fra Kashmir e Pakistan, e' stata bruscamente interrotta da alcuni spari nel vuoto. In pochi secondi mi sono ritrovato con la faccia schiacciata nella terra, due militari sopra la schiena e il block-notes in una posizione intima piuttosto invasiva. E' arrivato cosi' il mio battesimo in qualita' d'improvvisato reporter di guerra. Come, le Andamane? Ah si', si', l'ultimo contatto risale ormai a diversi giorni fa e l'attacco potrebbe suonare depistante!
La missione nell'arcipelago maledetto si e' in realta' conclusa nel migliore dei modi, sebbene il contatto con le tribu' locali abbia richiesto perseveranza e scaltrezza, dovendo infrangere piu' volte i severi diktat della polizia forestale. Il primo raid lungo la Trunk Road aveva infatti fruttato alcuni scatti preziosissimi, ma durante i controlli di rientro - all'ultimo check-point - ho dovuto consegnare la macchina fotografica al cosidetto "Corpo di protezione Jarawa" e tutte le istantanee a tema ivi custodite sono state cancellate senza pieta', con multa simbolica di 300 rupie.
Mai sfidare i nati sotto il segno dell'Ariete! Lasciati trascorrere alcuni giorni di macchia, preziosisissimi per allacciare conoscenze strategiche lungo la sabbiosa spiaggia di Corbyn Cove, ho trovato un valido alleato nel gigantesco Roman, un giovanotto moscovita guadagnato alla causa con fine retorica soviet. Quando ancora il sole sonnecchiava pigro dietro le tentacolari liane di Barratang, il tandem d'assalto "Krasnji Udarniki" gia' rollava sulla prua di uno sgangherato bus protetto da placche d'acciaio. Udarnik77 con l'indice bollente sul tasto di scatto, Udarnik79 con un improponibile berretto conico calcato in testa (eredita' del nonno caduto a Stalingrado e suo portafortuna nelle missioni suicide), ma saggiamente dotato della fatale arma segreta di ogni recluta slava, ben piazzata in uno zainetto coperto di maialini volanti in pizzo. Un vaso di cetrioli piccanti mediante cui accattivarsi la golosita' dei selvaggi o, nel caso, strozzarli con un
tasso di spezie sottilmente depositate sul fondo e pronte a volatilizzarsi al primo scossone d'emergenza.
Udarnik79 si e' purtroppo dimostrato impulsivo e, al primo incontro in velocita', ha sfoderato subito il cetriolo piu' eretto, facendolo oscillare davanti agli occhi degli stralunati Jarawa. In risposta i selvaggi hanno fatto un gesto osceno e Roman e' parso rimanerci male.
"Cosa avranno voluto dirci?" - mi ha chiesto dopo alcuni minuti di muso offeso. "Nulla, Roman. E' il loro modo di dare il benvenuto". "Ah ecco - ha ribattuto - perche' il cetriolo era davvero di prima qualita'". "Non avevo dubbi, compagno. Viva Stalin!". "Si', viva Stalin!".
Recuperato Udarnik79 inanellando dieci motivi storici dell'Armata Rossa, ci siamo infine concessi una pausa in piena jungla, in attesa del traghetto arrugginito diretto alle sinuose grotte di Middle Andaman e al suo gorgogliante vulcano di fango.
E d'improvviso loro. Cosi', senza alcun rullo di tamburo. Senza nessun lancio di frecce. Fieri ed impettiti, silenziosi come il vento fra le felci sudate, sono apparsi piu' neri della notte: lui con l'arco al collo e lo sguardo sdegnoso, lei alle sue spalle, nuda e sanguinaria, col machete saltellante da una mano all'altra, pronta a colpire al primo click. Ma i due Udarniki, inscendando una frenetica morra cinese, avevano sagacemente nascosto lo zoom fra le cosce, pronti a scaricare le proprie armi sul nemico.
Non erano nemici. Non volevano neppure sgozzarci. Desideravano soltanto capire cosa mai fossimo e da dove venissimo...al ritorno un bimbo Jarawa e' balzo come un leopardo sul fianco del nostro bus, alzando la mano in segno di saluto, un sorriso sdentato sulle labbra. Il controllore lo ha prontamente respinto con una manata in faccia, aizzando l'autista ad ingranare la quinta, nonostante il piccolo stesse rantolando nella polvere...addio, piccolo Jarawa. Questa e' l'India d'oggi. Questa e' la civilta' del progresso e del libero mercato. Addio, piccolo Jarawa. Laggiu', nell'umido asfalto, in mezzo alle cartacce dei ghiaccioli e alle bottigliette di Sprite, lasciate in dono dai tuoi protettori...
Sono quindi seguiti giorni confusi di bus soffocanti diretti in Sikkim e monsoni degni di biblici diluvi, stelle comete nel cielo e apparizioni in sogno di un vetusto esploratore russo in Kashmir, visioni di Cristo nello specchio ed echi di una terra solcata da misteriosi templi ebrei e tombe santissime...

Ma questa e' un'altra storia.
La storia di Albert Notovic.

Paka', Tavarisci...
Alja



Shikaran raccomandata n.2 Srinagar (21.08.09)

A momenti mi rotola dalle scale. "Mein Gott, e' tutto finito!". Gli duole un piede e ad ogni gradino non riesce a trattenere un fumettistico "Oii, oii...". Eppure insiste, si aggrappa al corrimano e con gesto sovrano mi invita a seguirlo nel suo salottino stracolmo di libri. L'immagine che avevo del professor Hussnain e' ben diversa dall'attuale, ma d'altra parte si era formata su una foto di oltre vent'anni fa, quando nel pieno vigore delle forze aveva fatto tremare le colonne di S. Pietro e, grazie all'aiuto di un giovane collega tedesco, era riuscito a trapiantare le sue teorie da un capo all'altro del mondo.
Mai mi sarei dunque aspettato che un sufi tanto importante mi ricevesse al primo colpo di telefono, soprattutto dopo avergli confidato il desiderio di discutere in poche ore un argomento delicatissimo quale la sopravvivenza di Cristo alla crocifissione.
A Srinagar puo' essere molto pericoloso citare o interessarsi agli studi di Hussnain. Quando mi sono avvicinato all'umile tomba di Yuz Asaf, nel cuore della citta' vecchia, un gruppo di filopakistani mi ha quasi strappato dal collo la macchina fotografica, minacciandomi con un dito lasciato scorrere sottogola. Asaf e' il loro santo, un santo musulmano; guai dunque ipotizzare che quel sepolcro possa contenere le spoglie mortali del Messia. Eppure anni di ricerche provano che davvero le due figure sono la stessa persona, sebbene la fuga dalla Palestina omicida abbia costretto Gesu' a cambiare il proprio nome. Accanto alla tomba e' presente addirittura un calco dei suoi piedi, con tanto di stigmate, ma gia' gli invasati spintonano ed urlano insulti in una lingua feroce. I soldati pakistani che hanno invaso il Kashmir negli anni '90 hanno pero' fatto di peggio: mossi dall'odio verso qualunque forma di dialogo, in un infausto pomeriggio sollevarono la pietra
magica di Mose', da cinquemila anni riverita ai bordi del fiumiciattolo di Bijbihara, scaraventandola fra i flutti. Della tomba del padre d'Israele, per la visita della quale ero riuscito a strappare la scorta di due militari oltre il fluttuante confine col Pakistan, da anni non si sa piu' nulla: ogni ricerca o spedizione e' ormai impossibile e si vocifera sia caduta sotto il controllo di bande talebane, qui invitate con discrezione dal governo di Islamabad per mettere sotto pressione le truppe indiane.
Nonostante le guerra in Kashmir paia assopita, la tensione e' sempre altissima e ogni passo in citta' o in campagna e' accompagnato dallo sguardo rapace di oltre 70 unita' dell'esercito di Delhi, per un totale di quasi mille uomini, in allerta 24 ore su 24. Ovunque macerie, fili spinati, muri forati dalle pallottole e controlli asfissianti in nuvole di polvere.
L'ente turistico puo' cosi' insistere nel presentare Srinagar come l'idillica citta' galleggiante un tempo adorata dagli alti funzionari di Sua Maesta', ma al momento l'unico luogo sicuro sono le colorate shikaran che scivolano sull'acqua del Dal Lake. Forse anche la villa di Hussnain, protetta da alte inferriate e nascosta in un labirinto di vie ai margini del centro storico.
Per ore parliamo di storia delle religioni, antiche filosofie, vangeli apocrifi e politica internazionale, vincendo piano piano la reciproca diffidenza, sino a scoprire un anelito verso la verita' sorprendentemente identico. L'anziano Hussnain ha quasi le lacrime agli occhi, mi stringe la mano, mi accarezza come un nonno e m'invita a lottare contro qualunque forma d'ignoranza e superstizione. "Lasciamo le religioni in pasto ai cani! Noi dobbiamo credere nell'universalita' della natura umana, nella reciproca fratellanza, nella forza della critica".
Ora sono io a sentire il cuore battere con esuberanza e, nell'osservare la penna fra le dita, tremo di furor bruniano. Ho percorso chilometri e chilometri, solcato terre lontane e violato antichi segreti, ma al cospetto di quest'uomo i fili di ogni viaggio sembrano magicamente intrecciarsi. Sara' l'effetto dell'estasi mistica sufi: capisco perche' un regista francese mi ha abbracciato con incredibile vigore al nostro addio, sotto una statua di Buddha alta otto metri in pieno deserto ladakho; capisco perche' il titolare dell'houseboat ove ho soggiornato qui in Kashmir ha insistito sino allo sfinimento perche' a notte fonda ci perdessimo in canoa fra i flutti, per ritrovarci poi a contemplare le stelle su un tetto e a bere birra proibita; capisco perche' il pazzo Abdoul torna ogni sera a trovarlo su un asse marcio della palafitta in cui vive, raccontando di aver inventato strepitosi marchingegni, come una macchina fotografica che ti risucchia
nell'obiettivo, sparandoti agli antipodi del mondo.
Ogni pietra del Kashmir ha cosi' tante storie da raccontare, che non sorprende continui ad essere considerato una terra a venire, una terra da secoli immemori proiettata al futuro, una Terra Promessa. Certo l'umilita' della tomba di Yuz Azaf, al tempo stesso simbolo supremo di discordia e riconciliazione, si addice meglio alla natura del Cristo, volgendo l'occhio al business dei pellegrinaggi israeliti. Un po' come nella scelta del Santo Graal di fronte al Cavaliere del Destino: ne' oro, ne' argento per il Re dei Re, soltanto il legno sgrezzato di un anonimo calice.
Strano come il caso o il destino abbia voluto portarmi, una volta ancora, la' dove il suolo tracima sangue, in una regione dalle ferite aperte e dalle armi mai sazie di anime innocenti.
Osservo il Sole tramontare oltre il Trono di Salomone e sono finalmente in pace.
Almeno sino a domani.

La mano al cuore.

Albert Notovich



Carroarmato espresso n.1 - Attari (26.08.09)

La risposta indiana non si e' fatta attendere molto. Dopo le incursioni dei cugini islamici sul fronte nord, ad Attari e' andata in scena una battaglia bolliwoodiana fra fanti dall'ugola arrossata e carroarmati in grado di sparare samosa sino a Lahore. E si' che mi ero pure preparato spiritualmente, meditando tutta mattina lungo i bordi della piscina su cui scintilla il Tempio d'Oro dei Sikh. Convinto di dover sostenere uno scontro letale, l'ultimo giorno della mia spedizione avevo infatti deciso di sottopormi al rito purificatore del buon guru Nanak: ruminare lenticchie sul far dell'alba, affinche' la masticazione entri gradualmente in sintonia con gli ondeggiamenti dell'acqua celeste, dispensando la segreta leggerezza del guerriero alato.
Purtroppo la mia preparazione non ha convinto gli alti gradi dell'esercito.
Preso contatto con le truppe nemiche, sono stato prontamente relegato in cima ad una tribuna, da cui potevo gettare solo lo sguardo oltre la barriera di divisione dei due Stati. I miei compagni d'armi hanno invece iniziato a ballare sulle note dei loro idoli pop, lanciando le gambe piu' in alto di spogliarelliste parigine, gonfiando il petto a mo' di galletti crestati, per testare infine la loro capacita' polmonare nei microfoni di un cultore del karaoke. Motivo chiave: "Paaaakistannnnn! Prrrrrrrrrrrrrrrr....". Cinque. Sei. Sette minute di pernacchie sulfuree. Stessa sinfonia dall'altra parte del confine: "Indiaaaaa! Prrrrrrrrrr....". Otto minuti! Inammissibile! E via di nuovo alla successiva maratona di pernacchie. Le provocazioni sono andate avanti per circa un'ora, accompagnate da parate grottesche, con la folla ebbra d'orgoglio nazionalista e le bandiere alzate o ammainate con meticolosa precisione, in modo da non concedere all'avversario il diritto
di reclamare la propria superiorita' in cielo o in terra.
Pare che l'India si sia aggiudicata lo scontro sulla distanza, dal momento che il supporto dei pakistani e' risultato poco incisivo. Al primo giorno di Ramadan, hanno pensato di rivingorire il proprio spirito in altro modo. Gli indiani, in premio, si sono pappati una montagna di samosa inesplosi.
Totalmente spiazzato, al rientro ad Amritsar non ho potuto fare a meno d'interrogare il misterioso saggio incappucciato che, durante tutto il giorno, ha pregato all'interno del Tempio d'Oro per le sorti del Paese.
"Abbiamo vinto?". "Abbiamo perso?". "Quale sara' dunque il mio ruolo nell'India di domani?". "Quale la direzione da prendere?".
Avvolto in spirali d'incenso e col volto celato nella penombra, il saggio ha iniziato a dondolare la testa con fare enigmatico. Quindi si e' voltato di spalle quasi incupito. Uno scatto e, le mani al cielo, ha infine gettato il suo mantello in aria, urlando in portoghese: "Fooooi a mais linda História de amor/Que me contaram/E agora eu vou contar/Do amor do príncipe Shah-Jehan pela princesa Mumtaz Mahal...". Sono rimasto basito per cinque minuti. Poi, d'improvviso, l'illuminazione e l'urlo di risposta! "Taj Mahaaaaallll, Taj Mahaaaallll". E lui, tutto sorridente, finalmente ha assentito ieratico: "Quella e' la direzione! Si torna a casa". Piu' tardi ho poi scoperto di chi si trattasse. Poche parole per tradirlo. "Ebbene si', questa e' l'India: Incredible India!".
Sogno? Realta'? Forse sono semplicemente la stessa cosa.

Un botto a salve!

Albert Notovich