"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

giovedì 18 aprile 2013

L'OMBRA DEL DR. PHIBES SU ALBERT SCHWEITZER


Paradiso e inferno convivono nell’ibogaina. Il misterioso alcaloide contenuto nella pianta psicotropa dell’iboga, infatti, ha il potere di ribaltare persino l'evidenza. Anche nel caso in cui si abbia a che fare con la più candida delle anime: quella del padrino del Lambaréné, il controverso “tonico” dedicato al dottor Albert Schweitzer. 

Ma una volta ancora, in occasione dei 100 anni che il pionieristico ospedale del premio Nobel ha recentemente festeggiato in Gabon, le luci hanno prevalso sulle ombre


Benché il grande teologo e filosofo alsaziano sia stato celebrato in ogni modo dal cinema o dalla letteratura, troppo inquietante resta la somiglianza con i baffi bianchi e l’aria spiritata del terribile collega interpretato da Vincent Price nel 1971: l’abominevole dottor Phibes. Lui stesso eccellente organista appassionato di Bach, con un dottorato in musica e teologia (ma tutto lascia supporre possa averne conseguito uno pure in filosofia, proprio come Schweitzer), tradisce un insano lato doppio: punire quei chirurghi incompetenti che hanno causato la morte della moglie, ispirandosi alle bibliche piaghe d’Egitto. “Nessuno di loro si salverà. Nove eternità per la tua”. Addirittura il gusto della citazione è lo stesso, ma ogni volta ribaltato in qualcosa che fa del rispetto per la vita, il principio cardine su cui l’autore delle Strassburger Predigten ha costruito tutto il suo pensiero, una nuova e truculenta espressione di odio. Schweitzer e Phibes, insomma, come Dr. Jekyll e Mr. Hide. L’accostamento non è per nulla peregrino.

Schweitzer si era spento appena sei anni prima dell’uscita del film: irrimediabilmente lontano dalla piccola Kaysersberg, che gli aveva dato i natali il 14 gennaio 1875, e lasciando dietro di sé una vita di sacrifici spesa nella cura dei lebbrosi, dei tubercolotici, dei malati di malaria e di dissenteria. Di tutti quei terribili mali che ancora affliggevano la foresta equatoriale, cuore di tenebra dell’Africa, contro cui la sua anzianità aveva dovuto infine gettare la spugna. Se n’era andato esattamente nel 1965, giusto un anno prima che il governo francese decidesse di ritirare dal mercato il famoso farmaco battezzato in suo onore: il Lambaréné, dal nome della cittadina gabonese dove il 16 aprile del 1913 aveva deciso d’impiantare il suo ospedale e dare un nuovo senso alla sua vita. “Qui molti mi possono sostituire anche meglio – aveva annunciato al direttore della società missionaria di Parigi, presso la quale si era messo in mente di collaborare sin dai tempi in cui venne folgorato leggendone gli spaventosi reportage umanitari - laggiù gli uomini mancano. Non posso più aprire i giornali missionari senza essere preso da rimorsi. Questa sera ho pensato ancora a lungo, mi sono esaminato sino al profondo del cuore e affermo che la mia decisione è irrevocabile”.



Un pazzo. Agli occhi dei suoi contemporanei non poteva apparire altrimenti. Già l’aver scelto di prendere una seconda laurea in Medicina all’età di 38 anni, nel 1911, era stata una mossa bizzarra e un po’ azzardata: Schweitzer poteva comunque vantare un curriculum di tutto rispetto, con all’attivo una cattedra di teologia a Strasburgo, oltre alla presidenza della facoltà e alla direzione stessa del seminario teologico. Aveva pubblicato numerose opere musicali, di carattere religioso e teneva ovunque concerti di successo, grazie al suo innato talento per le composizioni barocche. Eppure rigettava una sicurezza sociale tanto più difficile da conseguire quanto più incombeva la guerra fra Francia e Germania, incaponendosi addirittura sul progetto di aprire un ospedale là dove nessuno riusciva a sopravvivere che per pochi mesi.

Oltre che d’indubbie capacità curative, lo “stregone bianco” di Lambaréné disponeva però di un asso nella manica: il confronto serrato con i popoli della foresta gli aveva permesso di apprezzare le proprietà terapeutiche della radice dell’iboga, tanto che lui stesso divenne presto il primo promotore del farmaco anti-affaticante lanciato nel 1939 e intitolato alla “sua” città. Il Lambaréné era un preparato a base di radice di Tabernanthe manii  (conteneva circa 0.20 grammi d’estratto di radice per singola tavoletta), assommando le proprietà di dodici diversi alcaloidi, fra cui l’ibogaina, la tabernanthine, l’ibogamina e la coronaridina. Un potente mix che rinvigoriva dalla stanchezza, combatteva le malattie tropicali, la depressione e l’astenia, ma infondeva soprattutto un’insospettabile forza di cui gli atleti si resero ben presto conto.


Veniva venduto come panacea contro ogni possibile male, ma voci sempre più insistenti iniziarono a riferire di effetti collaterali devastanti. Una delle più sinistre fu quella di Haroun Tazieff, noto geologo francese che pubblicò addirittura un libro sulla sua esperienza col Lambaréné (“La gouffre de la Pierre Saint-Martin”). “Quando l’effetto delle tavolette svaniva, non mi sentivo nient’altro che un miserabile ammasso di carne appeso a un filo”. Ebbene sì: l’ibogaina riusciva a cancellare ogni segno di fatica, ma non alimentava il corpo, né tanto meno lo rivitalizzava. Semplicemente non rendeva percepibile il suo lento ed inevitabile deperimento.

Con la forza morale della sua missione, le sorprendenti guarigioni e l’adorazione sviluppata dai popoli tribali nei suoi confronti, l’immagine di Albert Schweitzer e del “suo” miracoloso Lambaréné indussero a lasciare per anni gli effetti nocivi del farmaco in secondo piano, nonostante schiere di atleti mostrassero in Europa manifesti segni di logoramento fisico e psichico. D’altra parte, se il medico alsaziano avesse avuto tempo d’interessarsi alle vicende sportive del Vecchio Continente, avrebbe subito messo in guardia da un uso smodato delle tavolette a base d’ibogaina. In uno dei suoi numerosi interventi nel dibattito intellettuale del Dopoguerra, aveva infatti stigmatizzato: “la nostra epoca ha scoperto come separare il sapere dal pensiero, col risultato che abbiamo davvero una scienza libera, ma non ci rimane più una scienza che rifletta”.

L’uomo bianco studiava l’indigeno, ne rubava il sapere ancestrale, ma tutto ciò che riusciva a fare delle sue preziose conoscenze non era altro fuorché mercificazione. Una pianta sacra, capace di mettere in contatto ogni essere vivente con la profonda saggezza delle epoche passate, aveva finito per trasformarsi in Europa in una semplice tavoletta che dava assuefazione per uso smodato e instillava il primo grave germe del doping nello sport.

Ad eccezione delle vicissitudini vissute nel periodo della Prima Guerra Mondiale, quando Albert Schweitzer venne arrestato in Gabon insieme alla fedelissima moglie Hélène Bresslau (in quanto cittadini tedeschi, erano sospettati di essere spie del Kaiser), le attenzioni del medico alsaziano erano sempre e costantemente rivolte all’Africa. La Svizzera o la Svezia gli conferivano lauree honoris causa e lui si preoccupava di operare un lebbroso. Lo invitavano ad esibirsi in concerti d’organo sui palcoscenici più illustri e lui girava il ricavato per ampliare il suo vecchio ospedale di Lambaréné. Avanti e indietro. Avanti e indietro. In diciannove viaggi fra il Gabon e l’Europa, Schweitzer riuscì a mettere in piedi una struttura ospedaliera capace di ospitare oltre 150 pazienti, dando nel frattempo alle stampe opere filosofiche essenziali nella definizione dei temi morali e pacifisti del Novecento. 

Nel 1952 arrivò addirittura il premio Nobel per la Pace, che lui prontamente investì nell’inaugurazione del Village de la Lumière (il Villaggio della Luce per i lebbrosi del Gabon). Per lui, ormai, vita e Africa erano diventati sinonimi: quando morì il 4 settembre del 1965, migliaia di canoe si riversarono sul fiume Ogooué per rendere omaggio alla sua tomba, ancor oggi fermamente decisa a restare sotto le palme dell’ospedale Schweitzer. Gli stessi preparativi per festeggiare il centenario del suo arrivo a Lambaréné, in calendario il 16 aprile del 2013, si sono svolti come se il medico alsaziano fosse ancora lì a dare ordini a tutti: non a caso, in quella data, il presidente del Gabon e della Fondazione Schweitzer hanno inaugurato insieme un nuovo centro ospedaliero universitario da 3 milioni di dollari, destinato a curare Aids e nuove malattie genetiche. Ma anche l’abominevole dottor Phibes era lì, ad osservare ciascuno null’ombra: pronto a ricordarci che persino la carità può uccidere, quando finiamo per trasformare i nostri eroi in meri idoli da incensare. 

   

ALBERT SCHWEITZER'S LIFE

1875: nasce il 14 gennaio a Kaysersberg, cittadina alsaziana contesa da Francia e Germania
1884: a nove anni sostituisce l’organista della chiesa luterana di Kaysersberg
1893: inizia gli studi di teologia e filosofia all’Università di Strasburgo
1899: consegue la laurea in filosofia con una tesi sul problema della religione in Kant
1902: ottiene la cattedra di teologia a Strasburgo
1903: è direttore del seminario teologico di Strasburgo
1904: anno dell’infatuazione per l’Africa. Legge il bollettino della Società missionaria di Parigi.
1911: consegue la laurea in medicina, con specializzazione in malattie tropicali
1912: sposa Hélène Bresslau, di origine ebrea

1913: arriva a Lambaréné (Gabon) a bordo del piroscafo Europa e, il 16 aprile, apre il primo laboratorio in un vecchio pollaio
1914: Albert ed Hélène vengono arrestati come spie tedesche nel territorio dell’Africa equatoriale francese e sono trattenuti sino al 1918, quando vengono rispediti in Alsazia.
1919: nasce la prima figlia Rhena e ricomincia a lavorare all’ospedale di Strasburgo
1920: raccoglie fondi in Svezia per il suo ospedale africano


1921: pubblica il libro di ricordi africani All’ombra della foresta vergine
1924: torna in Africa al suo vecchio ospedale, ma non trova che ruderi
1927: dopo febbrili lavori, inaugura la nuova sede il 21 gennaio
1931: pubblica a Lipsia “La mia vita e il mio pensiero”
1947: pubblica l’antologia “Rispetto per la vita”
1952: premio Nobel per la Pace, in virtù del costante impegno umanitario in Africa. Apre il Village de Lumière per i malati di lebbra
1958: il 28, il 29 e il 30 aprile pronuncia i suoi famosi “tre richiami” contro la minaccia atomica a Radio Oslo
1965: muore a Lambaréné il 4 settembre




mercoledì 16 gennaio 2013

DALLA RUSSIA CON TELEAMORE


L’Italia da dietro le quinte. Con la pubblicazione del suo romanzo “Teleamore” (clicca qui per il trailer), poco più di un anno fa la giornalista russa Tanya Alehina aveva messo a nudo vizi e virtù del Belpaese, ricorrendo alla sottile ironia narrativa del linguaggio da notiziario. Pronta a rientrare fra i confini tricolore e in fase di stesura di un nuovo libro, oggi ci spiega perché, nonostante tutto, la Russia continui a guardarci con molto amore. Lo stesso amore che da dieci anni spinge Tanya a tornare in Italia non appena possibile, sia come ospite speciale del TG2 che di Sky TG24, talvolta nelle vesti di corrispondente per alcuni magazine di prestigio, fra cui “Italy. Made in Italy”. E’ conduttrice televisiva a San Pietroburgo, scrittrice ma anche modella, tanto da far pensare che il celebre aforisma di Dostoevskij sia stato scritto appositamente per lei: “la Bellezza salverà il mondo”.




“Teleamore” è un romanzo che lascia emergere una visione critica con cui gli italiani faticano spesso a fare i conti. E’ stato frutto di passate esperienze personali, oppure ti ha offerto una base di riflessione per comprendere meglio l’Italia e la Russia di oggi?

T. Sin dai tempi dell’università io vivo e respiro la diretta. A volte mi sento una specie di tele cyborg: guardo più spesso la telecamera che gli occhi degli amici, ragiono per stereotipi giornalistici, percepisco il mondo come in una sala montaggio… Non sorprende che il mio primo – e spero non ultimo – libro sia dedicato ai retroscena televisivi. Anche la mia vita privata è indissolubilmente legata alla tv: un giorno persi la testa per un giornalista televisivo italiano. Ironia della sorte: perfino l’amore nasce con la benedizione dell’onnipotente tv. Per me si tratta di un tema molto doloroso.


Con il romanzo TELEamore ho cercato di rivelare i retroscena del panorama televisivo, di immergere il lettore in un mondo in cui regna sovrana la tv, un mostro dispotico che sottomette a sé la ragione e il sentimento e finisce per impossessarsi completamente dell’anima degli uomini, un diavolo tentatore che annienta i sensi e cancella ogni valore. La televisione manipola il nostro inconscio, ci affibbia degli eroi, ci inculca i suoi stessi pensieri, ci detta delle regole crudeli, ci fa usare la sua lingua, che è poi quella che ho voluto adottare in questo romanzo: dinamica, laconica, piena d’azione. È proprio così che noi giornalisti televisivi spesso ci comportiamo con una notizia. È un trucco molto valido quando si ha a che fare con telespettatori il cui gusto viene costantemente plasmato dalla tv. La capacità di passare da un programma all’altro, da una notizia tragica a una comica, e la nostra percezione frammentaria della realtà ci privano di ogni sentimento umano. Per TELEamore ho scelto la forma di un lungo notiziario, con i servizi più vari ispirati direttamente alla vita di due ostaggi dell’impero televisivo.


Che cosa ti ha colpito maggiormente del mondo della comunicazione italiana e quali differenze noti rispetto a quello russo?

T. Spero che gli abitanti della penisola appenninica mi perdoneranno, ma nel mio romanzo TELEamore ho lasciato grande spazio all’ironia (credetemi, in maniera del tutto inoffensiva) nei confronti della tv italiana e ho inserito tutta una serie di caricature. Non si tratta di una narrativa grottesca, ma piuttosto del tentativo di esprimere le perplessità di una straniera sconcertata da uno schermo in cui sembra andare in onda un infinito carnevale. La tv russa mantiene ancora i suoi tabù e i notiziari presentano un modello di donna piuttosto puritano. Per le dive della tv italiana, al contrario, ogni notiziario è uno show. Abiti scollati, scollature generose, acconciature botticelliane, orecchini da gitana… La loro è un’immagine indubbiamente affascinante, ma un aspetto così provocante fa passare ogni notizia in secondo piano. Forse gli uomini italiani sono abituati a tanta sensualità, ma il telespettatore russo è più conservatore. Inoltre in Russia anche un banale reportage viene considerato un’opera d’arte e c’è una grande attenzione per la forma estetica, come nei film di Tarkovskij.


È un peccato che i programmi più interessanti, quelli per un pubblico ancora in grado di pensare, con discussioni in studio su temi di rilevanza globale nel nostro Paese sempre più spesso vadano in onda di notte, in una fascia oraria dedicata a pochi eletti. Al loro posto imperversano i programmi di cucina, ogni tipo di gioco, trasmissioni satiriche dal discutibile humour e programmi sulle celebrità in cui i pettegolezzi la fanno da padrone. Ma se in Europa un palinsesto del genere ormai è già la norma, in Russia programmi come questi vengono ancora considerati di seconda categoria. 


Non si tratta solo di un modo diverso d’intendere la libertà d’espressione?

T. Può darsi che sia una questione di mentalità. Nel nostro DNA noi conserviamo ancora la capacità di provare imbarazzo. Mi ha molto stupito che in Italia alcuni uomini al primo appuntamento si lancino volentieri in una rissa o si mettano a raccontare i propri trascorsi sessuali, spifferino senza remore i segreti degli amici più cari e chiedano disinvolti persino a un interlocutore appena conosciuto a quanto ammonti il suo stipendio. Mentre gli italiani non si fanno scrupoli nel linciare pubblicamente il Berlusconi amante delle donne, i russi non osano sbandierare la vita privata di Putin da uno schermo televisivo. E non perché il nostro sia un totalitarismo: credetemi, di libertà di parola in Russia ce n’è più che nell’America che ricorre ai propri mezzi democratici nel carcere di Guantanamo. Semplicemente il nostro popolo è di un’altra pasta. Noi amiamo i segreti. C’è sempre qualcosa che non diciamo.


Che cosa può insegnarci il modo di comunicare russo e, viceversa, quale contributo può offrire l’Italia alla presa di coscienza russa?

T. Da secoli il mondo intero ci attribuisce un’importante missione spirituale. Per questo non vogliamo che la nostra TV sia preda degli istinti più bassi e dedicata al puro intrattenimento. Pretendiamo invece che ne venga mantenuto il ruolo educativo, che ispiri la popolazione, che la liberi dal suo primitivismo. La televisione, come anche la letteratura, non deve ipnotizzare. Il suo ruolo è quello di risvegliare le qualità più nobili, di aiutare a vivere meglio, e non quello di allontanare dalla realtà, nuovo oppio per l’intera popolazione.

Nel mio libro alludo chiaramente a un’ulteriore caratteristica della società italiana che ho avuto modo di constatare: una sorta di servilismo patologico verso l’America che si accompagna a uno snobismo nei confronti della Russia. Sono convinta che se i giornalisti fossero meno orientati verso l’Occidente e, anziché ripetere i mantra propinati oltreoceano dai politici americani, cercassero di comprendere l’animo russo con la propria testa, scoprirebbero qual è la vera Russia, capirebbero che siamo qualcosa di più di matrioske, orsi e caviale. Del resto, anche per gli italiani è offensivo essere definiti solo per stereotipi: mafia, pizza, Dolce & Gabbana. Io non giudico il lavoro dei miei colleghi stranieri, non dico cosa sia da salvare e cosa vada assolutamente cambiato; mi limito a dare risalto nel libro a ciò che mi ha stupito, colpito, che mi ha fatto sorgere dubbi e che, a volte, mi ha regalato un sorriso… Credo che per gli italiani sarà interessante osservarsi da questo punto di vista.

Io adoro l’Italia e tutto ciò che è legato a questa nazione. Ripeto spesso che il mio cuore apparterrà per sempre a Roma. Per questo mi rapporto agli italiani, in privato come in tv, con una sorta di simpatia incondizionata. A questo popolo posso perdonare qualunque cosa, come si fa con i bambini. Di fronte al loro fascino disarmante e alle loro incommensurabili capacità artistiche non ci si può che arrendere.

Al mio libro TELEamore si può rimproverare molto, ma quel che è emerso dai commenti dei lettori è chiaro: leggendolo, non si rimane indifferenti. Probabilmente è perché l’ho scritto in maniera sincera, con tutto il cuore. Dalla Russia con amore.


Che cosa dobbiamo aspettarci dai nuovi progetti di Tanya Alehina?

T. Al momento sto lavorando sul mio secondo libro. Naturalmente anche questo parlerà di tv, e il nuovo protagonista sarà ancora un giornalista italiano. Cercherò di indagare le trasformazioni dell’animo umano, la metamorfosi di Saul in Paolo in soli tre giorni. E ad ispirarmi sarà di nuovo una stupefacente Italia. Vagherò ancora per le sue viuzze intrise dell’aroma dell’espresso, ascolterò la musica dei borghi, ne respirerò l’aria impregnata d’amore e rimuginerò con nostalgia sul mio sogno infranto…






Versione integrale dell'intervista pubblicata su RussiaOggi






martedì 15 gennaio 2013

GIALLO IN INDIA

A mag created with Madmagz.


Buon compleanno! Oggi nasce "Altrimenti", la mia nuova rivista da collezione :-)

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