"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

domenica 23 dicembre 2007

OLTREOCEANO


Florianopolis - Pare di vederla ancora. Laggiù, con i tricolori al vento solcati dal Regio Emblema, gli anziani genitori in spesse vesti di fustagno, le mani piene di calli e col fazzoletto agli occhi; e poi le guardie del porto, dai volti un poco risentiti, un poco speranzosi. Ma è già lontana. La Madre Patria. Lontanissima, al di là di un’oceano che potrebbe imporre mesi di traversata, qualora il destino volesse consegnarci di nuovo alla terrazza di un transaltantico dal fiato bolso, in partenza da Genova o da Hamburg, da qualunque altro porto conduca lontano dall’Europa Vecchia e Disillusa.



Eppur sempre, la cara e vecchia Europa. Non è difficile scivolare fra le rughe del tempo, risalire ai quei giorni seppiati del 1875, quando il clamore dell’Unità si era ormai franto e le giubbe rosse sbiadivano in cassepanche di noce ammaccato. Basta osservare il volto di un oriundo d’oggi, rapito e commosso come un bimbo di fronte al regalo più desiderato: divora simulacri d’Italia, senza accorgersi di come non siano altro, fuorché mere immagini di patinata confezione, astuto cinema di un paese sempre più narcisista ma coi buchi nelle calze, accortamente imbellettato, eppur duro e indifferente quanto una maschera che aleggia nel carnevale veneziano. Per l’oriundo è sacrosanta verità, idea di una perfezione intangibile e dagli imbarazzanti risvolti feticisti. Il ricordo si è sostituito alla memoria. Peccato tanta cieca dedizione non sia generosamente contraccambiata.



Dei 180 pionieri sardi che, primi fra tutti, giunsero nel 1836 sulle rive del fiume Tijucas, fondando la “Nova Italia”, da tempo le cronache hanno smesso di far parola. Infastidiva allora. Risveglia gretta vergogna oggi, dovendo ammettere che noi pure fummo immigranti dai volti sporchi, gli occhi stralunati e le dita leste. Veneti soprattutto, ma anche Lombardi e Friulani, gente che sapeva come coltivare il grano, che faceva della viticoltura un’arte eccelsa e i pregiudizi ammorbidiva con la malleabilità dei propri formaggi. Nessuno osò dirlo; ma eravamo la seconda scelta, i bianchi di categoria “B”, chiamati a schiarire e nobilitare i lineamenti di quei complessati meticci che i tedeschi aristocraticamente sprezzarono, ricevuto d’innanzi l’invito ad insediarsi nelle verdeggianti valli dell’Itajaì.




In realtà nel 1828 avevano già messo piede a Saõ Pedro d’Alcântara, ma si sarebbero dovuti attendere due decenni ancora per veder fiorire le cittadine di Blumenau, Pomerade e Joinville, rinomate non solo per le pittoresche case a graticcio o per i buffi Lederhosen, ma anche e soprattutto per l’organizzazione di un’Oktoberfest seconda solo al leggendario carnevale di Rio. Diciassette giorni trascorsi ad inseguire il folkloristico “choppwagen”, il carro della birra alla spina, o ad addentare l’Ente mit Rot Kohl, l’anatra al cavolo rosso.



Venne poi il turno dei polacchi, dei russi, degli ucraini e degli austriaci, di altri ed altri ancora: arrivavano da ogni parte d’Europa, in cerca di fortuna e riscatto, ma come avrebbe detto l’imparziale Giovanni Verga, primi furono i portoghesi. A loro, e in particolare agli abitanti troppo fertili delle Azzorre e di Madeira, spetta infatti la paternità dei villaggi colonici costruiti sulle spalle degli sfortunati indigeni; quei circa 6 milioni di Xocleng, Guaranì e Kaingang, di cui oggi restano appena la spoglie di 10mila anime, e non più di 30 comunità sapientemente occultate nell’umida mata atlantica. Sorte opposta ai pittogrammi dei loro vetusti avi, che oltre 10mila anni fa affidarono a sperdute rocce le loro sacre zoomachie e le geometrie distorte di oscuri riti sciamanici, senza immaginare dovessero poi finire sotto lo sguardo impudente dei visitatori di Praia do Santinho o dos Ingleses.



Piano piano ognuno ha saputo ritagliarsi il suo spazio. Quasi sempre senza infierire, talvolta aggrappandosi ad un orgoglio che mal s’addice ad una nazione dai mille rizomi. Basti pensare a cosa sia diventata la scuola di teatro “Bolshoj” di Joinville, inaugurata solo nel 2000 come unico distaccamento della più rinomata istituzione di danza del mondo, ma in grado di plasmare in otto anni di corso oltre 300 professionisti delle due punte. Ragazzini sottratti alla strada e all’indigenza, in omaggio alla tradizione che i moscoviti avviarono nell’ormai lontano 1773, pronti a volteggiare in un festival di ciclico ritorno, ogni anno in calendario alla metà di luglio.





Santa Catarina è così. Trasuda sacrificio, nostalgia ed eroismo in ogni lembo del suo territorio. Non sarebbe tanto rosso il vino del Contestado, se non fosse pregno del sangue versato dai caboclo di Monge José Maria, in lotta contro le pretese del consumo e la maschera yankee della Brazil Railway Company.



Per quattro anni opposero resisenza, 20mila vittime pagarono: la terra venne offesa e mortificata, la ferrovia congiunse le magnifiche e progressive sorti di San Paolo e Rio Grande do Sul.
Nulla ha invece scalfitto gli imperdibili gioielli coloniali della costa, lungo cui brillano Saõ Francisco Do Sul e Laguna.



All’estremo porto settentrionale approdò nel 1504 il navigatore francese Binot Palmier de Gonneville, dando origine a quel che sarebbe poi diventato il terzo più antico insediamento di tutto il Brasile, nonché un tesoro sorprendentemente intatto dell’Unesco: sovrastato dalla fortezza Marechal Luz, conserva oltre 150 palazzi d’inestimabile valore, su cui svetta il candido duomo di Nossa Senhora. Risalente al 1699, è un curioso pastiche di malta a base di sabbia, calce, conchiglie ed olio di balena. Lungo i litorali catarinensi sono infatti soliti tornare ogni anno a riprodursi capodogli giganti, avendo ormai imparato a fidarsi della benevolenza dei pescatori locali.



Il mare ne rappresenta d’altra parte l’anima più profonda, a tal punto che in città trova accoglienza un museo nazionale ad esso interamente dedicato e alle sue più ingegnose imbarcazioni, unico in tutto il Brasile. Nessuna sorpresa se Amyr Klink, l’eroe della traversata dell’Antartide, abbia allora scelto di esporre proprio qui la sua gloriosa barca Paraty.



Più a sud, Laguna celebra invece il volto romantico dell’Ottocento rivoluzionario. La mano sinistra protesa al cielo terso, il fucile nella destra e i suoi meravigliosi capelli corvini sciolti al vento: Anita Garibaldi domina la piazza dell’ultima cittadina al confine col Rio Grande do Sul, dà il nome al suo museo più insigne, si fa casa che dispensa ospitalità attraverso il giallo canarino delle pareti ed il blu delle finestre.



Uno spartiacque fra epoche e mondi, antica e già incredibilmente moderna, cuore uruguegno ed anima tricolore, Anita non poteva che camminare sulla linea tracciata dal Trattato di Tordesillas del 1494, primo solco che faceva del mondo una metà, fetta portoghese, fetta spagnola. E’ amore a prima vista, indimenticabile voto all’unità spezzata e al sacrificio per l’altro, promessa gravida e speranza dell’ultimo appello. Anita è ponte di luce sui sogni di Florianopolis, la regina delle 500 spiagge...



..ma ancorché emblema della Madre Patria, Anita è soprattutto la madre: magica parola che per prima sgorga sulle nostre labbra e per ultima ci abbadona.

lunedì 19 novembre 2007

PAROLA DI REDUCE

VIETNAM, CAMBOGIA &CO.



Sono trascorsi circa cinque mesi dal mio viaggio nel Sud-Est Asiatico e, pur accingendomi a raccontarne vicende e motivazioni in un reportage pubblico, mi rendo conto che quel vissuto non è ancora riuscito a sedimentare. Non s’acquieta nella memoria. Quando penso d’aver detto l’ultima parola, ecco che ricompare un volto, una smorfia, davanti al quale capisco mio malgrado d’aver commesso un torto.

Vorrei provare a trasmettere quel buffo senso di paternità riconosciuto nella mano di un bimbo – probabilmente orfano - che mi si era aggrappato nel risalire la scalinata del tempio di Preah Vihear, sofferto assaggio di una Cambogia in lotta contro tutto e tutti. Prima ancora di vendermi alcunché, la sua gioia più innocente irraggiava dal poter passeggiare accompagnato da qualcuno. Non mi ha chiesto soldi, facendomi presente piuttosto che se avessi comprato un po’ delle sue cartoline, sarebbe stato carino non dare tutti i miei riel a lui. Un sorriso e via. Già mi aspettava tre gradini più in alto, sotto l’incombente sibilo di una scultura Naga a sette teste, mentre uno stuolo di voci infantili reclamava per uno scatto inaspettato. La mia generosità gli avrebbe forse garantito una bibita fresca e qualche succulento biscotto thailandese ripieno di crema al mango, instillando però l’imbarazzo dell’inadeguatezza nei suoi compagni.

Non ho idea di come si possa esprimere il senso di colpa per una tragedia di cui non si è responsabili diretti, eppure grava sul nostro cuore per il semplice fatto di essere uomini. Mi sembra ancora di vedere davanti a me le braccia atrofizzate di quel povero corpo carbonizzato, che gli aguzzini del carcere di Tuol Sleng si lasciarono dietro in tutta fretta, presi dal panico per l’arrivo inaspettato delle truppe di liberazione vietnamite a Phnom Pehn. Ne hanno rimosso la vergogna, il rimorso e il ludibrio dalla rete arrugginita di un letto su cui riposano solo tenaglie e cavi elettrici, ma basta alzare lo sguardo sulla parete a fronte, per accorgersi che l’ombra nera lì impressa è molto più che uno spettro redivivo.

Continua a stringere quel nodo alla gola manifestatosi d’improvviso alla vista di un vaso trasparente, accantonato fra le reliquie del museo dei crimini di guerra a Saigon. In mezzo al liquido giallastro in esso contenuto non riuscivo a scorgere chiaramente cosa galleggiasse: un colpetto appena e tre occhi sbarrati hanno cozzato contro il vetro, deformando ulteriormente un feto saturo di diossina ed agente arancio. Eredità di un ventre violentato due volte.

La mano non ha avuto il coraggio di appuntare l’orrore L’obiettivo si è rifiutato di volgere impudicamente la propria morbosità all’oblio della ragione. Abbiamo semplicemente raccolto chicchi di speranza scaturiti dagli spruzzi di cascate ai confini degli imperi; abbiamo setacciato acque smeraldine dove i draghi dormono da millenni; abbiamo occhieggiato nelle foreste abitate da statue senza volti e templi innervati dall’ibrido della penombra. Ci siamo uniti alla danza delle lanterne di loto nei teatri di corti spodestate, confondendoci fra cappelli a forma di cono e pagode presidiate da orchi sputafuoco, inseguendo le tuniche arancioni di bonzi andati irrimediabilmente in fumo.

Ma quando pensavamo di aver riconosciuto finalmente quel riso cristallino e dimentico d’ogni perché, voltandoci non abbiamo trovato altro che la smorfia di un teschio, una costola abbandonata nella terra ormai sterile.

Le nostre memorie non sono niente più che frammenti scomposti e decomposti, incapaci di risvegliare un ordine e insofferenti alla selezione. Talvolta urlano la bellezza attraverso la turpidudine. Tal’altra ostentano la polpa marcia che si cela sotto la menzogna della fioritura.

Comunque sia, all’appello della nostra coscienza mancherà sempre qualcuno o qualcosa. Forse l’essenziale. Magari il superfluo che dà senso alla vita. Il problema è che siamo sì partiti, ma lungi ancora appare il ritorno. Sorte volle che noi pure si fosse eroi di una guerra minore. Reduci col fucile scarico e un fiore fra i capelli.



ALLA RICERCA DEL COLONNELLO KURTZ

Macherio - Un viaggio nato da una data, più che dalla ricerca di un luogo. Tagliato il traguardo dei 30 anni, è stato per me inevitabile rivolgere la mente a quanto fosse sopravvissuto, e quanto invece estintosi, nelle aspettative che animavano il 1977. Se l’ultimo grande sussulto rivoluzionario, volto a cambiare la società cui ci siamo consegnati in modo più o meno inerme, si leva infatti dall’anno della rabbia e dei sogni appassiti troppo in fretta, il senso di quella stagione traluce in modo paradigmatico nella storia della Cambogia e del Vietnam, visitati appunto la scorsa estate: fu solo nel 1977 che il mondo apprese per la prima volta di come a capo dei khmer rossi, l’avanguardia del socialismo contadino emancipatasi da Marx e Lenin, fosse un uomo di nome Pol Pot. Da lui ci si aspettava il Paradiso in terra; se ne guadagnò solo l’Inferno del genocidio. Indirettamente figlio della guerra americana in Vietnam, resta tuttora il monito degli orrori che solo dieci anni prima della sua “comparsa”, nel 1967, la generazione del “flower power” pensava di cancellare attraverso la pace e l’amore.

Il reportage “Dispacci indocinesi” che avrà luogo venerdì prossimo, 23 novembre, presso l’auditorium di via Italia a Macherio, è dunque un omaggio alla memoria degli eroi e delle vittime di quella stagione, nonché una dovuta riflessione sulla figura del dittatore arrestato dieci anni fa e spentosi serenamente pochi mesi più tardi. Dalle ore 21, l’auditorium aprirà per una mostra sulle cartoline fotografiche dedicate alla guerra in Vietnam, vista da reporter occidentali e vietnamiti, accompagnata dall’esposizione di artigianato asiatico a cura della cooperativa monzese Il Villaggio Globale, nonché da un rinfresco tipico. La successiva proiezione di diapositive si focalizzerà su Vietnam, Cambogia e Thailandia, venendo intervallata da letture di autori locali, testimonianze di associazioni umanitarie e numeri di danza a cura della scuola Giselle di Biassono e Spazio Danza di Monza, oltre al contributo del Centro Studi Arti Orientali di Milano (che organizzerà un laboratorio di massaggi thai). L’iniziativa è presentata dall’associazione culturale “La Manifattura” , sotto il patrocinio del Comune di Macherio, ed ha ne “Il Giornale di Carate” il proprio media partner.



HELLO VIETNAM!

Hanoi - “Vientam! Vietnam! Vietnam! Ci siamo stati tutti”. L’urlo di Michael Herr, ineguagliato cronista della guerra americana nel sud-est asiatico, nonché straordinario sceneggiatore di film quali “Apocalypse now!” e “Full metal jacket”, suona oggi più una sfida che un epitaffio di chiusura ai suoi famosi “Dispacci”. Costretti a sorbire per oltre 30 anni i mea culpa di Hollywood, al pari della rinascita dell’orgoglio militarista yankee, il Vietnam di cui tanto, forse troppo, si è parlato sugli schermi - benché inevitabilmente dato per disperso fra i titoli dei giornali e dei notiziari dopo la vittoria dell’aprile 1975 - continua a spiazzare.

Pur senza volerlo, siamo infatti tutti un po’ marines nella terra del drago Tarasco, la leggendaria creatura sonnolenta che disegnò il profilo a panettoncino della baia di Halong Bay, per la gioia delle riviste patinate: ragazzotti ben nutriti che credono di sapere cos’abbiano di fronte, forti della propria moneta quanto un tempo lo si era del proprio mitra, magari meno spigliati nel riconoscere un assolo di Jimi Hendrix alla radio, eppur sedotti dagli strabilianti neon di Ho Chi Minh City (l’ex Saigon) e dalla frenesia liberista del Dao Moi (la politica di “rinnovamento” economico che, dal 1986, ha gradualmente trasformato l’orgoglioso baluardo del socialismo filosovietico nella più aggressiva tigre del sud-est asiatico).

Capita poi d’imbattersi nel museo dei “Crimini di guerra” delle vecchia capitale del Sud, o in un bimbo dall’impossibile volto anfibio, con le gambe deformi e le braccine ridotte a frenetiche pinne a causa dei defolianti americani, per iniziare a chiedersi se non si sia per caso finiti in un incubo astutamente mimetizzato nelle meraviglie della jungla urbana: perché l’orrore in Vietnam, così come avviene nella vicina Cambogia, è stato solo occultato, non cancellato. Sulle candide spiagge di Mui Né, fra le botteghe secentesche di Hoi An o sotto i picchi calcarei di Tam Coc, pare infatti di rivedere il paese brulicante e faccendiere in cui amava puntare il naso Mandarino Tan – sorta d’ispettore Montalbano creato dalla felice penna delle sorelle Tran – ma basta avvicinare un anziano seduto a contemplare una risaia, oppure chiedere ad un giovane perché si accontenti di fumare oppio dalla mattina alla sera, per capire che forse qualcosa non va. Che questa smodata sete di futuro è più paura di guardarsi indietro. Che in mezzo ad un’impressionante massa di ciclisti e motorbikers, trovare una famiglia integra è oggi più arduo che disotterrare una mina fuori casa. Che dietro la retorica del Partito, si aggira ancora lo spettro dell’ex primo ministro “sudista” Ngo Dinh Diem.

Ecco perché l’urlo di Michael Herr è al tempo stesso liberatorio e frustrante. Ci invita a scoprire un paese d’incomparabile bellezza, dalla storia tormentata e gloriosa, capace di bloccare le orde dei Mongoli, di mettere in riga gli eserciti infiniti del Celeste Impero ed umiliare la più grande potenza militare del mondo, salvo poi scoprire insondabilmente il fianco ai vizi peggiori: corruzione, speculazione, prostituzione, diseguaglianze sociali ed amnesie storiche. Il Vietnam di oggi non è il paese granitico che la vecchia guardia del Partito comunista si ostina ad incensare, ma riflette in modo contraddittorio gli slanci eroici e le cadute bibliche delle grandi utopie; un mosaico di fotogrammi che non si lasciano racchiudere in una categoria definita, ma sfumano proprio come le sue 54 minoranze etniche, sui cui volti ci ostiniamo a cercare l’ineffabile Charlie. Di una cosa, però, siamo certi. Quando avremo sentito battere per davvero il cuore di questo Paese, ci ritroveremo davanti alle bandiere del mausoleo di Ho Chi Minh con gli stessi occhi del poeta Evtushenko; e insieme a lui, lasceremo affiorare le parole troppo a lungo taciute: “Arrivederci, bandiera rossa! Eri metà sorella, metà nemica…eri in trincea speranza unanime d’Eurasia, ma tu di rosso schermo recingevi i gulag. Giace la nostra bandiera nel gran bazar d’Ismajlovo. La smerciano per dollari, alla meglio. Io non ho assaltato il palazzo d’Inverno, non ho preso il Reichstag. Non sono un kommuniak. Ma ti guardo e piango…”.



FRA GLI H'MONG E GLI DZAO

Cat Cat – Uno sguardo a destra. Uno a sinistra. La via parrebbe libera; ma non appena metti piede fuori dal tuo rifugio, loro sono già lì. Astutissimi questi H’mong! Quando punti l’obiettivo sui loro meravigliosi costumi ricamati in blu, sui sottili anelli d’argento che lasciano pendere dalle orecchie o su quei visi dai lineamenti più morbidi di un bassorilievo Cham, in qualche modo sanno eludere sempre la tue sete di meraviglia. Se invece il momento è propizio per accollarti una coloratissima borsetta cucita a mano, o addirittura un portacellulare decorato col tradizionale motivo a fiori della tribù, non c’è verso di sottrarsi alle loro insistenti attenzioni. Magari non sanno neppure a cosa serva un “portacellulare”, però hanno capito che quella forma piace agli stranieri in arrivo sotto le pendici del monte Fansipan – a un tiro di schioppo dalla Cina – e allora figlie, madri e nonne si contendono ago e filo per giorni, così come hanno fatto per secoli, decise a strappare la loro ciotola di riso quotidiano. Gli H’mong sono fatti così. Preferiscono vivere del lavoro delle proprie mani, piuttosto che rendersi schiavi delle macchine, o sedere dietro il banco di una scuola. Spianano terrazze al limite della pendenza sui fianchi delle montagne, benché il governo sia pronto a conceder loro immensi campi da coltivare.

Invece no. Essere un H’mong dalle dita blu, uno Dzao dal copricapo scarlatto, o – come avrebbero tagliato corto gli sprezzanti colonialisti francesi – un “montagnard”, significa appartenere al Vietnam che non scende a compromessi. Far parte di quelle tribù che, calate dallo Yunnan cinese nel XVIII secolo o risalite dalle isole australi, continuano a difendere le loro credenze animiste e a rivendicare il diritto alla nomadicità, allorché la loro tecnica agricola del “taglia e brucia” non dia più frutti.

Le tribù “montagnards” vietnamite sono almeno 54 , dislocate da nord a sud lungo la cordigliera dell’Annam, e sono riuscite a guadagnarsi il rispetto del Partito Comunista grazie al prezioso contributo che offrirono negli anni della guerra: facendo scoprire vie secondarie strategiche, o aiutando a trasportare quell’artiglieria letale che aprì ai Viet la vittoria in battaglie epiche come Dien Bien Phu, contro i francesi nel ‘54, o durante la famosa offensiva del Tet nel ’68. Oggi vantano nella capitale Hanoi il più affascinante museo etnologico del Paese, gestito in collaborazione con il Louvre di Parigi, e rappresentano l’altro volto di un Vietnam in gran parte sconosciuto.



IL LATO OSCURO DELLA CAMBOGIA

Phnom Pehn - Qui la chiamano “madame”. Negli uffici dell’associazione che ha fondato nel 1996, l’Afesip (www.afesip.org), è una sorta d’angelo, una presenza rassicurante che – seppur lontana dalla sua natia Cambogia – lancia messaggi d’aiuto attraverso le foto appese alle pareti, o i manifesti di sensibilizzazione contro lo sfruttamento sessuale. La si vede in compagnia dei sovrani di Spagna, con l’onorevole Emma Bonino o a fianco di papa Giovanni Paolo II: potenti della politica, così come semplici simpatizzanti, chiunque possa contribuire a debellare una delle peggiori piaghe che, insieme all’Aids, affligge la Cambogia d’oggi.

“Ora Somaly Mam si trova in Francia – mi spiega Or Samnang, responsabile amministrativo della sede Afesip di Phnom Pehn – perché in estate è più facile trovare in Europa chi ti ascolti. Certi problemi diventano reali solo quando devi partire per le vacanze. Di fondi, tuttavia, ne abbiamo bisogno sempre: da quando il governo ha deciso di appoggiarci, riusciamo a riscattare dai bordelli decine di ragazze, che vanno poi curate, educate e reinserite socialmente, dopo almeno sei mesi di preparazione”.

Di fronte a noi, una tabella fa il punto sulla situazione a luglio: 148 operazioni di riscatto sono andate a buon fine. Tradotto: 148 ragazze dovranno essere sottoposte ad esami medici, a corsi di specializzazione professionale (come parrucchiere o tessitrici, coltivatrici di riso o disegnatrici d’abiti) e, infine, tornare alla vita civile. Chi viene respinta, a causa di quella macchia che la stessa Somaly continua a portarsi dentro, torna talvolta a prostituirsi: condom e precauzioni sanitarie sono in questo caso l’unica assistenza che l’Afesip può fornire, sempreché durante i rapporti qualcuno non si ribelli piantando un chiodo in testa alla ragazza di turno, o ricorrendo a punizione corporali ispirate al sadismo del carcere di Tuol Sleng, l’ex liceo della capitale che, negli anni ’70, i Khmer rossi trasformarono in una perfetta macchina da morte.

Nessuno s’illude sui lieto fine dei riscatti, tanto più che il boom turistico degli ultimi anni riversa nel Paese frotte di occidentali pronte a pagare sino a 100 dollari (quasi 3 mesi e mezzo di cibo e vestiti garantiti per un cambogiano medio), per violentare bimbe o bimbi di 8 anni, se non poco più. Per questo diverse associazioni umanitarie cambogiane si sono unite nel progetto “Stay Another Day” (www.stay-another-day.org), grazie al quale è possibile trascorrere parte del proprio viaggio a diretto contatto con realtà forse non pittoresche quanto i templi di Angkor, ma più che mai decise ad urlare al silenzio gli orrori di una guerra conclusasi solo sulla carta.



UNA NOTTE AD ANLONG VENG

Anlong Veng – “Dobbiamo fermarci”. Boreak mi lascia basito. Non che abbia qualcosa da obiettare. In fondo ci troviamo solo dispersi fra le foreste dei monti Dangkrek, a notte fonda, in un punto imprecisato fra il confine settentrionale cambogiano e quello thailandese. Però è la prima volta che sento un khmer prendere posizione, senza cercare almeno di assecondare il suo interlocutore. Un atteggiamento che va contro secoli di buddhismo theravada e che mai ci si sarebbe sognati di tenere sotto il regime di Pol Pot.
“Mine. Qui a lato. Laggiù. Troppo pericoloso”. Effettivamente viaggiare in moto con un solo flebile faro ad illuminare le ombre dell’odio, è forse oltre la portata di chiunque conservi un briciolo di buon senso. Per tutto il giorno mi ha guidato sui luoghi che ogni cambogiano vorrebbe relegare nelle maglie dell’oblio: l’arena di pali rinsecchiti dentro la quale il Fratello n.1, l’artefice del peggior genocidio del XX secolo, venne giudicato dai suoi gerarchi nel 1997; l’ammasso di ceneri del dittatore, cremato su una pira di pneumatici e rifiuti; il masso traballante su cui gli ultimi khmer rossi scolpirono l’orgoglio di quasi 20 anni di guerriglia, ormai braccati dalle truppe governative. L’accondiscendenza di Boreak ha però un limite: ed è forse questa la sua conquista più grande. Fossi stato un suo superiore quando vestiva la divisa da ribelle, sarebbe andato avanti sino a farsi esplodere su una mina. Oggi ha messo su famiglia, lavoricchia come guida turistica e collabora con un suo amico medico, insieme a cui gestisce una cooperativa agricola di riabilitazione per ex soldati, nella lontana provincia di Kompong Thom.

Mi fa accomodare dentro un rudere in cui brucia qualche candela. Sulle pareti scrostate ci sono scritte inquietanti. “Ta Mok assassin de l’histoire!”. “I hate you all!”. “Sangue! Sangue! Qui sanguina tutto”. E’ uno degli ultimi rifugi utilizzato dallo “zio” Mok, il braccio destro di Pol Pot, ormai preda del rancore di chi ha perso tutto per causa sua. Ogni tanto arriva qui gente che ha voglia di pregare, che vuole accarezzare le macchie rosse sui muri per lenire la rabbia degli spiriti. La Cambogia resta pur sempre un paese dove la magia avvince gli animi dei contadini, pronti a sventrare una donna incinta e ad esporre fuori dalle capanne il suo feto, qualora si sentano minacciati dai sussurri delle tenebre. Non è forse il caso della ragazza che vedo accoccolata sulla parete opposta. Mi guarda esterrefatta. “Ciao. Come va? Vengo dall’Italia”. Mi sorride. Il solito, enigmatico sorriso khmer. Un sorriso che non riesce a nascondere i tic di un trauma di cui – malgrado tutto - mai sapremo nulla.



NELLE BRACCIA DI BUDDHA

Bangkok – Per un attimo il rito s’interrompe. Mi lasciano sedere sulla soglia del tempio, mi guardano un po’ perplessi, quindi ricominciano ad intonare i loro mantra ipnotici. Senz’altro avranno notato i miei occhi arrossati e l’espressione non troppo sveglia, ma può darsi pensino sia dovuto all’intorpidimento per una levataccia all’alba. Al Wat Arun, quella straordinaria riproduzione del mitico Monte Meru in cui gli antichi dei Indù hanno ceduto il posto alle decorazioni floreali buddhiste, non sono rari i pellegrini della buon’ora. Pagano il loro obolo-bath sulla sponda opposta del fiume Mae Nahm e, in pochi minuti, si lasciano alle spalle la Bangkok del vizio per la quiete monacale. Effettivamente la notte non è stata riposante: deciso a ritrovare le tracce di “Cowboy soldier”, il fratello nero americano che negli anni ’70 ripudiò il Vietnam per inaugurare il primo vero business del sesso nella Città degli Angeli, ho finito per girovagare nel “soi” a lui consacrato imbattendomi solo in squallidi peep-show, anziché in oppierie maledette dove avvicinare reduci nati il 4 luglio.

Di là l’oblio, di qui la palingenesi. Stanchi di una vita fatta di telefonini di grido e creme antirughe, sono sempre più numerosi i giovani che si sottopongono all’iniziazione buddhista per farsi monaci mendicanti. Se in paesi quali la Birmania o la Cambogia è ancora un buon metodo per ricevere istruzione e di che sfamarsi, qui in Thailandia è piuttosto l’eccesso di consumismo ad illuminare la via del Nirvana.

Mi domando chi sia quel ragazzo già un po’ pingue e rapato a zero, che i fratelli in tunica arancione obbligano a sedere sui calcagni, procurandogli violente fitte nelle gambe. Ogni volta che stecca una formula imparata a memoria, deve ricominciare la preghiera da capo, ripetendola sino all’ossessione, armonizzando la sua voce a quella della congregazione paciosamente accovacciata sotto la stutua d’oro di Siddartha. Quindi il momento della benedizione: un fiore di loto viene intinto nell’acqua santa, cosicché le gocce possano essere asperse sul suo capo penitente. Si sfaldano sui tappeti le ceneri aromatiche degli steli votivi: è tempo di tornare al di là della sponda e fare i conti con la propria coscienza.

mercoledì 10 ottobre 2007

L'ULTIMO DOMATORE DI ELEFANTI




Tabarka - Capita talvolta ai viaggiatori di porsi quesiti un po’ bizzarri. Del tipo: “E se fossi stato una palla da catapulta in una precedente vita?”. Piombare in Tunisia dopo due ore scarse di volo risveglia infatti la sensazione di essere niente più che un grave frettolosamente sbozzato, posto su un marchingegno di stupefacente precisione balistica e lanciato verso una terra dov’è meglio non far parola dell’elmo di Scipio.



A Tunisi, quanto meno, ci sarebbe il tempo di capire perché i francesi dovettero darsela a gambe nel ’56, rivolgendo uno sprezzante adieu ai lidi d’Africa e alle glorie coloniali. Ma a Tabarka, una manciata appena di chilometri dal confine algerino, va già bene se al nome di Annibale si associa la figura di un domatore di elefanti. Degli antichi punici non c’è traccia lungo le spiagge di sabbia bianca, né tanto meno sulla strada infuocata che attraversa gli eucalipti e i rosmarini della macchia.



Si scorgono solo strane creature dalla pelle rosolata, con uno sguardo d’indolente beatitudine, che rotolano su se stesse cosparse d’olio: ci fosse un passante bipede, gli si potrebbe chiedere se quella non sia forse la rappresentazione vivente dell’inferno musulmano, popolato da enormi porcelli “à la mediteraneé”. Prima di ottenere una risposta, alle porte della cittadina che genovesi, veneziani e spagnoli si contesero ripetutamente per controllare il traffico di coralli rossi, occorre però armarsi di pazienza e lasciarsi alle spalle una sequenza di club e villaggi in diretta concorrenza con le più grandi multinazionali di carne in scatola.



Poi, d’improvviso, la magia maghrebina si sprigiona con la stessa delicatezza con cui ti sembra d’aver sfiorato una lucerna intarsiata e dal becco ricurvo, che qualche venditore ambulante ha incautamente abbandonato sul ciglio del bazar. Sullo sfondo di abitazioni immacolate, le cui persiane azzurre celano sguardi più seducenti degli arabeschi sopra gli stipiti, uomini dai fez sgargianti attendono l’occasione giusta per offrirti una boccata di narghilé alla mela.





Intramontabile arte del contrattare senza fretta, mentre donne velate impacchettano datteri, setacciano spezie inebrianti e lasciano tintinnare quelle dorate paillettes che, da sempre, accompagnano le danze proibite nel ventre delle kasbah. Non importa scegliere un rosario o pugnale incastonato di rubini; fa lo stesso se un sandalo di cuoio viene preferito ad una tunica castigata: più tempo si riserva ai propri desideri, meno ci si accorge della litania delle onde, che giorno dopo giorno assottigliano gli scogli orgogliosi in evanescenti anguille di roccia.



Né si dovrà incrociare lo sguardo di quel vecchio che, le mani giunte su una stampella di legno, fissa vuoto le colonne senza capitelli della vetusta Bulla Regia, così come le astruse geometrie sopra le lapidi di Chemtou la Numida. Non appena i cieli si saranno tinti di porpora fenicia, mandolini e trombette trascineranno la notte nel vortice alato delle feste senza fine. E nessuno potrà udire di nuovo l’eco agghiacciante delle parole di Catone: “Ceterum censeo Carthaginem delendam esse”.

lunedì 1 ottobre 2007

DISPACCI INDOCINESI/2 (UFFICIALI)

Chicchi scotti di un guerrigliero ritardatario
Indochina’s highway to hell 2007



“Io, l’orizzonte, mi batterò per la vittoria, perché sono l’invisibile che non può sparire. Sono l’onda. Aprite tutte le chiuse, affinché possa dilagare e travolgere tutto!”
(G. Apollinaire – Tendre comme le souvenir)


24.07.07 – h. 00.48, sopra le Piramidi di Sakkara 
(volo EgyptAir Muenchen-il Cairo-Bangkok)

Prologo:

C’è un numero di matricola marchiato nel fondo di ognuno di noi. Per alcuni, candido anno di nascita, intangibile nella sua purezza. Per altri, sigillo di vergogne che vorremmo ermeticamente alle spalle. Ma non c’è nulla da fare. Gli spifferi del tempo sono condannati a farsi squarci di verità, argentando le nevi e piegandoci al perdono. Al banco dei testimoni, dentro la nostra culla, sediamo sempre e al tempo stesso in qualità di vittime e carnefici.

Ossessionati dal rendere ragione, non possiamo che scomporre le cifre a noi ciecamente assegnate sino a scorgerne i segreti varchi, celati in notti ben più cupe di quelle in cui abbiamo udito il primo vagito, prossimi alle lande del dolore primigenio, dove le lacrime non hanno volto e la pietà ci fa uomini ancor prima che cittadini, fratelli ancor prima che compagni.

Spingersi oltre, in là, è per noi un regredire alle immagini dell’archetipo, perché dietro le parole del nuovo udiamo assonanze enigmaticamente familiari, come se nessuna cesura si fosse mai frapposta fra la conquista dell’io e la riscoperta del noi.

E’ il segreto dell’occhio di Horus, rivolto alla mano alzata sul proprio seme e alla punta estrema delle piramidi vetuste, alla caduta nel tempo e alla porta dell’eternità.

Ovunque poseremo il nostro sguardo, saremo immancabilmente sulla soglia. Al di là della vita e della morte, anime fluttuanti in cerca di carne fresca, affinché di volta in volta siano riscritti i segni del cammino infinto.

26.07.07 – h. 18.48, Hualangphon Railway Station - 
Bangkok (sedile riservato al farang)

Troppa gentilezza finisce per rendere dannatamente sospettosi. Di tutto e di tutti. Le guardie di frontiera che sorridono amabili. I tuk tuk pronti a sacrificarsi ciecamente nel traffico in perenne tilt. Le guesthouse di Kao Sao cui non mancano mai amene sale massaggio, per ammorbidire la fatica pedestre del nomade che “non può non riposarsi”. Astuzie hegeliane al costo di 3 bath.

Bangkok non lo dice apertamente, ma invita a prendere la vita con mollezza. Fa sì che si scivoli su di essa come lumache nel burro al curry. Che poi ci si ritrovi fritti in padella è un eccesso di malizia capace solo di farci apparire smaccatamente occidentali, scortesi; avremo tutte le ragioni del mondo, ma alla fine ci diranno che abbiamo frainteso. Niente più. Alla verità si arriva, se mai si arriva, per vie oblique.

La chiamano Città degli Angeli e noi, figli di S. Tommaso e Cartesio, ci logoriamo ad interrogarci sul suo sesso. Ma la nostra volontà di sapere diviene ai loro occhi un infido smascherare.

Se i fiori sbocciano sul Wat Arun è perché in Oriente un tempio consacrato all’alba dischiude le sue labbra per liberare i sospiri della meraviglia; è vero, il thailandese costruisce cittadelle reali sempre cinte da mura: ma solo per meglio preservare la sorpresa delle pagode dorate, i cui tetti s’incurvano come archi di Cupido pronti a trafiggere il nostro rude cuore. Qui non conoscono la parola proibito. I cittadini di Bangkok si fanno piccoli piccoli di fronte allo straniero, al farang, perché anche Buddha veniva da lontano e, stanco, scelse infine di distendersi per 46 metri sotto i teak del Wat Pho.

Sono però loro a non aver capito che i suoi occhi chiusi non cercano di distogliere lo sguardo in segno di deferenza. Rifiutare di vedere quanto si ha attorno significa perseguire il distacco dall’adipe godereccio, senza indugiare in ossequi tanto numerosi da avere inevitabilmente un costo. A metà strada fra il candore innocente e il rosso sanguigno, la gialla Bangkok s’imporpora come una timida vergine che, nel bene o nel male, pensa sempre e solo a quello.

27.07.07 – h.13.51, strapiombo di Preah Vihear (accanto ad una mina)

Né di qua, né di là. Preah Vihear se ne infischia dei confini e guarda tutti dall’alto. Sa bene che, nel giro di lustri o secoli, qualcun altro verrà a tracciare nuove righe: preoccupato di riempirsi più la bocca del suo nome, che di dare un sostegno alle architravi della sua vecchiaia, in mezzo alle quali il vento ulula beffeggiante.

Per cui la smettano gli archeologi pedanti di chierdersi che volto avessero i leoni di guardia alla scalinata d’accesso, o quale mai fosse l’espressione dei bassorilievi di Shiva e Vishnù! Per quanto erosi dalle troppe piogge e sfregiati dalle pallottole rosse, sarebbe apparsa comunque di un’imbarazzante atarassia. Virtù dei grandi saggi.

Il tempio degli antichi khmer mostra infatti una pazienza infinita, perché tollera la cantilena dei bimbi in cerca di riel, così come gli acuti malinconici di un violino monco, il placido russare di un’amaca incapace di riallacciare i suoi tendini spezzati, così come il cappello teso di un reduce malconcio, ormai inutile sul suo capo andato in frantumi. Sopporta di gradino in gradino, stanco e reumatico, ma quando scoppia sono guai per tutti.

Ha lasciato arrugginire i propri cannoni e dimenticato come si usano le mitragliere dei suoi bunker, ma non abbassa mai la guardia. Tutt’al più sonnecchia. Non a caso fu casa prediletta dei guerriglieri senza terra. Attenzione, dunque! E’ sufficiente un passo falso: e i brandelli di carne conosceranno la gloria dei cieli.
Oh, mai pellegrino fu tanto vicino al suo dio…

28.07.07 – h. 21.58, strada senza sbocco (Anlong Veng)

Il silenzio, all’improvviso. Il 1975, di nuovo. Ottanta chilometri dal confine thailandese valgono almeno 30 anni d’incubi. Le strade si sono fatte rosso sangue, polvere della polvere. Il cielo minaccia, tanto più tirannico, quanto più lontano si fa il burocrate di bronzo che sta inchiodato ad O Smach. Dalle palafitte, solo occhi stralunati. Per la malaria, o per l’incredulità, una scomessa che sarebbe costata due pallottole dritte in fronte. Via, via, la moto corre senza mai indugiare. Neppure una volta: non teme i ponti marci, non presta attenzione ai ruderi bruciati, ma guai a sgarrare dal tracciato. La maledizione dell’Angkar fa tremare il suo manubrio di finto acciaio, arrugginito nell’unico mito permesso: il Grande Balzo in Avanti. A destra solo mine. A sinistra solo scheletri. Dietro, una notte così buia da ottenebrare la mente senza possibilità di ritorno. Ta Mok è sui muri. Pol Pot nelle ceneri. Dei khmer rossi restano solo corpi senza teste, scolpiti in rocce che paiono pronte a schiacciarti. Eppure le paludi continuano a regurgitare gli stessi fantasmi. I tic a tormentarti ininterrottamente da quel dannato giorno d’aprile, che non è ancora passato. E probabilmente mai passerà. A costo di qualunque geranio fiorito, là dove mai te lo saresti aspettato.

29.07.07 – h. 18.17, in sella alla ruota del Karma (Chong Kneas)

Non c’è posto sicuro, se non la strada dove il sole batte sino a farti alimento delle risaie. A Siem Reap sei solo una distrazione, una ferraglia che prende forma nel rischio d’investimento. A Chong Kneas un ostinato pesce fuor d’acqua. Mille barche pronte a farti naufragare lontano da vite annegate, cento canoe che trasportano tutto ciò di cui non hai bisogno. Ti fanno mangiare la polvere, se non accetti di domare la tua curiosità. Ti occhieggiano sospetti, se ti fermi sulla soglia di capanne che issano bandiere sconosciute. Progetti filantropici di salvatori senza volto: una pompa per l’acqua, un tetto per chiudere gli occhi e mettere l’animo in pace. E nel mezzo, tutto un fiorire di bimbi che ridono per il solo gusto d’inseguire, di pescatori che esalano il piacere di riparare sotto le palme da cocco, di anziani che tengono il volume degli altoparlanti al massimo, affinché ritrovino l’ingresso al tempio dove pregare che tutto torni come prima. Posarsi come farfalle. Ecco il segreto per preservare la delicatezza delle stagioni. Giù dai pedali, la stanchezza ci guida solo alle insidie dei karaoke. Alle carezze che trascinano nell’ombra. Ai capolinea della pietà.

30.07.07, h. 11.47 - lato in rovina del Ta Prohm (complesso di Angkor)

Prima o poi se ne andranno. Anche loro. Ma non prima di aver violentato, deriso, insozzato e svilito l’ultimo sussulto di dignità della Cambogia. Vengono soltanto per rimirare se stessi attraverso Angkor, quasi questi templi fossero una mera scenografia per l’ennesimo film hollywoodiano, anziché l’ossessione del monte Meru. Uno. Due. Cento volte. Il conto si perde. Per gli imperatori khmer costruire templi era già una sfida contro i limiti della propria natura, ma di ben altro genere. Imporre il cosmo all’accidentalità dell’individuo.

Oggi è il volto dell’uomo qualunque a reclamare la smorfia dell’essere. Il manierismo della posa. Malato cronico di miopia, non riesce più a spingersi oltre la propria immagine. Tutto è per lui cornice. Così vaga incerto fra corridoi senza vero sbocco, si attarda a cercare scorci da cui affacciarsi; invidia bilioso la flessuosità delle apsara in equilibrio sui cornicioni, adula l’irremovibilità dei guerrieri armati davanti alle torri Naga. Ma ogni volta manca il centro. Ogni volta è fuori posto. Non è tuttavia colpa delle liane e delle radici se le sue geometrie sono state innervate dal tumore della dispersione. Ancora non ha capito che la jungla ricicatrizza ogni strappo. Perché il solo modo di affrancarsi dalla natura è assecondare la propria. Ma come ragionare con una scimmia che si strappa i peli?

31.07.07, h.18.34 – cloaca di Battabang

Troppo tardi. Il fratello n.3 è riuscito una volta ancora a defilarsi con una tempestività insospettabile per un ultrasettantenne. E Battabang è rimasta a guardare. Come sempre. Non riesce a scrollarsi di dosso la sua eredità coloniale. Si logora nell’attesa del ritorno, qualunque sia il nuovo padrone. I francesi che hanno profumato le sue vie di bistrot e boulangerie. I khmer rossi che le hanno tolto il pane di bocca. I vietnamiti che ne rimpiangono l’aroma, dopo averlo avversato a colpi di scodelle di riso. Dimenticare quello che si è stati è la tortura peggiore, quando senti che la storia ti scorre accanto. Fra le pietre preziose di Pailin, sulle colline ovattate, lungo le torbide acque del fiume Sangker. La sue case nobilmente decrepite e le sue vie sporche di terra continuano ad essere considerate un avamposto. Una base per guardare al di là. Nessuno l’ha informata che i profughi non l’hanno mai tradita. Giacciono tutti dietro l’angolo, montagne d’ossa neppur graziate da una pallottola. Finite a bastonate, vomitate negli orridi, soffocate da uno stupa pesante come un mattone sul cranio. Se solo i suoi cittadini imparassero a parlare ad alta voce! Forse si renderebbe conto che in centro girano anche quanti non l’hanno mai dimenticata, benché riconoscerli sia difficile. Molto difficile. Quasi come pensare ad un vecchietto che sfalcia il suo giardino, con la stessa abilità con cui mieteva vite umane.

02.08.07, h. 12.36 – Tuol Sleng, ritorno a scuola

Fruscii di palme. Cancelli che cigolano. L’eco dei passi sulle scalinate inghiottite nel grigio. E poi quel cartello: “divieto di ridere”. Il vecchio liceo della capitale non ha perso il vizio d’impartire ordini, ma nulla può contro gli spettri che vagano per le sue aule abbandonate. Ha messo tutti in riga sui pannelli della vergogna, quasi volesse ricordare ciascun volto passato di qui; sviscera con meticolosa cura l’eclisse della ragione; fa retorica della povera Bophana e sfoglia i registri per raccogliere lo sdegno in bella calligrafia. Non prova vergogna nel mostrare i corpi carbonizzati sulle reti delle torture; scruta negli anfratti soffocanti delle cellette sporche di sangue. Martella nella mente: vedere, conoscere, capire. Chi entra a Tuol Sleng ha l’obbligo d’ingoiare la disperazione e digerirla il prima possibile. Guai a metabolizzare troppo il suo peso. La pietà spaventa più della forca. Non c’è posto per emozioni sottaciute. Per l’intimità del proprio dolore. Tutto dev’essere ricondotto al giudizio del noi. Perché l’Uomo ritrovi se stesso, non l’inezia passeggera dell’individuo.

Non c’è niente a fare: scuola, carcere e museo sono tutti figli della stessa madre.

03.08.07, h. 20.39 – Phnom Pehn, al riparo da un tifone

Ovunque ci si voglia spingere, aggirare Tuol Sleng è impossibile. Oltre la scuola che pretese a tal punto disciplina, da fagocitare studenti e professori prima, prigionieri ed aguzzini poi, rimane solo il vuoto della forma. Per quanto Phnom Pehn cerchi infatti d’imbellettarsi coi fasti di un re dalla doppia faccia, o – ancor peggio – con pagode e wat che si fingono venerandi per far pesare una saggezza ormai decisamente insipida, il suo cuore batte fuori dal proprio corpo. Là, nelle fosse fangose di Choeung Ek, dove di tanto in tanto riemergono lembi di memoria e frammenti d’ossa, teschi che ti fissano senza ragione, forse perché increduli di fronte al miracolo della vita che ritorna: essere o non essere, questo è il problema. Oggi come ieri. Il suo cuore di tenebra è uscito allo scoperto, lo ritrovi persino nell’insegna di un locale che fa il verso all’orrore, danza sulle sue spoglie col beato passo di un’apsara ribelle.

Basta regole. Basta leggi. Meglio essere inventori di sé, che pedine di governi incapaci di ammettere da dove vengono. Anche qualora smembrare e ricomporre il proprio corpo finisca per essere niente più che un tirare a campare. Sotto i ponti del Tonlé Sap, o fra le ironiche aiuole del monumento all’Indipendenza: un’enorme ananas che, a ben guardare, è solo un nugulo di serpenti. Proprio come il paradiso promesso da Pol Pot. Luogo che non ha luogo. Insanabile disgiunzione di anima e corpo.

05.08.07, h. 17.56 - Ho Chi Mihn City, riflessi di una vetrina

Occhi aperti! Il traffico di Saigon è un nemico ancor più spietato di uno yankee a corto di hamburger. Non guarda in faccia a nessuno. Ti strapazza coi clacson, ti acceca coi neon, affumica le medaglie bolse degli eroi e insidia i loro musei con negozi all’ultimo grido. Non ha bisogno degli slogan ridondanti che imbrattano i muri ad ogni angolo. Si fida solo del proprio fiuto. Esattamente come una bitchbiker che sbuca alle spalle nella notte. Avanti! Avanti! O si conclude, o si va! Non è più tempo delle stanche code che si allungavano davanti ai magazzini statali del riso. Questa è l’epoca-istante del Dao Moi, del dammi prima che sia troppo tardi. Gli scheletri degli elicotteri in mostra spaventano ancora troppo. I tragici scherzi dell’agente arancio parlano di una bruttezza che è già dietro l’angolo. Finché lo zio Ho se ne sta seduto a coccolare i suoi piccoli davanti all’hotel de la Ville, conviene scorrazzare come matti da una vetrina all’altra. In fondo, mettere l’orrore in mostra aiuta a distogliere l’attenzione da dove si genera. Finché il poliziotto rosso si bea del suo cubo altezzoso nel caos delle discoteche, meglio scatenarsi in balli inconsulti. Chi lo sa che accadrà domani? Un nuovo carroarmato potrebbe scoppiare l’ultimo colpo sul Palazzo della Riunificazione e fare cenere di un mondo che già si pensava nelle mani del dollaro. E allora chiudi gli occhi e vai! Nessuna striscia pedonale è mai sicura e sbiadisce inevitabilmente come i capelli del Partito.

06.08.07, h. 20.43 – Tay Nihn/Cu Chin, nel regno dei topi

Alcuni sono gialli. Altri blu. Ci sono pure i rossi e i bianchi. Tutti in fila, ordinati e dediziosi. Lasciano sbirciare nel loro tempio dove l’occhio divino comunque scruta, ma mantengono sempre una velata distanza di sicurezza. Ben venga l’ecumenismo: ci siamo comunque noi e ci siete voi.

Troppo intenti a dare spettacolo, i caodaoisti si sono dimenticati dell’affresco dei loro tre saggi: quei Sun Yatsen, Nguyen Binh Khiem e Victor Hugò che nella fantasia del mistico Ngo MinhChiu si ritrovarono a firmare la Terza Alleanza fra l’Uomo e Dio, ignari delle proprie radici.

Forse fa comodo così. Squittiscono in attesa del formaggio cui dare l’assalto.

Proprio come i vietcong, rintanati nei cunicoli di Cu Chin. Ben venga il socialismo: ci siamo comunque noi e ci siete voi. Invisibili e dappertutto, continuano ad esser custodi di segreti sotterranei che trapelano solo fumi fugaci e danno in pasto fucili giocattolo. Là dove pensavamo di aver scavato un punto fermo, loro sguisciano fuori e dentro. Là dove eravamo convinti di poter allungare di nuovo il passo, il terreno non regge il peso della nostra moneta. I crateri dei B52 sono per loro buchi di un groviera dove zampettare in su e in giù. E la ghiottoneria dell’astuzia orientale siamo di nuovo noi. I predatori che non hanno capito ancora di esser tornati prede.

08.08.07, h. 14.12 – Mui Ne, impigliato in una rete

Eccolo, il mare! Azzurro occhieggiare di palme impertinenti. Fuga infinita di sabbie bruciate, su cui strisciano e sbuffano invisibili draghi sopiti nel vento. A Mui Né si respira, finalmente. Si segue l’onda. La si cavalca roteando ebbri in ceste di vimini, cappelli capovolti e rapiti chissà dove.

Qui l’argento non è il luccichio delle reti spiegate, ma il sorriso del forestiero al levar della mano. Pare un curioso pesce tropicale, inspiegabilmente finito in secca. Invece è un uomo. Anche lui. Per quanto lungo possa essere. Qualunque sia il colore delle alghe che porta in testa. Meraviglia toccarlo! Spasso per i piccoli e scoglio per i grandi, è irresistibile tabù. E’ qui. E’ là. Risale la fonte delle fate facedosi piccino piccino. Torna sulle proprie orme, eppure ha piedi che esorbitano il ritratto del tempo. L’hanno visto sospirare. Altri dicono boccheggi. Oh mare, mare! Prima la gioia, ora la malinconia. Se solo avesse parlato..e invece nient’altro che un bacio, schiocco di labbra posatesi su un granello in fuga. Addio. Arrivederci. Si spalancano le bocche, il vecchio risponde da profeta: serrando la sua.

09.08.07, h. 13.59 – ponte del voyeur, Hoi An

Prima la strada. Poi la panchina. Infine il ponte. Per sconfiggere la claustrofobia di Hoi an occorre spingersi sempre più a margine, trovare un angolazione che non si chiuda nella necessità dello scambio, così come nell’appartenenza ad una congregazione, ma riveli piuttosto una via di fuga nel dedalo dei suoi vicoli ammiccanti. Bisogna liberare le orecchie dai continui richiami lanciati dalle botteghe dei sarti o dai risciò a terra, dai mercati brulicanti e dalle famiglie in cerca di nuovi adepti, pronti a ripetere lo stesso invito nell’unica lingua che vieta l’estraneità: “buy something!”.

Vendere e comprare è categorico qui. Avere le mani in pasta significa preservarsi da rivalse tanto distruttive, d’aver ridotto ad un cumulo di torri cadenti l’impero dei Cham, le cui spoglie senza testa e senza arti inquietano le foreste appena alle spalle della città. Perché se i giapponesi hanno il loro ponte di legno a prova di terremoti, i cinesi vantano porte laccate dietro cui inventare il prossimo desiderio che sconfigga la sazietà del bisogno; se i portoghesi possono contare su moschetti d’ineguagliabile precisione, i vietnamiti sorridono perché non c’è altro porto dove il mondo intero riesca a darsi appuntamento. Tutti impegnati a far apparire il proprio superiore all’altrui, indispensabile complemento di una vita cui non è concessa distrazione.

Si lavora meticolosamente per deformare l’immagine della realtà, senza accorgersi che spacciare Hoi An per un intonso borgo del XVI secolo finisce per creare aspettative che nessuno spettacolo in costume può soddisfare. Tanto da evocare il temuto spettro dell’inflazione, che non concede ritagli alle brutture e istantanee alla vita che divora le stoffe. Stare a lato non basta: finisce per attirare sguardi concupiscenti e trasforma nell’ennesima bancarella dalla mercanzia bizzarra. Solo a cavallo di un ponte, dove la vertigine mette in gioco il sé, è davvero possibile riconoscere un mondo che sta al di là dell’intuito di Mandarino Tan.

12.08.07, h. 17.47 – sullo zerbino degli eunuchi, Hué

Espugnare Hué costa sempre lacrime e sudore. Hanno faticato i francesi, nonostante le truppe dell’imperatore si difendessero con fucili più innocui di frecce a salve; hanno sputato sangue gli americani, rossi di vergogna per l’offensiva del Tet. Il problema è che la vecchia capitale vietnamita resta comunque lontana, interdetta a chi non può vantarne i nobili natali. Gli echi del suo Oriente così sfarzoso, delle sue carrozze intarsiate d’oro e dei suoi palazzi incastonati di giada ci giungono alle orecchie come suadenti esotismi, da cui però siamo appena sfiorati. Ancora ancora possiamo immaginare l’alterigia dei colonialisti che pesta i suoi tacchi sui parquet laccati; proviamo quasi solidarietà per i cannoni protesi di un tank arrischiatosi sotto le mura della città proibita, ma davanti alle tombe di certi Nguyen e Mna Mnihn balbettiamo impacciati nomi e riti che non ci appartengono. Siamo impotenti come i mandarini pietrificati in linea agli ingressi dei sepolcri imperiali, in attesa di una parola che ridarà loro il sangue nelle vene. A noi, tutt’al più, è concesso fantasticare d’intrighi cortigiani e peccati consumati all’ombra delle lanterne, popolino che si conforta nella ridondanza dei proverbi e nella rassicurante certezza che tutto il mondo è paese.

Nulla di più errato di fronte ad una corte che continua a cibarsi di flauti incantatori e draghi gravidi, aristocraticamente orgogliosa dei suoi codici criptici. Guardare e non toccare! Ai proletari delle biciclette, che avanzano ingabbiati dal monotono passo del pedale, la corte risponde con gli eccitanti barcollii delle portantine solcate dai parasole. Ma nascondersi alla luce non li aiuterà a spingersi oltre il vuoto titolo di cui si fregiano.

13.08.07, h. 14.56 – parco per esercitazioni di Tai Chi, Hanoi

Inossidabili Vietcong! Come potevano pretendere di piegare la loro resistenza, quando persino un ottantenne si asserpenta come un drago all’alba, mentre fende l’aria umida dei reumatismi? Con che smisurata tracotanza si è combattutto il loro comunismo, se le fila al mausoleo di Ho Chi Mihn sono più ordinate di un reggimento di formiche all’assalto? Non si fermano mai. Abbassano le serrande la notte, ma fanno la guardia alla porta. Dedicano musei alle proprie etnie, così come razionano ogni singolo chicco di riso. Dividono i quartieri per generi, anziché per gusto. Ordinano, classificano, appuntano. Non lasciano nulla al caso, eppure confondono sgommando a destra e a manca attorno al lago Hoan Kiem, dove nascondono il loro più temibile segreto. Il caos di Hanoi è solo fumo negli occhi, l’ennesima astuta tattica per spiazzare il forestiero e sorprenderlo sotto abiti civili. Usano elmetti come caschi. Gli ao dai si chiudono severi come divise. Danno spettacolo, ma hanno il manganello dietro le spalle, proprio come le marionette d’acqua, che si azzuffanno col sorriso stampato sulle maschere. C’è una rigidità sottaciuta nel loro porsi, che solo l’orgoglio tradisce: spacciano per un loto di marmo il sacro talamo dello Zio Ho, ma non è niente più che una piramide di cubi. Lustrano di rosso i ponticelli sulle ninfee, ma non si fermano a contemplarli. Onorano l’antica scuola dei mandarini, rintuzzando i tetti di bambù e spolverando le pareti di sandalo, ma non rinunciano ai loro dialetti. L’adagio è sempre lo stesso: ossequia, copia e riadatta.

15.08.07, h. 16.43 – sotto un masso pendente di Tam Coc

Ritirata tattica. Scivolare nelle strette valli di Tam Coc, dove le montagne si arrotondano in una sequenza spudorata di seni rigonfi, ha un po’ il sapore di un diversivo codardo. Fra buoi al pascolo e barche arenate nella melma delle paludi, la terra sembra incapace di ferire. Tutto è smussato. Il colpo d’occhio indugia. Si accarezzano i profili con un lento detour erotico, cercando varchi in cui penetrare e solleticando le memorie di un passato sovrano che se ne sta accoccolato nei giardini di banani, senza dire una parola. Scomoda sentenza che la corte canuta di Hoa Lu era sempre pronta a pronunciare, nel caso gli eredi reali fossero tentati dalla scappatoia del fratricidio. Verrebbe dunque voglia di deporre le armi e abbandonarsi al placido incedere delle canoe, lungo i lubrici percorsi che dischiudono grotte oscure profonde centinaia di metri. Probabilmente è la stessa sensazione che, mille anni or sono, finì per insinuarsi nel cuore marziale delle truppe cinesi, giunte per punire un popolo lontano ed incomprensibile. Invece trovarono l’invitante corpo di una natura in età fertile, pronta stupire nell’esuberanza della sua procacità.

Eccoli ancora ai suoi piedi, lì a guardare vogliosi guglie dorate di pagode simili a capezzoli eccitati; eccoli resistere a fatica ai fremiti pubici delle foreste lussuriose. Se solo prendessero coraggio. Basterebbe appoggiare un dito per far collassare quegli enormi massi in equilibrio precario, che tutti vedono per quello che non sono. Tranne lui: l’imperatore Ly Thai To.

17.08.07, h. 16.35 – dondolo arrugginito sulla valle di Sapa

La lunga marcia è finita. Di fronte all’ostinatezza degli H’mong dalle dita blu e degli Dsao dai copricapo rossi, non rimane che asserragliarsi dietro le pareti lignee dell’hotel Sapa Summit. Occorre sedersi ad un tavolo di discussione e trovare un compromesso, perché più in là della cascata di Tac Bac, o dei villaggi rurali di Cat Cat e Tha Phin, è impossibile spingersi; se non a costo di ritrovarsi sommersi da montagne di borsette multicolori, copricuscini e gioielli d’argento, che si accumulano gli un su gli altri sino a superare i 3.143 metri del sacro Fansipan. Non cedono un centimetro del loro territorio, perché a nord li aspetta solo la furia mercantile dei cinesi, mentre a valle il riso dei vietnamiti. Allora i metodi tradizionali sono sempre i migliori: slash&burn, abbatti e brucia. Ora che gli alberi hanno ceduto il posto alle terrazze, l’ultima risorsa per sopravvivere sono proprio i forestieri delle piane, che vanno ammansiti per gradi, per livelli, proprio con la stessa paziente cocciutaggine con cui si scolpiscono i fianchi delle montagne. Con loro non servono pezzi di carta: non sanno né leggere, né scrivere. Bisogna arzigogolare nel baratto, adattandosi alle improvvise vie di fuga che rivelano i disegni geometrici dei loro ricami. Tassello su tassello, solo così è possibile ricomporre il mosaico delle 54 etnie per le quali non esiste “il” Vietnam, ma una sequenza di recinti che si susseguono dai rilievi del Tonchino agli altopiani dell’Annam, sino alle sette code di drago che spuntano dalla Cocincina.

19.08.07, h. 22.56 – sul pontile di una giunca fantasma (Halong Bay)

Agli addii non ci si rassegna mai. L’immagine di quella simpatica coniglietta australiana che saluta dalla giunca opposta è molto più che una nostalgia per i tramonti di Mui Né. E’ il volto stesso di un viaggio giunto all’ultimo bivio, nel quale i sensi di marcia sono tornati a descrivere la geografia del territorio, anziché quella della fantasia. Se le gole di Halong Bay si chiudono sotto l’incombente minaccia del mitico drago Tarasco, costretto ad aprirsi varchi nel golfo del Tonchino dopo esser stato disturbato dal suo sonno millenario, le grotte della baia digrignano le proprie stalagmiti, memori della lezione di Tran Hung Dao: l’eroico generale che bloccò la calata dei mongoli con la forza dei pali di bambù nascosti a pelo d’acqua. Sopra le placide onde di quest’angolo di paradiso cala dunque la nebbia dell’oblio, il manto umido del tempo che sbiadisce i colori della passione e ovatta le voci delle sirene. Ma non ci lasceremo rapire dalla nostra giunca fantasma: l’ebbrezza del tuffo è troppo invitante per rinunciare all’abbraccio di un desiderio cinto dalla danza luminescente delle lucciole d’acqua. Lasciateci ai nostri fantasmi, prima che faccia luce…

Epilogo: l'Oriente Estremo

22.08.07, h. 17.23 – alle porte di Dachau

..chilometri calpestati con lo sguardo inevitabilmente in là. Giorni spesi come condannati alla forca, assetati di sapere, smaniosi di far nostro, prima che tutto finisca. Abbiamo raggiunto gli estremi d’Asia, abbiamo scrutato impudicamente nel suo cuore oscuro e violato la sua ingenuità. Abbiamo posseduto terre straniere con la forza della nostra moneta, dischiudendo porte serrate dal silenzio dei secoli, razziando memorie che balbettano mezze verità. Ancor prima di essere invitati, noi vogliamo. Vogliamo vedere. Toccare. Assaporare. Vogliamo provare ed esser cio' che per natura non siamo. Ma di tutti i sensi, l’ascolto è quanto più ci difetta. Ci manca la pazienza di sederci in riva al fiume e attendere l’occasione cui saremo chiamati.

Dobbiamo agire, fare, dobbiamo muoverci in su e in giù, per giocare il tempo d’anticipo e battere una strada che sia innanzitutto nostra. La brama del possesso, il privilegio dell’esclusività e l’accecamento della meraviglia a tutti i costi, ci condannano alla dissonanza nel pentagramma dell’essere.

Siamo immancabilmente troppo in alto o troppo in basso. Note nomadi, pronte ad urlare sempre e solo la nostra presenza. Soffriamo di labirintite, ma non ammettiamo alcun difetto. Tutt’al più lo chiamiamo vertigine. Piacere della caduta che crede di sapere dove stia il fondo, eppur ignora il luogo e il momento in cui il passo si è staccato da terra.

Ci crediamo figli del Cielo, perchè il corpo ci pesa, la materia ci impaccia; non tolleriamo ripiegamenti e ci terrorizza la contrazione nelle rughe dell’io che
si fa sè. Abituati a trattenere il fiato, non siamo più capaci di respirare al ritmo delle onde, nè riusciamo a piegarci al vento delle stagioni come umili fili d’erba.

Abbiamo fretta di vedere cosa sta oltre il giorno che muore, perchè siamo anime d’Occidente; non abbiamo tempo per pensare, perchè avvertiamo l’alito della notte alla nostre spalle. Non è chiudendo gli occhi che scamperemo tuttavia ai nostri incubi.

Dobbiamo imparare ad abitare la cecità, per riconoscere il punto in cui la luce sorge. Lo chiameremo Oriente, Utopia o Paradiso, ma qualunque sia il suo nome, ne diveremmo cittadini solo quando sentiremo affiorare lacrime di compassione per la scomparsa di chi mai abbiamo conosciuto. Perchè lo scheletro rivelato dal nuovo giorno non sarà altro che la parte di noi cui non abbiamo saputo prestare orecchio.

Se l’Oriente è davvero estremo, lo è perchè ci parla del limite che non possiamo trascendere: un limite di fronte al quale si traccia la sottile distanza fra il saggio e lo stolto. Fra l’eroe e la vittima. Lo spazio del sì, che si apre infine all’egoismo del no.