"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

venerdì 16 novembre 2012

LE MAPPE DI LOPE'


L’ordine è perentorio. Non una parola e tutti accucciati. All’ombra del Mont Brazza, d’improvviso il Gabon si rivela di una solitudine immensa. Una scabra piana capace di lasciar sgomento persino Pietro Paolo Savorgnan di Brazzà, l’esploratore italiano che nel 1875 regalò un impero alla Francia. Lontani sono i tambureggiamenti e le torce infuocate della Fête des Cultures, quando a metà agosto i Fang, i Bakà, gli Tsogo e le decine di altre etnie che popolano l’Africa equatoriale si riversano ululanti per le vie di Libreville. Inimmaginabili i palazzi avanguardistici della capitale, fatti di vetri scintillanti e torri asserpentate, figli di quel nero petrolio che da oltre cinquant’anni fluisce dritto dritto nelle tasche della famiglia presidenziale. Nessun profumo di croissant freschi, né champagne d’annata per dissetarsi. 

Nel cuore della riserva di Lopé, ritagliata esattamente dove le mappe segnano il centro geografico del Paese, non c’è spazio per capricci postcoloniali. Anzi, gli sparuti cartelloni elettorali di Alì Bongo, succeduto al padre Omar da “soli” cinque anni, sono un comodo bersaglio per le pietre scagliate dalle jeep di passaggio. Ma la fortuna gira anche per i politici corrotti.
Ora siamo io e le due guide della riserva un ben più facile target: spostarsi a piedi da una macchia di mogani all’altra, attraversando in fretta e furia le ampie radure d’erba rinsecchita, è ad alto rischio di carica. 

Gli elefanti potrebbero imbizzarrirsi da un momento all’altro, essendo a passaggio con i loro piccoli, mentre i branchi di sitatunga pare abbiano solo voglia di testare la resistenza delle loro possenti corna contro qualche curioso esemplare d’antilope bipede. «Non abbiamo molto tempo – bisbiglia Edith, l’interprete troppo robusta per l’afosa savana di Lopé - Se il sole si leva, potremmo trovarci faccia a faccia con le colonie di mandrilli o gorilla. A quel punto non saprei proprio se sia meglio rifugiarsi nella radura o sotto le piante».


Problemi di traffico mattutino in Gabon. Con la scusa per cui la riserva è una delle rare a consentire gli spostamenti senz’auto, le poche jeep a disposizione vengono sempre abbandonate nei posti più improbabili. Poco importa se tutt’attorno scorrazzino le più grandi colonie di primati dell’Africa equatoriale, o qualche elefante si faccia prepotentemente spazio per andare a succhiarsi i suoi 25 chili di sale quotidiano in prossimità del fiume Ogooué. Non siamo certo a Loango, l’ultimo parco nazionale creato per il sollazzo degli ippopotami che fanno surf sulla pancia, ma neppure a Mayumba, dove sono invece le balene ad accogliere i passanti con esuberanti tonfi sulle onde. 

No, no. Più ci si allontana dalla costa, più il Gabon perde contatto con la civiltà. Le fitte foreste d’ebano si riappropriano dei pochi spazi loro sottratti dalla mano dell’uomo, le cascate sollevano le loro roboanti risa di scherno, mentre la ferrovia devia intimorita verso sud, in quella Franceville delle meraviglie che, oltre a conservare simulacri del suo figliol prodigo Omar Bongo, si arrocca fra canyon dai colori impossibili. 

Da Lopé in su, all’interno dell’ipotetico triangolo che unisce le cittadine di Oyem e Makokou, c’è spazio solo per le danze delle tribù pigmee e del loro spirito della foresta Ezengi, per gli intagliatori di maschere consacrate al dio Mbudi e Okuni, per i sei metri di spirali con cui il temibile rock python stritola le sue prede e per il morso fatale della velenosissima vipera del Gabon. Là, lungo il fiume Minkébé e i suoi affluenti, l’uomo non mette piede volentieri: tutt’al più si spinge in canoa fino al salto di Kongou, il più imponente effluvio d’acque che il cuore dell’Africa conosca, o accatasta enormi tronchi d’ebano da traghettare sino agli estuari di Lambarènè e Port Gentil; sulla mappa i territori del nord-est restano tuttora un buco nero di cui ben poco si vuol sapere.



L’urlo di un mandrillo spaventato riporta tutti alla cruda realtà. Col suo naso rosso fiammeggiante e i canini in bella vista, non usa mezzi termini per segnalare il suo territorio. Batte il petto e lancia occhiate con aria tracotante. Non si avvicina troppo, ma fa capire pure che non indietreggerà. La riserva di Lopé è il suo regno e noi siamo solo intrusi che tanto somigliano agli scimpanzé sospesi sui rami più alti.
Non resta che ripiegare accortamente sino all’auto abbandonata e filare spediti sino a Elarmekora, a Lindili, o ancora un po’ oltre, verso Kongo Boumba ed Epona. In appena una trentina di chilometri, fra la riserva e la polverosa città dei taglialegna Ndjolé, il Gabon cela il suo tesoro più raro e prezioso: più di 1.200 petroglifi risalenti forse al Neolitico, forse a molti, molti millenni prima. Sono disseminati per le sperdute radure lungo il fiume Ogooué, su massi granitici spesso sepolti sotto le felci, e trovarli da sé è quasi impossibile.

«Stabilire una data certa non è per nulla semplice – osserva Saturnine, raddrizzandosi il berretto di guida ufficiale di Lopé e sputando i semini di un frutto tondo rubato ad un elefante – non tutti i segni sembrano incisi con strumenti di ferro. Alcuni riproducono forme geometriche, altri motivi animali. Si alternano insetti giganti e lucertole contorte, quasi ad evocare le figure totemiche di antichi riti, ma neppure i pigmei sanno più di che si tratta. Pare siano simbologie appartenute a tribù ancora più remote, cacciatori nomadi sulla via che dall’Africa occidentale portava alle vaste savane dei territori australi. Probabilmente mappe magiche per propiziarsi un cammino sicuro». Probabilmente. I pochi studi effettuati dal 1987 ad oggi non hanno offerto spiegazioni convincenti. Qualcosa non torna.


«A loro modo sono molto precise. Segnalano rilievi e avvallamenti riconoscibili ancor’oggi. Ci si potrebbe orientare senza difficoltà. Vedi questi cerchi? Se conti i livelli concentrici puoi ottenere addirittura l’altezza delle vette». Mi guarda perplesso e deglutisce a fatica. La prospettiva aerea non può essere frutto di menti primitive. L’uomo non volava allora. 
Chissà. Forse ha solo smarrito le ali. 





martedì 13 novembre 2012

IL COMPAGNO IVAN CHAI E' TORNATO


Vorkuta, ultima stazione. La voce che annuncia l’arrivo nella remota appendice della Repubblica di Komi, dopo 48 ore di treno da Mosca, mette ancora i brividi. Esilio. Lavoro massacrante. Gelo polare. Un giorno nella vita di Ivan Denisovich. Impossibile trattenere la tempesta di memorie che il solo nome dell’ex capitale dei Gulag riesce a scatenare. Eppure ovunque si aprono innocui sorrisi, quasi la visita in città fosse un’amabile cortesia anziché una picconata al cuore.


La solita Russia sfingica, sentenzierebbe Aleksandr Blok. Invece no. Sebbene i ghiacci imprigionino Vorkuta per quasi otto mesi all’anno, i suoi cittadini si sono davvero liberati degli spettri del passato e vivono ormai una città che vuole decisamente ripulirsi dalla tetra caligine delle sue miniere di carbone. Lo si capisce dall’entusiasmo stesso degli operai sospesi sul timpano del Palazzo della Cultura, in piazza Lenin, dove a colpi di vernice e pennello sta rinascendo l’orgoglio di quello che, un tempo, era il più importante avamposto sovietico della geologia industriale. 


Fra gli anni ’30 e ’50 del secolo scorso Vorkuta nacque e crebbe di pari passo con i prigionieri spediti a lavorare nei suoi enormi giacimenti minerari, ma solo una cinquantina di residenti può dire oggi di aver avuto familiari coinvolti nelle deportazioni di massa. I rari sopravvissuti se ne sono andati tutti, chi in cerca dei parenti agli antipodi della Russia, chi per dimenticare, chi semplicemente per regalarsi un futuro lavorativo diverso. A vegliare sul monumento alle vittime, un masso incompiutamente sbozzato e trafitto da filo spinato arrugginito, sono solo le orbite vuote delle abitazioni di Rudnik. Dal quartiere fantasma di Vorkuta lo si vede stagliarsi in vetta all’argine del fiume Usa, non lontano dallo storico hotel che porta il nome della città. 



E’ qui che ogni 31 ottobre si raccolgono le anime silenti della città. E’ qui che viene mantenuto vivo il ricordo di chi ha visto e ha potuto raccontare, grazie all’impegno del gruppo di volontari guidati dalla famiglia Mamulaishvili. Ed è qui, proprio qui, che Georgi Cherkov piantò nel 1931 la sua tenda da geologo d’avanscoperta, dando di fatto origine al primo nucleo della città. Forse il masso non è altro che un cuore a torace aperto, simbolo di una Vorkuta irrimediabilmente ferita e mutilata, ma capace ancora di palpitare.


“L’arrivo dei gasdotti da nord ha permesso alla città di trasformarsi in una porta d’accesso alle nuove ricchezze della Siberia – riconosce Marat, ingegnere in forza a Gazprom – e da quando ho dovuto stabilirmi qui per lavoro, ossia da quattro anni, la rete locale dei trasporti ha continuato a crescere: nuove strade, più treni, gente da ogni dove che va e viene, ma sceglie anche di restare. In fondo il costo della vita è molto più basso che in altre località della Russia artica, dove talvolta manca quel forte senso d’identità che si respira invece in ogni angolo di Vorkuta”. Parte del merito va senza dubbio riconosciuto al festival del folklore di Komi, che ogni anno, dal 1° a 7 novembre, richiama in città le numerose minoranze etniche sparpagliate sul territorio della Repubblica. Gare di slitta. Danze popolari. Mercatini artigianali. Un fitto programma di eventi al quale l’amministrazione locale ha scelto di dare un respiro sempre più ampio, a tal punto che nelle ultime edizioni non sono mancati contributi dalla Norvegia, dalla Svizzera o dalla Germania.


“Purtroppo siamo ancora in pochi a parlare inglese e gli investimenti promozionali non sono il punto forte dell’economia – confessa Ekaterina, impiegata presso l’agenzia turistica Vorkuta Tur – ma sarà necessario rimettersi almeno sui libri, dal momento che i turisti stranieri tendono quasi sempre a tornare in estate, desiderosi di approfondire la storia della città, di dedicarsi alla scoperta naturalistica dei vicini Urali o ancor più degli impressionanti idoli di pietra a Manpupuner. Trecento arrivi all’anno non sono ancora molti, ma sicuramente un primo importante passo per avviare nuove opportunità professionali, visto che di stagione in stagione i numeri continuano a crescere”.


Anche l’Italia è pronta a giocare la sua parte. Per la terza volta in pochi mesi, il direttore del museo etnografico di Torino è infatti tornato a Vorkuta, nel tentativo di completare la stesura di un libro sulla vita delle vittime dei gulag. Dopo tanta sofferenza, la storia è ora pronta a ridare quanto un tempo ha ferocemente strappato.


Attorno ai luoghi della memoria sta prendendo forma un toccante circuito di visita che qualunque scolaro di Vorkuta potrebbe già presentare: ogni anno l’amministrazione invita gli alunni a ripercorrere le vie della città, affinché il ricordo del passato si arricchisca di generazione in generazione. E così, quel che a prima vista appare oggi un fatiscente edificio classicista, si scopre essere il primo locale con docce pubbliche installato in tutta la Repubblica di Komi. Un fronzuto sentiero lastricato a margini del centro, i resti dell’asse portante di Vorkuta negli anni ‘40, l’orgoglioso Viale della Vittoria. L’architetto-prigioniero Ljuniov attende invece che le impalcature dei restauri si trasferiscano verso piazza Kirova, dove i suoi eleganti palazzi staliniani svettano a pochi passi dal primo grand hotel della regione.


Passo dopo passo Vorkuta si allunga, si allarga, si disperde verso i terreni incolti ai margini dell’abitato e si ritrova fra le rovine della cittadella di Jurshov, o sotto le ciminiere in mattone cotto di Severni Paselok: segue quei tortuosi itinerari che fiaccavano i corpi nella fatica e li logoravano negli scavi, sotto cumuli di carbone o in mezzo a fumi di scarico. Avanti e indietro. Avanti e indietro. Senza pausa. Senza speranza. Proprio come quei camion blu che oggi si rincorrono fra campi di lavoro ancora attivi e strade destinate a perdersi all’orizzonte. 







Fanno tremare il terreno ai margini della carreggiata con la stessa violenza con cui le urla degli aguzzini piegavano un tempo la volontà dei prigionieri. Incrinano le decine di croci che, all’altezza del cimitero dei tedeschi, cercano disperatamente di reclamare un nome trovato a fatica. Avvolgono nello smog assi senza più braccia per l’ortodossia.
Non importa. Il legno è fatto per marcire. Le statue votive non avranno mai il dono della parola. A tutti i caduti di Vorkuta, alle migliaia di vittime della follia dell’uomo, così come ai 53 minatori inghiottiti da una natura troppe volte violentata, non servono nuovi memoriali in campi di periferia: il compagno Ivan Chai avrà un pensiero per tutti loro. 



Ogni primavera torna a far visita alle anime senza tomba e a ciascuna, immancabilmente, dispensa il più dolce dei pensieri: il viola scarlatto dei suoi petali, nella terra dove tutto s’è fatto nero.

Persino la neve.