"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

sabato 31 gennaio 2009

IL DESERTO DELL'ANIMA




Se ne vanno fra risa e schiamazzi. Così, come se si stessero incamminando per una passeggiata in compagnia. Eppure all’orizzonte non s’intravedono che dune rocciose, costellate di arbusti rinsecchiti e, talvolta, di traballanti rifugi in lamiera. Ultime, sporadiche vestigia dei beduini che qui un tempo pascolavano le loro scarne capre e si meravigliavano di fronte ai presagi del cielo, mentre oggi li osservano con placida rassegnazione. Un giorno è un F16, che taglia l’aria come un pugnale affilatissimo, pronto a far fiottare l’azzurro dai nembi lividi. Un giorno è un missile Kassam, seme di un odio cieco, capace di sollevare solo interrogativi di fumo. Infine fanno irruzione pure loro, le allegre matricole, le belle soldatesse dalle chiome nere e fluenti e i rubacuori in divisa, con la kippah sul capo orgoglioso. Un po’ dandy. Un po’ ortodossi. Come ben s’addice a chi porta una papalina ricamata all’uncinetto, ribadendo a tutti che queste terre non sono più un rifugio per nomadi al di sopra della legge e della storia, ma dal 1948 – anno di fondazione d’Israele - la promessa di un Stato tuttora impegnato a tracciare i propri confini.
Riconoscerli in un ondivago susseguirsi d’avvallamenti assetati è però compito arduo, visto che un paesaggio simile si estende quasi ininterrottamente per più di 13mila chilometri quadrati, dalle porte del Sinai alle sponde del Mar Morto. Sulle carte geografiche assume le sembianze di un enorme triangolo, colmo di sabbie roventi, ciottoli acuminati ed illusori wadi, i letti dei fiumi che durano il tempo di uno sbadiglio e, qualora Provvidenza voglia, concendono scampo al passo degli smarriti. Perché il Negev non dà mai l’impressione d’essere un deserto senza speranza, quanto piuttosto un luogo di passaggio ove scontare i propri peccati e ritrovare un sé diverso da quello che qui inevitabilmente conduce. Coprendo quasi il 55% della superficie d’Israele, non può infatti permettersi il lusso di chiudersi in uno sdegnoso silenzio, facendo finta di non sapere cosa accada ai suoi margini tormentati.
Gaza è solo a pochi chilometri dalle propaggini sud-occidentali, mentre a Beersheba, la capitale della regione, affluiscono di continuo fondi governativi e forza lavoro per ridare giovinezza alle sue rughe millenarie. In ebraico la parola “Negev” significa appunto “secco”, “disidratato”, designando un’entità nella quale si conserva e può svilupparsi un principio di vita, purché questo venga alimentato con fede paziente e perseverante, una fede incapace di piegarsi all’impossibile. Esattamente la stessa che animò il primo ministro e fondatore dello Stato David Ben Gurion, di cui oggi il deserto accoglie le spoglie nei pressi del Wadi Zir, insieme a quelle dell’inseparabile moglie Paula: insieme lasciarono il governo nel 1954 e, sempre insieme, scelsero di vivere per due anni in una semplice capanna all’interno del kibbutz Sde Boker, animati dal sogno di vincere anche la resistenza del deserto, dopo quella degli inglesi e degli arabi. E’ proprio al suo memoriale che le allegre matricole sono dirette, in cerca della parola solenne che darà loro la forza per premere il grilletto ad appena 18 anni, o di lanciarsi oltre le nuvole di terra da cui il ritorno non è mai certo. Col sorriso sulle labbra, forse, ma l’inferno nel cuore.
Il Negev è la loro ultima tappa, lo specchio in cui osservare la propria storia che si fa luce ed ombra, entro il quale cercare le ragioni di un senso che può riaffiorare da secolari reperti di grotte sperdute, così come dall’aratro delle colonie agricole. “E’ chiaro che i fondatori e i costruttori dello Stato d’Israele non sono stati gli uomini politici, ma gli immigrati che hanno ricostruito il Paese con il sudore della fronte”. Nelle orecchie, ancora, le parole del grande Primo Ministro. Nelle mani, il peso della coscienza, nelle sembianze di un kalashnikov con la sicura innescata. Davanti a sé, solo un aut-aut: difendere la pace, o costruirla. C’è chi sceglie la via dell’esercito e chi quella dei kibbutz, che dopo gli anni di appannaggio seguiti al crollo delle utopie socialiste, tornano ad offrire risposte forse non così scontate come la retorica ha pedantemente ripetuto.
Ma hanno bisogno di solitudine. D’isolamento. Chilometro dopo chilometro, il mondo circostante comincia a trasfigurare. Le strade polverose si smarriscono lontane. I cavi dell’elettricità vengono inghiottiti dal vuoto. I benzinai dalle vetrine ricolme di bibite colorate cedono gradualmente il passo ai resti dei caravanserragli nabatei, pietrificati su colline di un ocra ostinato. Parole incerte e ferrei ordini si amalgano piano piano, sfumano nei versi di preghiere vetuste, si stringono attorno alle lunghe vesti nere di ragazze piegate sul dolore di una roccia, lo sguardo perso nell’infinito e i ricordi fermi alla sete del deserto, al clangore delle spade nemiche. A quei giorni del destino in cui Roma piegò l’orgoglio dei figli di Davide, e a quelli in cui la rinascita del proprio popolo scatenò la furia dei vicini. Quindi lo sbuffo di un vento esanime e la magia di un mondo che d’improvviso smette di girare su se stesso.
Silenzio. Luce. Cieli cobalto. E l’odore dolciastro della Terebinth che inonda le narici, il calore del sole che accarezza la pelle, come la mano pietosa di un padre che sa perdonare. Sempre.
Nella gola di En Avedad qualcuno trova il paradiso, benché nulla abbia in comune con l’Eden biblico. Attorno si levano montagne non più alte di 600 metri, la cui roccia biancheggia del tipico nitore che appartiene all’Eocene, attraversata però da neri strati di ere geologiche ancor più vetuste. Prima che la valle di Arava collassasse nel Grande Rift, qui scorrevano infatti acque che avevano il sapore salmastro del Mediterraneo. Oggi le piogge stagionali ne richiamano vagamente la memoria, eppure - anno dopo anno - continuano a scavare friabili canyon che possono dispiegarsi sino a 20 chilometri di lunghezza, intervallando idilliche cascate, canneti dai misteriosi fruscii e dalle scure paludi, grotte con incisioni rupestri risalenti ad oltre 45mila anni fa. Vere e proprie oasi di vita, tutelate dal parco nazionale che porta il nome stesso della gola più importante, ma rispetto a cui le uniche insidie giungono solo dai ghiri del deserto, dagli stambecchi nubiani o dalle acrobatiche picchiate degli storni di Tristram. Chi conosce a memoria i versi della Bibbia, qui ritrova esattamente gli animali e le piante di 5mila anni fa, proprio come se il tempo si fosse fermato e nelle sinuose venature delle pareti rocciose fosse stata scritta una storia destinata a ripiegare in sé, a chiudersi nel circolo delle domande eterne che attanagliano ugualmente l’uomo disorientato d’oggi, al pari del timoroso antenato di ieri. Quando i nomadi del deserto s’imbatterono per la prima volta nei tre grandi crateri che costellano la superficie del Negev, non trovarono infatti altra spiegazione, se non quella di associarli alla manifestazione in terra di un “dio del fuoco”: luce misteriosa che, di tanto in tanto, attraversava sotto forma di cometa luminosa i cieli da loro usati come mappe stellari.
Negli ovali scolpiti nel terreno, il più grande dei quali – il Makhtesh Ramon - raggiunge i 40 chilometri di lunghezza e i 9 di larghezza, venature di un nero ardente si commistiano all’arido marrone del suolo: tinte ulteriormente saturate dalle immense ombre che pareti rocciose, alte sino a 1.037 metri, proiettano ai loro piedi. Per secoli i ritrovamenti di materiale vulcanico e magmatico, di fossili e complesse stratificazioni basaltiche, hanno indotto a pensare che i crateri fossero stati generati dalla caduta di meteoriti, verificatasi presumibilmente oltre 220 milioni di anni fa. Grazie al Centro Studi della Riserva Naturale Makhtesh Ramon, è stato invece appurato che queste impressionanti voragini della Terra sono in realtà frutto di un’attività carsica iniziata assai più tardi, attorno ai 110 milioni d’anni fa, intervallando all’invasione delle acque nel Basso Cretaceo fasi di spinta verso l’alto del sostrato terrestre, in modo da creare scompensi geologici a causa dei quali, infine, si è verificato un collasso asimmetrico delle superfici più esposte.
Oggi i crateri rappresentano un habitat protetto per le più svariate specie animali e floreali, grazie anche all’altezza delle pareti rocciose che favoriscono un clima continentale in una regione prettamente desertica. Molto diffusi, ad esempio, sono il Gymnocarpus o l’Anabasis, piante capaci di trattenere l’acqua e indispensabili ai beduini per sopravvivere nei lunghi viaggi attraverso il deserto. Né va sottovalutato il contributo delle proprietà medicamentose del bush locale, formato per lo più da contorti cespugli di Ochradenus e Moricandia. Questi tesori botanici hanno fatto sì che il Negev, nonostante le sue ardue condizioni di vita, continui ad essere attraversato da intrepidi amanti del trekking sulle orme delle antiche popolazioni carovaniere, la più illustre delle quali risulta ancor oggi quella dei Nabatei: i creatori di Petra, oltre che i padroni delle spezie per tutto il periodo dell’antichità classica. Dei loro avamposti sopravvivono solo desolate spoglie, città fantasma coperte di sabbia quali Avdat, steli miliari enigmaticamente infisse nel terreno e facilmente confuse con le masseboth, pietre sagomate senza volto che – a loro volta - ricordano l’apparizione di quel “dio del fuoco”, preannunciante forse la fine dell’età del Bronzo.
Nelle ferite del deserto, d’altra parte, l’uomo ha sempre letto i segni di un’imminente Apocalisse. Ancor oggi li scorge nelle smorfie disperate dei profughi, in fuga da terre o accampamenti che la geografia dei confini cancella senza appello. Li coglie nel volo ossessivo delle mosche attorno alle costole di uno stambecco, ferito a morte dopo un combattimento per una pozza d’acqua. Un tempo li riconosceva invece nelle preghiere degli Esseni, quei Figli della Luce le cui frange estreme, sconfitte dalla storia, qui mortificavano il proprio corpo cercando giustizia eterna nell’anacoresi. Folle cecità di chi scambia il silenzio degli spazi per l’azzittimento del desiderio, dimenticando che uomo e Dio sono pur sempre fatti della stessa sostanza, e che la banalità del Male, assai più facilmente di quanto si creda, abita sempre il rovescio della straordinarietà del Bene.
Manicheismi del deserto. Verità mutevoli quanto il Verbo della genesi, che fra rocce millenarie, sorgenti nascoste e fenditure vertiginose, crea e distrugge alla ricerca di un mondo a venire.



TESORI OCCULTI
C’è chi è pronto a scommettere che il ricchissimo tesoro del Tempio di Gerusalemme, portato in salvo prima della distruzione romana, sia nascosto nel deserto della Giudea. Chi, invece, sostiene sia stato occultato nelle grotte del Negev. Stando infatti al cosiddetto “rotolo di rame” ritrovato a Qumran, il sito che nel 1947 rivelò al mondo i misteri della comunità degli Esseni, è nei luoghi da loro un tempo abitati che sarebbero state messe in salvo le preziose spoglie. Gli Esseni, o Figli della Luce, furono probabilmente una delle quattro sette che si distaccò dal movimento degli Asidei (“i pii”), nato attorno al II secolo a.C. per contrastare l’ellenizzazione degli ebrei e confidente nell’arrivo di un Messia capace di riscattare il proprio popolo. Alcuni li considerano piuttosto Zeloti disillusi, ovvero ex membri del movimento armato che cercò di contrastare Roma, sino alla definitiva e tragica sconfitta di Masada (il forte di Erode dove si suicidarono in massa, dopo anni d’assedio). Tutti riconoscono però loro enormi poteri taumatugici (la parola “esseno” deriverebbe da asya, medico in aramaico), derivanti dall’impiego di erbe miracolose di cui proprio il Negev, più che il deserto di Giudea ove Qumran si trova, sarebbe custode. Grazie a queste – stando alla missiva di un esseno di Palestina e ai vangeli “apocrifi”, fra cui “Il Vangelo degli Ebrei” – Gesù venne curato all’interno del sepolcro, non essendo ancora morto dopo la deposizione dalla Croce. Ripresosi, tornò a viaggiare in Oriente (dov’era stato in gioventù prima d’iniziare a predicare in Palestina), assumendo l’identità di Yuzu Asaph per non farsi riconoscere dai Romani. Qui avrebbe continuato a diffondere la sua parola, instillando i semi del buddismo, prima di morire ed essere sepolto in Kashmir. Il “Gesù esseno” è protagonista di diversi studi, da quelli del viaggiatore russo Nicolas Notovich (autore de “The Unknow life of Christ”, 1895), alle ricerche del sufi Fida Hassnain (“Sulle tracce di Gesù l’Esseno”, 1997), ma sono testi ferocemente osteggiati dalla Chiesa, tanto d’aver portato al suo diretto coinvolgimento nell’occultazione di testimonianze giudicate “sovversive” rispetto ai Quattro Vangeli.



MUSICA D’ALTRI TEMPI

Se la musica e i ritmi dei beduini del Negev sono oggi patrimonio comune, grande merito va soprattutto al produttore israeliano Idan Raichel. Appassionato di culture esotiche, è riuscito a far convergere le influenze etniche più disparate in un’affascinante amalgama di suoni, usando principalmente la lingua aramaica per i testi e le strumentazioni etiopi come base di composizione. Questa formula si è rivelata esplosiva per il mercato israeliano, proiettando in breve tempo l’artista ai vertici delle classifiche nazionali, sino alla definitiva consacrazione sui palchi di Londra e New York. Se il primo album del 2002 ha entusiasmato proprio per la freschezza dell’approccio (“The Idan Raichel Project”), le opere successive hanno accentuato ulteriormente l’originalità delle sperimentazioni musicali, andando ad attingere proprio alle radici nomadi della tradizione ebreo-palestinese. Sia “From Depths” del 2005, che il recente “Within my walls” del 2008, sono deliziosi esempi di world music dalle forti suggestioni, dal momento che aiutano a riassaporare l’atmosfera degli spazi vergini e l’intimità delle voci nel vuoto. Piano piano accanto agli interpreti israeliani si stanno poi affiancando nelle canzoni giovani talenti di tutto il mondo, come la colombiana Marta Gomez, Sumi dal Randa o Mayra Andrada da Capo Verde. E chissà che il prossimo passo non veda proprio la promozione dei beduini del Negev a cantanti di prima linea, dopo aver fornito le basi ritmiche più coinvolgenti delle opere prodotte.



L'UOMO CHE SFIDO' IL DESERTO

“Il deserto ci fornice l’opportunità di un nuovo inizio. E’ un elemento vitale del Rinascimento d’Israele, perché padroneggiando la natura s’impara a controllare anche se stessi. In questo senso, più pratico che mistico, riconosco la nostra Redenzione su questa terra. Israele deve continuare a coltivare la sua nazionalità e a rappresentare gli Ebrei, senza rinunciare al suo glorioso passato. Non è un compito facile, ma può essere adempiuto proprio attraverso il deserto…Gli alberi di Sde Boker mi parlano differentemente da qualsiasi altro piantato chissà dove. Non semplicemente perché io stesso ho partecipato alla loro piantumazione e al loro mantenimento, ma perché rappresentano anche un dono dell’uomo alla natura ed un dono degli Ebrei alla ricomposizione della propria cultura”.
E’ con queste parole che il fondatore dello Stato David Ben Gurion giustificò la sua uscita di scena dalla politica nazionale, dopo essersi ritirato nel kibbutz di Sde Boker – nel cuore del Negev - agli inizi del 1953. Fu un gesto di grandissimo impatto sul suo popolo, perché dimostrò con fermezza la volontà di trasformare ogni centimetro di terra conquistato nella casa di ciascun ebreo. Sia che fosse già rientrato nei confini patrii, dopo la diaspora seguita alla distruzione romana del tempio di Gerusalemme (70 d.C.), sia che dovesse ancora adempiere alla aliyah, l’immigrazione verso il nuovo stato israeliano riconosciuto nel 1948. Oggi la capanna in cui visse a fasi alterne sino al 1973, anno della sua morte, accoglie un’esposizione sulle famose dichiarazioni dello statista e sulle foto documentanti le imprese agricole dei primi anni, oltre ad una biblioteca privata con più di 5mila testi, mentre poco più a sud si trovano l’Istituto di ricerche del Deserto ed il memoriale Ben Gurion. Si affacciano sullo scenografico crepaccio di Nakhal Tsin, al di là quel quale sono fioriti negli anni numerosissimi kibbutz – le colonie agricole basate sul principio della condivisione socialista - che proprio oggi stanno rivivendo una nuova epoca d’oro, essendo riusciti a convertire o integrare i propri spazi con originali strutture d’accoglienza per il turismo (www.kibbutz.co.il).

venerdì 2 gennaio 2009

ALLA CONQUISTA DEL CIELO




Mai boutade pare sia stata tanto profetica. Persa la guerra contro la Prussia nel 1871, un soldato parigino vide arrivare a cavallo Ferdinand von Zeppelin e sibilò ai suoi: “ecco, quello è veramente un pallone gonfiato!”. Dipese forse dal tronfio incedere ereditato dai conti del Wuerttenmberg, o piuttosto dalla reputazione fattasi come osservatore delle “armi volanti” d’Oltralpe, fatto sta che il genio militare del Kaiser finì per prendere talmente alla lettera quelle parole, da trasformare il proprio nome nel sinonimo stesso di dirigibile.
A cent’anni di distanza dal primo volo civile in “aeronave”, il mito degli Zeppelin è più vivo che mai. Sulle rive del lago di Costanza, nella Friedrichshafen dei primi esperimenti, il museo intitolato al Conte che amava le nuvole ripercorre la più importante storia della navigazione aerea del mondo, sfruttando i 4mila metri quadrati del bellissimo edificio Bauhaus in cui è ospitato: qui il pubblico ha persino modo d’immergersi nella ricostruzione in dimensioni reali del famoso “Hindenburg”, il dirigibile che segnò al tempo stesso l’apogeo ed il declino della prima conquista dei cieli, prendendo fuoco a New York nel 1936 (la drammatica immagine dell’incidente appare fra l’altro sulla copertina del primo album della rockband Led Zeppelin).
Oltre alle sale in cui vengono presentati gli altri rami d’industria scaturiti dai progetti Zeppelin, quali gli aerei Dornier, i motori Maybach o le trasmissioni della ZF, dal prossimo 19 giugno uno speciale gemellaggio unirà Germania e Italia: nella sezione delle mostre temporanee, sino al 20 settembre verrà approfondita l’epopea delle esplorazioni artiche in dirigibile, esponendo anche cimeli appartenuti alla missione di Umberto Nobile e Roald Amundsen nel 1926.
Eroi, tragedie e grandi imprese costellano infatti la storia delle “aeronavi”, di cui gli Zeppelin divennero presto il modello di riferimento, dopo che nel 1900 il Conte fece decollare un prototipo riadattato sul brevetto di David Schwarz, pioniere dell’aviazione ungherese. Il volo sul natio lago di Costanza durò appena 18 minuti, a causa della rottura del meccanismo che avvolgeva il peso di bilanciamento, ma si era già ad un passo dalla storia: il record di velocità sui modelli francesi era stato praticamente doppiato, avendo raggiunto i 6 metri al secondo contro i 3 allora fissati. Peccato che le casse della compagnia di promozione fondata da Ferdinand von Zeppelin fossero a secco, nonostante avesse personalmente versato la metà degli 800mila marchi di capitale sociale.
Tutto inutile. L’aeronave fu smontata e si dovettero attendere altri sei anni per osservare un nuovo dirigibile in volo, grazie soprattutto alle donazioni di una speciale lotteria indetta dai cultori dell’aria. Se il modello LZ2 pregiudicò l’avvio della costruzione industriale a causa di un atterraggio d’emergenza sulle Alpi d’Algovia, il suo immediato successore riuscì a coprire ben 4.298 chilometri in aria per 45 voli, proiettando la Germania ai vertici mondiali delle nuove tecnologie d’aviazione.
Contro l’accanimento della malasorte, che ridusse in cenere un prototipo finalmente destinato all’esercito, i tedeschi si strinsero attorno all’intrepido Conte e donarono nuovamente gli introiti di una lotteria salita addirittura 6 milioni 100mila marchi. Nel 1908 poté così nascere la Fondazione Zeppelin, l’anno successivo decollò il primo volo civile in dirigibile e l’uomo cominciò la sua ascesa alle stelle.

INDIRIZZO

Zeppelin Museum
Seestrasse, 22 – D-88045 Friedrichshafen
Tel. +49 (0)7541 3801-0, Fax +49 (0)7541 3801-81
zeppelin@zeppelin-museum.de
www.zeppelin-museum.de
Apertura: dal martedì alla domenica, dalle 10 alle 17 (periodo Novembre-Aprile)
dal martedì alla domenica, dalle 9 alle 17 (periodo Maggio-Ottobre)
In luglio, agosto e settembre, il museo apre in via straordinaria anche il lunedì, mentre è chiuso al pubblico il 24, il 25 ed il 31 dicembre
Biglietto d’ingresso: euro 7.50 (prezzo intero)

PIU' IN ALTO DELLE NUVOLE

Silenziosi. Eleganti. Affidabili. Gli Zeppelin NT sono i dirigibili d’ultima generazione e, grazie alla straordinaria tecnologia sviluppata rispetto ai loro antesignani, offrono oggi l’opportunità di volare a soli 300 metri d’altezza godendo di paesaggi mozzafiato. In prossimità dell’aeroporto di Friedrichshafen sono tuttora attive le piattaforme Zeppelin da cui, a partire da marzo a ottobre, prendono il via tour panoramici verso le principali destinazioni sul lago di Costanza (Lindau, Bregenz, Meersburg…), salendo fino a Stein am Rhein o al pittoresco castello di Salem, via via verso le regioni del Vorarlberg austriaco o dell’Allgau bavarese. Nei viaggi individuali, così come in quelli di gruppo (sino a 20 persone), riemerge la tipica atmosfera lussuosa delle “crociere in aria”, che tanto fecero sognare il pubblico degli anni ’30 e di cui il padiglione lounge a terra restituisce pure memorie gastronomiche. I voli possono durare dai 30 minuti (200 euro) a oltre due ore (730 euro), consentendo di esplorare le località della zona da una prospettiva ravvicinata unica, ormai fatta propria dalle maggiori case di produzione di documentari naturalistici. Maggiori informazioni su rotte e voli sono reperibili sul sito www.zeppelinflug.com, oppure presentandosi direttamente alle piattaforme della ZTL Zeppelin Luftschifftechnik GmbH & Co., in Allmannsweilerstrasse 132 a Friedrichshafen (tel. +49 (0)7541 5900-0, fax +49 (0)7541 5900-561).

GERMANIA/2

ALL'OMBRA DI WEWELSBURG



L’anello. Sì, proprio l’anello. Quell’anello tondo ed ostinatamente chiuso su se stesso, già evocatore di arcane maledizioni e cavalleresche sventure, fascinoso e perverso, gli apparve d’improvviso l’inizio di tutto: del viaggio in Westfalia, delle rivelazioni proibite, degli incontri allucinati e delle promesse disattese. Se non lo avesse indossato a Berchtesgaden, forse non sarebbe mai giunto davanti alle mura del castello.
Magari il gestore del negozietto bavarese avrebbe finito per etichettarlo come il solito turista che nicchia sulle cartoline, ma non sgancia un centesimo, avrebbe sbuffato indispettito e lui se ne sarebbe andato goffamente. Invece no: qualcosa, durante la breve sosta nel suo piccolo regno di anticaglie, doveva averlo convinto del fatto che Al non fosse uno dei tanti, ma qualcuno di speciale, forse addirittura la guida a lungo invocata, eppur tragicamente inconsapevole del proprio destino. Non pochi, negli anni, erano state le vittime delle bizzarre suggestioni evocate dal suo aspetto insolito, ma mai e poi mai gli era capitato d’imbattersi in una persona dalla fede tanto esuberante: aveva imparato a sorridere di chi lo beffeggiava col nomignolo di Messia; si era divertito ad impersonare ruoli e figure d’altri tempi cui somigliava; aveva solennemente giurato di non tagliare per alcun motivo i lunghi e biondi capelli, al pari della barba dorata, pur sapendo che in tal modo sarebbe stato privato per sempre della grigia quiete conformista. “Avvicinati un po’, giovanotto. Avvicinati…”.
La voce del commerciante aveva tagliato il silenzio con l’inquietante garbatezza di un sibilo peccatore. Da dietro il bancone lo stava osservando affascinato, con gli occhi liquidi e le mani nervose, tormentandosi le labbra senza alcuna ragione. Al lo aveva sbirciato perplesso, poiché temeva che l’uomo volesse rifilargli qualche patacca bellica dal prezzo esorbitante. Solo ora, ripensandoci a mente lucida, si era accorto che – per l’imbarazzo – aveva continuato a girare l’anello attorno all’anulare.



Difficile credere che gli occhi aguzzi dell’antiquario non avessero colto quell’ambiguo vizio, indice del disagio d’essersi fregiato di un cimelio su cui incombeva una fama sinistra. Non a caso lo teneva sempre nascosto, indossandolo esclusivamente quando i lunghi viaggi lo conducevano in luoghi insidiosi, ove non sarebbe stato sciocco porsi sotto l’influsso di qualche nume tutelare. Sempre che questi esistesse davvero. “Vieni pure qui dietro – continuò ad invitarlo amorevolmente - voglio mostrarti qualcosa di davvero speciale”. Si schiuse una porta defilata che dava all’interno di una buia stanza. Il vecchio fece strada, accendendo una lampada a petrolio mezzo arrugginita. Piano piano la corona di luce iniziò a fendere l’oscurità, finché sul fondo della cantina apparve un’uniforme nera adattata ad un manichino senza testa. Pareva nuova di zecca, coi suoi lucenti stivali e i lustrini a rune apposti sugli orli. A causa degli spifferi che lambiccavano la fiammella della lampada, l’immagine sullo sfondo tendeva a deformarsi, dando talvolta l’impressione di muoversi su di un corpo vuoto.



“E allora…dimmi. Che te ne pare? Non è meravigliosa?”. Di nuovo nei suoi occhi scintillava quella luce malata che Al aveva colto al proprio ingresso nel negozio. Se non fosse stato per le rughe marcate, la sua espressione sarebbe apparsa identica a quella di un bambino ad un passo dal realizzare il proprio sogno. Non ebbe il coraggio di replicare alcunché, ma assentì solo col capo, senza staccare gli occhi dall’uniforme. Il vecchio ridacchiò compiaciuto, sfregandosi le mani. “Lo so cosa vuoi…ho capito tutto, io. Quando s’ingrigiscono i capelli, l’intuito si colora. Avanti, che aspetti? Non vedi che è proprio della tua taglia?”. A quel punto sarebbe stato sciocco tirarsi indietro. Varcando la soglia di quella stanza interdetta, in qualche modo aveva accettato di sottostare alle aspettative del vecchio. Si svestì meccanicamente, avvertendo forti brividi risalirgli dalla punta dei piedi. La stanza era umida, ma non odorava di muffa come ci si sarebbe aspettati. Piuttosto di zolfo. Sentì i pantaloni prendere forma sulle gambe slanciate, mentre la giacca calzava a meraviglia, quasi fosse stata cucita appositamente per lui da un sarto. Il contatto nudo con la stoffa accrebbe il suo senso di disagio, già risvegliato dal gelido sguardo esaminatore che il vecchio faceva scorrere sul suo corpo, ma gradualmente avvertì anche affiorare dal profondo una forza arcana. Onda calda che tramutò presto in una vera e propria sensazione di benessere, così inutilmente agognata vagando senza meta per campagne disabitate. “Per gli dei del Walhalla! – esclamò il vecchio esterrefatto – questo sì che è uno spettacolo! Non c’è dubbio: è tua…è semplicemente tua…”. Il cuore balzò in gola al ragazzo. Doveva aspettarselo. Dietro ogni lusinga, si celava sempre un’insidia. “Ha ragione. E’ bellissima. Ma non credo di potermela permettere…”. Permettere? Al si stupì di aver affermato qualcosa di simile, visto che non aveva alcun interesse a comprare un’uniforme anonima. Eppure, inconsciamente, quel pensiero lo affascinava. Per un attimo si era scorto nell’ovale dello specchio appeso in cantina e l’immagine riflessa lo aveva favorevolmente sorpreso: quale fierezza donava al suo portamento! Quale nobile autorità emanava dalle sue pieghe, entro le quali si stagliava come un antico cavaliere votato al più alto dei sacrifici. Era vero. Quell’uniforme gli calzava a pennello e cercava un nome da lungo, forse troppo tempo. Il commerciante scosse la testa bonariamente. “Non devi pagare. Ti spetta di diritto…ma dimmi, giovane: da dove vieni?” “Sono senza dove. Un menestrello potrebbe dire che vengo dai prati ove lacrima la rugiada e dai boschi dove respira la nebbia…” Per la terza volta nello sguardo dell’uomo si accese una fiamma ardente. Si guardò intorno sorpreso, quasi non credesse a quanto era solito avere sotto gli occhi, finché sospirò con vetusta consapevolezza. “Sei un wandervogel, non è così? Tu forse non puoi saperlo, ma da sessant’anni quell’uniforme chiedeva di te solo, di un uomo di luce…”. Senza perdere altro tempo, si mise ad imballare i capi di cui Al aveva voluto presto sbarazzarsi e dai quali traspirava un’aura insana. “Ed ora, solo una parola: Wewelsburg! Sì, Wewelsburg! Wewelsburg! Siamo di nuovo in marcia…”. Rapito da un’improvvisa euforia, il vecchio si trascinò grottescamente verso il fonografo che teneva accanto alla cassa. Vi posizionò sopra un vinile graffiato e diede qualche giro di manovella. In breve il negoziò si riempì di cupi suoni marziali, lasciando che i versi tossicchiati dal corno si confondessero con la voce aspra dell’uomo. C’era qualcosa d’inquietante nel manifesto contrasto fra il suo volto entusiasta e il funereo incedere della marcia in sottofondo. Cantava a squarciagola tenendosi dritto sulla schiena, nonostante dovesse aver passato gli ottanta da un pezzo. Coi capelli radi ed arruffati, le orbite al cielo ed un ghigno mefistofelico stampato sulle labbra, pareva ormai un’altra persona. Impressionato dallo squallido spettacolo, Al si precipitò per strada avendo ancora nelle orecchie i versi del vecchio: “Vittoria nella sventura, mostrate il vostro coraggio! Chi esita è già perduto! Dio è la lotta e la lotta il nostro sangue, per questo siamo nati. Batti, tamburo, allegramente, come le bandiere già schioccano!…”. Fece in tempo a scorgere ancora per qualche secondo l’uomo che ciondolava la testa ad ogni giro di manopola, per quanto i suoi occhi fossero ormai persi. Serrati dietro palpebre stanche, all’inseguimento di spettri risvegliati dopo lungo sonno. Allungò il passo cercando di scacciare dalla mente quell’episodio, ma ancor adesso, a distanza di mesi, avvertiva la sua ombra incombere alle spalle. Non era stato forse il suo enigmatico invito a spingerlo sotto le mura del famigerato castello? Non era stato forse il riconoscimento del suo anello ad aver dispiegato un tortuoso cammino dal quale pareva ormai impossibile fare ritorno? Non era più di tempo di domande. Sulla collina a fronte, pochi chilometri fuori Paderborn, si ergeva possente la fortezza di Wewelsburg. Già dalla sua strana forma a freccia, orientata oscuramente verso nord, intuì che quel luogo dovesse essere un segno di rimando verso orizzonti ulteriori, per quanto ignorasse ancora l’esatta destinazione. Non sapeva neppure se il complesso fosse aperto al pubblico o meno. Ogniqualvolta rivolgeva domande su di esso, la gente cambiava espressione ed alzava frettolosamente le spalle. Un pigro sole estivo stava ormai tramontando dietro gli steli d’erba che inverdivano dolcemente la campagna, forse desideroso di abbeverarsi alle acque di un ruscello fluttuante fra le sue dune. Avrebbe dovuto trascorrere la notte in quella località, ma oltre ad amene fattorie, nel piccolo villaggio ai piedi del maniero si imbatté soltanto in una locanda fumosa. “Buonasera. Affittate per caso stanze, qui?” Sullo sgabello vicino al bancone sedevano due rubicondi bevitori di birra, mentre l’oste era intento a sciacquare i piatti di una cena alquanto morigerata. “Benvenuto – rispose quest’ultimo facendo un cenno col capo, senza tuttavia interrompere la sua attività – se all’ostello non hanno più posti, possiamo rimediarle una stanza. Ma badi, non è prassi comune. Il fatto è che gironzolare qui, a quest’ora, può riservare brutte sorprese”. Rinfrancato dall’inaspettata cortesia, Al si accomodò accanto ai due bevitori. “Di che ostello parla? Non sapevo ce ne fosse uno in zona. Comunque non credo si aggirino orsi voraci in questa campagna…” L’oste sorrise benevolo, lanciandogli un’occhiata d’intesa. “Dopo la guerra, parte del castello è stato destinato all’accoglienza dei viaggiatori. Ma non importa: lei mi piace, ha un volto simpatico. Assomiglia un po’ a quegli esploratori barbuti che frequentavano Wewelsburg ai tempi del grande restauro, non certo ai perdigiorno d’oggi. In genere sono stralunati o seguaci d’eccentriche filosofie ad arrivare qui. Ma guardi lei stesso: sulle pareti abbiamo qualche foto d’epoca…”. Al si avvicinò al fondo della sala, rivestita in legno, e prese a scorrere le immagini affisse. Effettivamente i volti delle persone ritratte avevano qualcosa di familiare. Al di là di alcuni uomini in uniforme, si riconoscevano professori o studiosi, ma anche avventurieri dall’aspetto un po’ trasandato. Fu colpito dal fatto che gli ufficiali fossero sempre in numero di dodici. “Ha ragione. C’è uno che mi somiglia davvero – osservò ridacchiando - chissà che avrebbe pensato un vecchietto che ho conosciuto a Berchtesgaden…”. “E’ stato a Berchtesgaden? Parla forse di un signore che gestisce un negozio di antichità vicino alla chiesa?”. L’oste pronunciò quelle parole, assumendo un’espressione più prudente. “Ma sì! Lei mi legge nella mente! Vi conoscete, forse?” “Beh…se parliamo della stessa persona, credo si tratti di un amico stretto di mio padre. Hanno combattuto assieme in guerra. E’ stato lui a consigliarle di venire qui?” Inspiegabilmente Al si sentì percorso da un brivido molto simile a quello provato durante il primo incontro. Pareva che i suoi passi stessero davvero seguendo un percorso tracciato da tempo. “Già. Mi ha… - si fermò un attimo, incerto se confidare o meno all’oste l’episodio dell’uniforme - …mi ha mostrato una divisa militare. Quando ha visto che mi calzava a pennello è come impazzito dalla gioia. Manco avessi estratto la spada di Excalibur! E’ stato allora che ha fatto il nome del castello…ma me ne sono andato, prima che potesse spiegarmi il perché”. L’oste batté le mani in direzione dei due bevitori con aria un po’ ansiosa. Disse loro ch’era ggiunta l’ora di chiudere e di tornare a casa. Quelli bofonchiarono qualcosa senza troppa convinzione, uscendo a tentoni dalla sala. “Allora venga, la prego. Mi segua al piano superiore. L’aiuterò a capire…”. S’incamminò verso la scala gettando un’occhiata alle spalle, quasi per premunirsi che il locale fosse davvero vuoto. S’avvicinò quindi ad alcune panche lì raccolte, sollevando festoni e corone di vischio apposti a mo’ di decorazioni. Improvvisamente vennero alla luce segni runici incisi un po’ dappertutto, dalle porte alle balaustre di protezione. “Loro venivano qui spesso ai tempi. Intendo quelli del castello. S’intrattenevano sino a notte fonda per parlare di curiose spedizioni in Oriente. Cercavano l’accesso a qualcosa, ma non ricordo bene. Io ero un bambino e mio padre non ha mai voluto parlare troppo di questi episodi. Però ogni volta che lo facevano, assumevano un’aria davvero solenne. Come se si trattasse di qualcosa d’estremamente cruciale, decisivo per le sorti dell’umanità…lei ama sicuramente viaggiare, non è vero?”. Al rimase piuttosto perplesso di fronte alle dichiarazioni dell’oste. Il locale aveva le tipiche sembianze di una tranquilla stübe, impreziosita dalla presenza di una stufa a ceramica verde. Proprio non riusciva ad immaginarsi cupe cospirazioni o solenni giuramenti fra le sue pareti, quanto allegre compagnie di bevitori che, tenendosi a braccetto, cantavano a squarciagola qualche burbero motivo importato dal sud, sulla falsa riga di Anton aus Tirol o die Rose von Woerthersee. “Crede che nel castello possa trovare qualcosa in merito a queste spedizioni?” L’uomo s’incupì improvvisamente. “Niente di niente. E’ bruciato tutto. Quando fu chiaro che le truppe straniere sarebbero riuscite a penetrare all’interno, venne dato ordine di distruggere ogni documento lì custodito. Anni di studi condotti nelle parti più recondite del mondo, alla ricerca dei grandi tesori: solo fumo e cenere, ragazzo mio…”. Accorgendosi del moto di stizza del giovane, l’oste cercò di non scoraggiarlo. “Ma non devi preoccuparti. Non è di quel tipo d’informazioni che tu hai bisogno. Il castello parla da sé; le sue pareti, le sue sale, la sua stessa architettura riusciranno a dirti molto più di quanto è andato perduto. Devi…devi modularti sulle sue frequenze…non riesco a trovare un’espressione meglio adeguata”. Era strano. Quell’uomo, esattamente come il venditore d’anticaglie a Berchtesgaden, aveva qualcosa di ambiguo e sfuggente. Diceva e nascondeva al tempo stesso, quasi temesse di oltrepassare un limite inviolabile, dal quale tuttavia era sommessamente attratto. Passeggiò perplesso nella stanza, avvicinandosi ad una stretta finestra che s’apriva proprio sull’antica fortezza. “Vista da qui, sembra una costruzione piuttosto moderna…” “Non lasciarti ingannare – obiettò l’oste, con tono roco e improvvisamente confidenziale – non fermarti in superficie. I primi insediamenti risalgono probabilmente al X o all’XI secolo, quando i Germani furono costretti a creare un blocco difensivo sulla collina a causa delle invasioni degli Unni. La sua edificazione costò però grandi sacrifici ai locali: nel 1124 il conte Friedrich von Arnsberg spinse i suoi sottoposti a lavorare in condizioni durissime, quasi disumane, tant’è che appena egli morì, gli stessi si ribellarono e distrussero quel simbolo di odio e prepotenza”. Nonostante tutto la costruzione venne ripresa negli anni successivi imponendo angherie ancor peggiori, ma accentuando in particolare il divario fra i nobili e i contadini del posto. Durante la Guerra dei Trent’anni, di fronte all’incalzare delle scorrerie militari, gli abitanti del villaggio cercarono riparo proprio nel castello, vedendosi però sbarrato l’accesso da una frase sprezzante incisa all’entrata: “Viele moechten gern hinein; aber das schaften sie nicht!”. Come a ribadire: voi non ne siete degni. Il castello venne più volte rimaneggiato e migliorato nelle sue difese, finché a cavallo fra il 1604 e il 1607 assunse l’attuale forma a lancia, voluta dai Fuerstbischof della famiglia Fuesternberg, titolare dello stabile per oltre due secoli. Quindi una lenta agonia sino al suo rilevamento da parte di Heinrich Himmler nel 1934, che lo trasformò nel centro iniziatico dell’Ordine Nero. “Quando crede possa entrare nel castello?”. La domanda del giovane aleggiò nel silenzio. Per un attimo pensò di essere rimasto solo nella stanza, cosicché si volse di scatto per cercare di capire dove fosse finito il suo ospite. Lo ritrovò però seduto alle sue spalle, intento a scrutarlo minuziosamente. I suoi occhi apparivano tanto indagatori, da metterlo quasi in soggezione. “Dipende. Dipende da cosa intendi fare nel castello. Puoi entrarci come turista domattina e, senza dubbio, qualche paffuta guida ti mostrerà i reperti etnografici di un piccolo museo lì ospitato, oppure ti farà fare amicizia con qualche tuo coetaneo nell’ostello accanto. Oppure…”. Lasciò cadere la frase nel vuoto. Un’ansia immotivata si dibatteva nel suo petto, facendo capolino nel tamburellare nervoso delle dita sulle cosce tornite. “Oppure?”. Al lo guardò interrogativo, ma anche con una punta di provocazione. “Oppure…puoi entrare stanotte. Sai, certi posti cambiano completamente volto al calar del sole. Rivelano una seconda identità. Anzi, ti suggerirei di entrarci sul far dell’alba, quando potrai apprezzare la potenza suggestiva della luce fra le sue pareti…”. Al capì che dietro quella proposta, si celava un’iniziativa ai limiti della legalità. Quale sorvegliante sarebbe rimasto in servizio, attendendo improbabili visitatori crepuscolari? Chi avrebbe mai lasciato aperti locali e corridoi durante la notte, quando fuori gironzolavano “stralunati” e seguaci di strane sette? L’oste sapeva indubbiamente molto più di quanto volesse dare ad intendere. Ma proprio per venire a capo delle sue ombre, sarebbe stato necessario assecondare una volta ancora le stranezze sottopostegli. “D’accordo. Io sono pronto…”. Lui assentì soddisfatto, come se in fondo si fosse aspettato solo ed unicamente quella risposta. “Ma non mi chiede neppure perché voglia entrarci?” “Non mi serve – rispose candidamente – a me basta sapere che lo farai. Poi tutto verrà da sé…”. Si alzò pesantemente, come se sulle gambe dovesse reggere l’intera stanchezza del giorno, e allungando il braccio verso un corridoietto sul fondo della sala, intimò di seguirlo oltre. Senza nulla replicare, Al si accodò alle spalle, non lesinando occhiate furtive alle pareti, dove fra foto seppiate e antiche simbologie, un mondo sommerso stava gradualmente tornando a galla. “Ti consiglio di riposare un po’, ora. Sarà una visita impegnativa, sia sotto il profilo fisico che psicologico. Qui c’è una stanza con un letto doppio: la teniamo per i nostri ospiti più cari. Rilassati pure, fatti una doccia e dormi. Verrò io a chiamarti quando sarà il momento. Ci sposteremo a piedi”. Fermo sulla soglia, l’oste continuava a guardarlo con un misto di benevolenza e timore. “Beh…non posso che ringraziarla. Effettivamente sono un po’ stanco. Buonanotte, allora”. Chinò rispettosamente il capo e, con un movimento felino, l’uomo chiuse la porta senza fare alcun rumore. Al udì i passi allontanarsi nel buio del corridoio, lasciandolo presto immerso in un silenzio irreale. Dalla finestrella penetrava una brezza frizzante, mentre nel cielo cominciavano ad apparire le prime stelle. Si sedette sulla seggiola posta accanto ad un tavolino intarsiato, su cui era stata riposta una brocca colma di succo di mele. Bevve lentamente, ad occhi chiusi, sentendosi piano piano sprofondare nella quiete circostante. Quindi spalancò le palpebre come folgorato da un’intuizione fatale. “Sì, non si scandalizzerà di certo…”. Accesa una candela, giusto per non rovinare l’atmosfera rarefatta della locanda, si mise a sfilare alcuni capi dal suo zaino, finché ritrovò per le mani l’uniforme consegnatagli a Berchtesgaden. La dispiegò accuratamente, appendendola sugli ometti dell’armadio. Quindi si spogliò con noncuranza, guardandosi attorno incuriosito. Sopra il letto era appeso un ritratto dallo sguardo spiritato. Si avvicinò un poco per leggere la targhetta d’oro incisa in lettere gotiche. “Karl Maria Wiligut... – ripeté sommessamente - …Wiligut…ma sì, ora ricordo! Lo chiamavano il Rasputin di Himmler…”. Più che foto d’epoca, quelle cornici sembravano perpetuare il culto di personaggi ferocemente condannati dalla storia. Nato nel 1866 a Vienna, Weisthor – così si fece chiamare più avanti l’inquietante austriaco – era stato un brillante militare ai tempi degli Asburgo. Dopo aver preso contatto con gli ambienti ariosofi dell’antica capitale imperiale, iniziò però a manifestare segni di squilibrio psichico ed autopersecuzione, finendo per essere ricoverato in un manicomio a Salisburgo. Ci rimase per tre anni, senza che questa sospetta separazione dal mondo dei benpensanti incrinasse la sua passione per gli studi mistici, legati allo yoga, alle rune e all’archeologia germanica. Titoli di merito che, più tardi, gli guadagnarono l’ammirazione di Himmler assoldandolo come guida spirituale dell’Ordine Nero a Wewelsburg. I pensieri del giovane s’involarono per via di un timido bussare alla porta. Guardò di soppiatto l’orologio: erano le 10 appena passate. Troppo presto per recarsi al castello. Si avvicinò dunque all’uscio, con fare circospetto, ma alle sue ripetute domande nessuno rispose. Infastidito, girò allora la chiave nella serratura. “Ma insomma, chi è?”.