"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

lunedì 14 novembre 2005

DANZANDO CON GLI SCIAMANI/5



SPETTRI RASPUTINIANI

C’è chi sostiene che Rasputin sia ancora vivo. Ripensando alle parole incredule del conte Jusupov, il nobile che tentò di assassinarlo nella notte del 16 dicembre 1916 prima col veleno, poi sparandogli più colpi di pistola, finendo per annegarlo disperatamente sotto il ghiaccio, l’idea non sembra poi tanto peregrina. Il monaco nero, colui che per oltre un decennio riuscì a stregare la famiglia zarista manovrando le fila della Russia, l’impenitente predicatore del sesso libero come rimedio contro i demoni carnali, si aggira per le strade del paese natale sotto falso nome. Viktor Prolubshikov ha gli stessi occhi penetranti di Rasputin, la stessa scriminatura fra i lunghi capelli corvini e la folta barba, ma soprattutto viene ritenuto dai concittadini di Pokrovskoe il diretto discendente dello starec.

“La mia bisnonna lavorava al suo servizio come cameriera – biascica cercando di non ruzzolare a terra, dopo l’ennesima sbronza di vodka – e inevitabilmente finì sedotta dalla sua personalità. Lui aveva il potere di capire perfettamente cosa una donna desiderasse in un determinato momento, un po’…un po’ come in quel film holliwoodiano con Mel Gibson”.

Sogghigna come se la sapesse lunga, nonostante abbia perso la casa da pochi giorni. Vinto dai sopori dell’alcool, ha lasciato cadere un mozzicone di sigaretta nella sua dacia di legno, bruciandola in pochi minuti, ma riuscendo miracolosamente a mettersi in salvo. Proprio come soleva capitare al suo presunto avo, capace di sottrarsi per anni a ripetuti attentati, sopravvivendo ad ogni eccesso.

“La gente viene qui a Pokrovskoe per vedere la casa di Rasputin – aggiunge – ma è stata abbattuta dai Comunisti nel 1980, temendo pellegrinaggi stranieri nell’anno delle Olimpiadi di Mosca. Ora al civico 78 vive mio cugino, mentre di rimpetto è stato creato un museo dove tutti vanno a vedere sempre e solo una cosa. Ma decido io se farla vedere o no”.

Da anni si dice che in una delle teche lì conservate sia stato messo in visione il gigantesco “orgoglio” dello starec, ma come abbia fatto a preservarsi sino ad oggi nessuno lo sa. Forse è l’ennesima trovata pubblicitaria di Viktor, per strappare al turista una bottiglia di vodka in più. In fondo, come diceva il suo avo, l’importante è dare all’uomo un motivo per cui credere. Adagio tipicamente siberiano, che lega per lo stesso filo il “barone pazzo” von Ungern-Sternberg (che si credeva la reincarnazione di Gengis Khan ai tempi della lotta contro i bolscevichi) all’odierno Vissarion (un ingegnere russo che, proclamatosi vero Messia cristiano, ha fondato in Kakhassia una “città del Sole” ultraecologica ed isolata dal mondo).

DANZANDO CON GLI SCIAMANI/4



MISS TUVA

Non c’è visione sciamanica più illuminante, che assistere alla consacrazione di una dea in carne ed ossa, ovvero Miss Tuva. Il concorso di bellezza che ogni anno ha luogo a Kyzyl, a cavallo dei giorni di Ferragosto, è indubbiamente un’ottima chance per farsi un’idea del tipico clima dei festival siberiani. Se in Yakutia l’appuntamento cardine si chiama Ysyakh, nella piccola repubblica al confine con la Mongolia è conosciuto piuttosto come Naadim. Per quanto il primo vada in scena due mesi prima (durante il solstizio d’estate), le due celebrazioni si somigliano e si richiamano per molti aspetti: a nord i locali danzano in circolo con gioielli d’argento sulla fronte e sciamani vestiti da lupi alle spalle, si sfidano in gare di lotta libera o a cavallo, bevono latte fermentato di giumenta (kymus) ascoltando i cantastorie narrare l’epopea dell’eroe Olonkho; a sud prevale una vena più agonistica, poiché gli uomini si sfidano in prove volte ad esaltare le qualità della caccia e del combattimento tipiche dei nomadi.

“Dal Kazakistan alla Yakutia, passando per il Kirghistan e la Mongolia, siamo tutti figli dello stesso ceppo altajco-mongolico – ha spiegato Suzannah Mongulek, promoter ufficiale della cultura tuvina in quanto ultima vincitrice del concorso di bellezza locale – e, al di là delle prove d’abilità, è senz’altro la musica a mostrare meglio le nostre comuni radici. Un vero mongolo dev’essere in grado di suonare correttamente il morin khuur, una sorta di violino costruito in origine con costole e criniera di cavallo, proprio come saper cantare gli höömi, basati su profondi suoni di gola, laringe, stomaco e palato, i quali danno modo di emettere contemporaneamente due melodie separate”.

A Tuva una miss non può aspirare al titolo se non sa muovere passi di danza tsam, impersonando ad esempio Tserendug (un vecchio sciamano canuto), se non è capace di memorizzare le più insigni poesie degli avi o improvvisare lodi in rima per la propria terra, se non ha idea di come si costruisca un beshiks, tipica culla di legno ad archi. Per un nomade tutto dev’essere guadagnato con le proprie forze. Persino la bellezza. Una bellezza morale, ancorché estetica, che tanto somiglia ad una verità perduta.

DANZANDO CON GLI SCIAMANI/3




KALAMNIE!

Non c’è modo di conoscere davvero, se non viaggiando. Per gli sciamani siberiani il viaggio è tuttavia qualcosa di assai differente da quanto noi intendiamo; non a caso manca un termine appropriato per tradurre il loro concetto di “kalamnie”. Difficilmente se ne viene a capo, se ci si accanisce ad inseguire per taighe solitarie e steppe desertiche le scorbutiche guide spirituali yakute. Al fine di poter accedere ai veri “riti di passaggio”, non basta sborsare qualche dollaro in uno dei posticci centri sciamanici che stanno affiorando nella “nuova” Russia, ma sottoporsi ad un lungo apprendistato presso i maestri di Tuva, altra piccola repubblica sul confine nord-occidentale della Mongolia, universalmente riconosciuto come centro geografico dell’Asia, esattamente come polo propagatore dello sciamanesimo stesso.

Insieme a Kara-ool Dongun, attempato tuvino che ancora porta sul collo l’impronta della mano con cui il padre gli ha infuso i propri poteri rituali, nonché consulente di Elsin e Putin, ho dovuto così trascorrere lunghe notti ad imparare a riprodurre i richiami degli animali delle foreste, onde acquisire fisicamente le loro virtù; ad assorbire la linfa vitale ed il ritmo della natura avvinghiandomi nudo sulle betulle, ad inalare fumi di licheni bruciati per purificare il mio corpo, a confezionare “eeren” (cioè feticci in cui esteriorizzare il nostro doppio) con stoffe e sostanze organiche. Al termine di prove sempre più bizzarre, è però giunto il sospirato invito.

In una notte di plenilunio sono stato condotto nelle paludi fuori Kyzyl, la capitale di Tuva, ove teschi e carcasse di vacche appese alle piante segnalano la presenza di un sito sacro in cui vennero assassinati due pastori. Dongun lo ha saputo attraverso voci ascoltate in sogno, mentre dormiva in quel luogo; le ricerche poi condotte in città gli hanno confermato l’omicidio lì commesso oltre ottant’anni fa da un gruppo di bolscevichi, contrari alle “superstizioni” dei locali.

Dopo aver acquistato salami, latte e biscotti da riporre in un altarino di legno costruito al centro di un ovoo, il cerchio sacro dove evocare con libagioni gli spiriti trapassati, Dongun si è trasformato insieme alle fiamme votive. Con indosso un costume di penne di falco e pelle d’orso, ha iniziato a suonare il proprio tamburo ad un ritmo sempre più frenetico, danzando scompostamente e intonando gli antichi alghisc tuvini. Ebbro di fumi, col sangue che pulsava nelle tempie sin quasi a scoppiare, la voce deformata in suoni spaventosamente baritonali, Dongun è caduto a terra contorcendosi con gli occhi ribaltati, la bava alla bocca. E l’indice sinistramente alzato. Nella notte tuvina non eravamo più soli.

DANZANDO CON GLI SCIAMANI/2



LENSKY STOLBY

Al cospetto degli impressionanti torrioni del fiume Lena, colonne basaltiche del periodo Cambrico alte decine di metri, si ha l’impressione di essere giunti nel regno degli Elfi mostrato nel film “Il Signore degli Anelli”. Un alone di magia avvolge effettivamente queste straordinarie creazioni dei processi tettonici, sagomate da terremoti ed erosioni millenarie, così come dagli scalpelli dei cacciatori nomadi rifugiatisi fra le caverne qui dischiusesi. Le concentrazioni più spettacolari si trovano circa 200 chilometri a sud di Jakutsk, la capitale della Repubblica di Sacha fondata dai reggimenti cosacchi di Golovin e Glebov nel 1638. Incorniciano a mo’ di severi guardiani le rive del fiume Lena, che ghiacciando d’inverno rappresenta la principale via di scorrimento della Yakutia: grazie ad un letto esteso per 4.400 chilometri dal lago Baikal all’Oceano Artico, centinaia d’uccelli nidificano qui, mentre nelle acque del fiume vivono oltre 36 specie ittiche, fra cui il temuto “taimen”, il cosiddetto pesce-tigre (oltre che un enorme ittiosauro preistorico in un lago nei pressi della sua foce). Questa traiettoria, che mette in comunicazione le fonti vergini dei Monti Sayan a sud di Tuva, i monoliti a forma di ombelico presso Salbyk in Kakhassia, nonché le barriere rocciose del nord, pare ben più che un’autostrada naturale.

“I torrioni della Lena sono un sito sacro – mi ha ammonito uno sciamano locale, medico e guida spirituale per gli yakuti – tant’è che, inoltrandosi per le intercapedini della roccia, inevitabilmente affiorano pitture ed incisioni dedicate a dei ormai sconosciuti: sono i resti di una civiltà preneolitica a noi superiore, che, in coincidenza del Kali-Yuga (la quarta epoca di decadenza dell’umanità iniziata circa seimila anni addietro), pare essersi ritirata dalla superficie terrestre, rifugiandosi nelle cavità sotterranee di cui molte tradizioni narrano”. Si tratta di raffigurazioni talvolta sorprendentemente simili a certe saghe wotaniche preservatesi sulle pietre runiche della Scandinavia. Soggetti solari, che fra svastiche, frecce e coppe iniziatiche (dal soma degli Indù all’Haoma dei Persiani, sino al sangue di Cristo, una bevanda d’immortalità è quanto di più prezioso l’umanità abbia da sempre perduto), alludono segretamente ai misteri di Agharti.

Gli sciamani yakuti indicano questa località come uno dei punti più recettivi per la raccolta d’energia (analogamente a quanto avviene per altri sistemi rocciosi “line-up”, come Externstein in Germania), affinché sviluppando appieno la facoltà percettive del corpo si consegua la capacità di penetrare nei tre mondi in cui il cosmo è diviso.

DANZANDO CON GLI SCIAMANI/1




OLTRE LA YAKUTIA

Conquistare la Yakutia è molto più semplice nella realtà che a Risiko, gioco per il quale questa sperduta regione siberiana è riuscita a ritagliarsi l’unica notorietà di cui gode nel nostro Paese. Un italiano fra i suoi confini è un evento così straordinario da indurre ad aprire qualsiasi porta, persino quelle del Ministero al Turismo della sua capitale Jakutsk: è qui che lo scorso agosto ho infatti ottenuto l’autorizzazione ad inoltrarmi nelle parti più recondite del continente asiatico, dopo aver rassicurato rappresentanti di etnie quali gli Eveni, gli Evenki, gli Yukaghiri e i Ciukchi di non essere uno Yeti biondo, ma un “homo brianteus” in vacanza.

Estesa su una superficie di 3 milioni di chilometri quadrati alle appendici nord-orientali della Russia (quasi un quinto della sua superficie), la Yakutia si è così trasformata improvvisamente da leggenda in realtà: dopo aver anelato i suoi inverni impossibili, che nella cittadina di Oymiakon vedono scendere la temperatura oltre i 70 gradi (cifra record per un luogo abitato); dopo aver sognato della festa che il lappone Santa Klaus qui celebra ogni marzo col collega russo Den Moroz e a fianco di Chyskhann, il Signore dei Ghiacci; e ancora, dopo aver fantasticato attorno ai diamanti, all’oro e all’avorio delle mastodontiche zanne dei mammuth preistorici, intrappolati per millenni nella neve del permafrost, sono riuscito a tener fede alla promessa strappatami da uno sciamano buriato due anni prima. “Vedo un’aura dorata attorno al tuo capo – si era stupito nel darmi la benedizione al termine di un rito propiziatorio – è un segno: chiunque possieda una spiritualità tanto forte, è destinato a conoscere i segreti del Grande Nord. Lascia che il passo ti guidi lassù”.

Allora non gli diedi retta, proseguendo il mio viaggio lungo la ferrovia Transmongolica. Eppure, col passare del tempo, un richiamo sempre più forte mi ha attratto verso “quell’immensa distesa a est del cuore”, che il poeta francese Philippe Jaccottet ha così deliziosamente cantato nei suoi versi. Movendo dalla Mosca dei cosmonauti sovietici verso Yekaterinburg, la città ove il 16 luglio 1918 vennero giustiziati lo zar e la sua famiglia, quindi alla volta di Pokrovskoe, villaggio natale dell’ambiguo monaco Rasputin, sempre più in là, sino alla sperduta Jakutsk cosacca, questo viaggio a ritroso nella storia russa ha piano piano assunto le sembianze di un’inconsapevole regressione verso gli abissi dell’io, fagocitandomi nel pozzo del sapere da cui ogni cultura è scaturita: lo sciamanesimo.

Proprio attraverso un lungo apprendistato nelle tecniche sacre dell’estasi si è infine manifestato il senso di un’esperienza tanto estrema: non la mera riscoperta di uno stile di vita votato ad omaggiare le meraviglie della natura, come predicano le arrembanti mode “new age” che ciclicamente tornano nell’asfittico Occidente, bensì l’iniziazione ad una tradizione esoterica antichissima, propria dell’intero genere umano.

Lo scrittore Saint-Yves d’Alveydre ne ha parlato curiosamente in un’opera oggi ormai quasi dimenticata (“Mission de l’Inde”, 1910), l’ex funzionario menscevico Ferdinand Ossendowski ha acceso l’attenzione sui suoi aspetti più eclatanti (“Bestie, Uomini e Dei”, 1924), ma solo lo storico René Guenon ne ha probabilmente analizzato le implicazioni nel modo più lucido e coinvolgente (“Il re del mondo”, 1958): il mistero dei misteri, l’eterna fiamma che arde in ogni anima faustiana, risponde al nome di Agharti, l’inaccessibile mondo sotterraneo ove una schiera di dodici eletti regola le sorti della Terra sotto un’unica guida. Che si tratti di una potente rappresentazione simbolica delle leggi universali, o piuttosto di un vero luogo cosmico, solo rari iniziati hanno avuto il diritto di pronunciare l’ultima parola a riguardo: decine di esploratori ed archeologi, dall’intrepido Sven Hedin ai visionari di Himmler in forza all’Ahnenerbe, si sono affannati nel cercare l’accesso o le prove che attestassero l’autenticità degli indizi custoditi nei testi sacri di tutte le religioni storiche, dai Veda indiani alla Bibbia cristiana. I più sono morti sottoponendosi a rischi inconsulti; altri sono impazziti nell’impossibilità di venire a capo dell’enigma; solo alcuni hanno trovato la via per la discesa ad Agharti, ma mai più quella del ritorno. Tutti con la stessa certezza: la Yakutia è il luogo delle risposte.