"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

giovedì 25 agosto 2005

SIBERIA

Sgambetti lungo il volo di un falco miope
- transustanziazione yakuta -

“Tramontammo agli antipodi dell’universo, eppur le nostre ombre ancor si baciano”
(anonimo di Jakutsk)



Mosca, Skulptury park – 27 Luglio 2005, h. 17.17

Invocazione alla falsa icona
Ed eccoci qua, con un cetriolo in bocca e S. Nicola sulle spalle. Proteggi almeno me, icona del viaggiatore, sfrattata dalla cattedrale che Stalin fece tornare polvere, eppur malvista dal pingue pope. Guarda laggiù; neppure un raggio di luce. Neppure una lacrima di pioggia per quegli eroi da piedestallo. Anche loro sono stati relegati in un limbo d’indifferenza, che brucia più di ogni candela morente. Hanno rotto loro il naso, sono stati falciati in piazza Ljubjanka, li hanno gettati nella spazzatura delle anticaglie. Quant’è capriccioso il vento della rivoluzione! Ma se ad esso solo votiamo il nostro cuore, uniamoci allora al sorriso del buon Don Chisciotte, disarcionato ad un soffio dal grande balzo; lui non demorde. La sua Dulcinea è il furtivo bacio di una vecchina che si posa sulla fede perduta; il suo cuore è lo sguardo di una fanciulla che interroga il tramonto. Come cavalieri di bronzo usciti dalla penna di Pushkin, prima o poi le anime indomite spezzeranno l’incanto per tornare in sella….

Yekaterinburg, tomba degli zar – 31 Luglio 2005, h. 18.18

Fuoco! Una parola appena: ed un mondo fu cancellato. Ha pagato davvero cara la sua audacia, Yekaterinburg, piegatasi all’indice di Sverdlov sino a perdere la propria anima. Sotto i fucili bolscevichi, in quel lontano 16 luglio 1918, non cadde solo il molle zar e la sua famiglia tutta, ma la ghigliottina dell’anonimia. Si potranno infatti erigere cappelle posticce in onore dei Romanov, ricomporre i frammenti dell’aerospia di Gary Powell, o addolcire il ferro degli Urali in baldacchini funerei, ma il talamo cittadino rimarrà inevitabilmente vuoto.
Il ripudio di un nome è peggio di un parricidio. A kto, a kto? E chi? E chi? Echeggia sinistro il ritornello degli Uma Thurman, osannati nella loro Seattle di Siberia: appunto, chi? Chi ti ridarà un volto, soglia bifronte? Non sei in Europa e neppure in Asia, non sei Yekaterinburg e neppure Sverdlov. Sei solo un fotogramma da esibire incrociando la dita, come si ostina la dolce Tanya; quella donna russa dal viso di bimba kazaka, che non si stanca di portare la tua fatua poesia sui banchi di Mosca, la burocrate.

Jakutsk, ruota arrugginita del Kulturny Park – 4 Agosto 2005, h. 22.22

Non sporca, ma grezza sì. Come un diamante incastonato nella taiga dei tesori nascosti, Jakutsk richiede tempo e fatica per essere ripulita dalle scorie del provincialismo. Eppure, giorno dopo giorno, diviene sempre più vanitosa: anela palazzi di vetro in cui specchiarsi, si vergogna di camminare nel fango del permafrost, tira a lucido le facciate kruscioviane, ma fa la cresta sui cortili. Questione di trucco, nulla più. Non ci si lamenti allora se i figli non tornano nella sacra casa degli sciamani e se persisterà l’odore di vernice sulle isbe ricostruite, o ancora se ritroveranno i canti Jsyk solo sui manifesti pubblicitari. Sventurata città, schiava di una politica da bacheca che ti portati nel sangue da 400 anni: gli occhi sgranati erano allora per le rosse giubbe cosacche; oggi per il forestiero che vedi rifranto nelle illusioni della grande solitudine: non è un semidio, eppur lo imbalsami nell’ennesima vetrina da museo, accanto alle zanne di mammuth, ai pelosi stivali degli Evenki, ai gioielli di Tynda. Non lasciarti ingannare dalle virtù del ghiaccio eterno: anche i diamanti non sono per sempre.

Kangalassy, ponte galleggiante – 5 Agosto 2005, h. 14.14

Aspettiamo. E aspettiamo ancora. Spingersi ad Oriente è un po’ come attraversare l’inevitabile crisi nervosa di una cura disintossicante. Tutto a portata di mano, apparentemente. Basterebbe mettere in moto il sudaticcio mikriki per partire alla volta di Druzba, ma lungi resta il numero minimo di passeggeri che giustifichino la corsa. Basterebbe levare le ancore sul farraginoso traghetto ormeggiato sul fiume Lena, ma qualcuno potrebbe ancora arrivare. Sembra proprio che non si possa fare a meno del pieno, della rotondità dell’essere. Fuori le canne da pesca, allora! Via le magliette per prendere il sole! Andiamo a scambiare quattro chiacchiere con la venditrice di piroshki, arroccata su un seggiolino di fortuna per contemplare quanto fine possa essere la sabbia. E quanto lungo il tempo.
Che si arrivi a destinazione è fuori di dubbio. Ma guai a chiedere quando. Sarebbe un po’ come fissare il giorno del proprio funerale. Affidiamoci dunque alla clemente mano del caso: chissà che non sorrida, sfoggiando i denti d’oro di una babushka ignara dell’età, o le medaglie al valore di un reduce stupefatto, per cui una giornata di sole è già la più grande benedizione che ci si possa augurare.

Druzba Park, teatro dello sciamano – 6 Agosto 2005, h. 21.21

Intermezzo sciamanico
Un palco senza attori, ma teste di cavallo che fissano l’orizzonte in un oscuro presentimento; mani strette in una segreta intesa; vasi scoperchiati in cui si riversa il sangue del tramonto. Chi si cela dietro la messa in scena? Tace la civetta. Dorme la foresta.
O forse finge. Nell’impercettibile fruscio che disegna spirali fra gli steli d’erba, lo sciamano ha cominciato la sua danza ubriaca. Alziamo un inno alla nudità dell’assenza, perché al calar del sole, annegati nel pozzo delle paure inconsce, sapremo infine qual è davvero il nome cercato.

Torrioni della Lena, grotta dell’amnesia – 7 Agosto 2005, h. 16.16

Com’è lontana Berlino, di fronte a questi invalicabili muri di roccia! Qui la guerra fredda non è mai arrivata, ma solo il gelo artico che ammutolisce indistintamente i tiranni della poltrona. Qui non c’è ovest da agognare o est da insultare, ma solo pietra aspra che guarda tutti dall’alto. Qui è l’ultima cesura, invalicabile barriera che prelude ai misteri di Agarthi. Petroglifi senza nome che paiono sberleffi o maledizioni, se vero è che gli occhi dei torrioni condannano le navi ai fondali del fiume. Eppure l’uomo si ostina a lambire questo sacro limite d’ogni ardire, ad occhieggiarlo e puntarlo, in attesa del momento propizio che guiderà il suo passo oltre. Non sa che il varco è un’oscura gola, che inghiotte verso isole di beati ove si consumano cocktail di vodka e morte, nell’orgiastica celebrazione di simposi ineluttabilmente proibiti alla parola .
Fra Hytyk Haya e Diamanty Park, sentiero cieco – 9/10 Agosto 2005, h. 13.13

Più che rinvigorire il focolare dell’ospitalità, una visita fra i cacciatori della taiga ha il vago sentore di prendere parte ad un’imboscata, dove non si capisce bene chi sia la vittima designata. Forse loro stessi, che temono ogni guizzo di spontaneità per naturale timidezza, o forse perché la lontananza dagli spazi si è qui trasformata in margine esistenziale. O ancora, perché sotto sotto l’arte di vivere nient’altro è che arte venatoria. Ma allora, a ben guardare, le vittime siamo noi sedentari, dimentichi dei proni onori alla soglia idolatrata e ignari delle libagioni da offrire al fuoco custode, ormai irrimediabilmente soffocati dal grasso della consuetudine. Siamo colpevoli perché giungiamo a mani vuote e pieni solo di domande, laddove i coltelli della cortesia conoscono solo la legge dello stomaco, mentre il suono vibrante del kymus tradisce l’impazienza per un’occasione sottratta alla perpetuazione della stirpe.
Non c’è gusto per la sorpresa, non c’è meraviglia nello sguardo, quanto piuttosto una morbosa fissità che attende il passo falso. Nulla di personale, per carità…ma in tempi di magra non si sa mai. Qui l’estate della vita dura il tempo di uno sbadiglio.

Novosibirsk, a fianco della triade proletaria – 11 Agosto 2005, h. 19.19

Piazza Lenin è ben più che il centro della città. E’ il balletto dell’Operà fattosi sorprendentemente architettura, il trionfo dell’equilibrio che porta all’inevitabile pietrificazione. Gelidamente perfetta come l’azzurro dipinto da Rurich, a sua volta ingabbiato dal mito di Shambalah, sino a trasformare i suoi quadri in una catena di montaggio. Sarà il fatto di sentirsi al centro di tutto eppur lontani da ogni dove, sarà il bisogno di capire il perché la propria testa accademica sia rimasta da un giorno all’altro senza corpo, sarà la trasparenza della scienza sovietica che riduce all’osso la vita, ma Novosibirsk sa davvero troppo. E come ogni sapiente che lambisce il tutto, non riesce più a venire a capo di un’equazione infinita. Così quel che era armonia del suono oggi pare sincope del ritmo, mentre il gusto dell’aneddoto inconscia ripetizione: sia che si muovano passi in discoteca, che all’ombra di un museo all’aperto. Ma se mai altrove la Terra abbia contemplato ragazze più belle che a Novosibirisk, allora non lontana è la chiave d’accesso al cuore di questo freddo cristallo: il desiderio scatena il caos, da cui sgorga ogni multiforme verità.

Salbyk, kurgan del guerriero perduto – 13 Agosto 2005, h. 14.13

Spirali di pensieri si avvinghiano ai monoliti di Salbyk, per parlare sempre e solo della morte. E’ qui che il nomade ribelle scopre di non avere più direzione, ma non per colpa della pietra maledetta, la cui leggenda vuole prometta sventura per ogni dove: tornare sui propri passi significa guardarsi in faccia e farsi carico delle responsabilità sempre scansate. Eppure chi si imbatte nel peso di questi macigni, muore innanzitutto a se stesso, dovendo rinunciare alla vita che scalpita oltre, semplicemente per spiegare quanto non è più. Il circolo è vizioso, proprio come la presa di coscienza, attraverso cui quanto pareva casuale finisce per assumere improvvisamente un senso predefinito: non più massi dispersi, non più anima al passo, ma segni del sacro che dispiegano la verticalità dell’orizzonte.
Giro su giro, il nuovo diviene l’uguale e l’avventura del sé il cammino di tutti: alza lo sguardo, guerriero maledetto. Guarda ora come la terra imputridisce. Non sono verdi colline dietro cui fuggire, quelle che scorgi laggiù, ma bubboni mortiferi chiamati kurgan. Non importa quanti anni hai: si è vecchi, terribilmente vecchi, ogniqualvolta impariamo a leggere.






Kyzyl, betulla dello scheletro – 15 Agosto 2005, h. 23.59

Per una vera kalamnie.
Come sono profonde le rughe di uno sciamano, al chiaro di luna. Come suona disperato il suo ululato agli spiriti della notte. Ora so perché i suoi occhi stanno chiusi. Non sono le carcasse appese alle piante a terrorizzarlo, né le insidie delle paludi, ma il dubbio altrui, che rende il silenzio dell’universo ancora più muto di quanto egli non voglia sentire. Ti ho visto spiarmi, quando sei rantolato al suolo. Ti ho visto pregarmi, perché io credessi. Ma non m’importa se ciò che vedi sia solo un sogno o verità: quello è il tuo mondo, comunque sia. Nasce dal tamburo e muore nella fiamma, danza nel vento e respira oltre la betulla, che congiunge cielo e terra attraverso parole in libertà. Ma io ho catene che pendono dalla mia stessa lingua, sono cresciuto dietro pareti che mi hanno reso miope, ho perso le ali quando ho chiesto di volare. Siamo riflessi di uno stesso specchio, fatto a pezzi da Dioniso ed eternamente ricomposto da Apollo, ma non abbiamo il coraggio del solo gesto che davvero dischiuderà gli abissi dell’oltre: legare un corda al collo, cavarci un occhio ed immolarci ad Yggdrasil.

Pokrovskoe, a caccia di un numero civico – 18 Agosto 2005, h. 16.32

Nel fango di Pokrovskoe si perde il conto delle orme. Magari sono rimaste impresse quelle del suo illustre starec, magari quelle di un operaio tribolato: ma come inutile è distinguere il prima dal dopo, così assurdo è disputare attorno al civico 78 o 79. Ovunque sia vissuto, Rasputin ha predicato una sola grande verità: non siamo padroni di nulla, tanto meno di noi stessi. E se c’è chi colse la palla al balzo per donarsi alla legge del piacere, giusto è ricordare anche gli eredi che non hanno più
casa dove tenere sotto chiave i ricordi del monaco. E allora tanto di cappello al signor Viktor, che perpetua la parola del suo presunto predecessore, ogniqualvolta esala alcool: un mozzicone traditore l’ha costretto alla strada, è vero, ma ha più diritto lui ad un tetto che tutti gli abitanti del villaggio. Perché lui sa ancora ingannare la vita, mentre gli altri vivono solo d’inganni.












A bordo del Byran, - 23 Agosto 2005, h. 19.30

E’ caldo il sole che bacia le labbra dell’adolescenza e scintilla sul destriero delle galassie agognate. E’ dolce, come lo sguardo di una ragazza sconosciuta che spia la danza della tue ali. Se solo potessi sfiorarle, ti delizieresti della loro incomparabile morbidezza, poiché con sé portano l’attesa dell’alba e i sogni del tramonto.
Come nunzio di favole dimenticate, lascia che l’astro della luce risvegli in te l’anelito di una terra vergine ed assopita, il cui nome è Sibir. Un’immensa distesa a est del cuore, da sempre in attesa di quelle promesse che il cielo ci ha sottratto, ma che le nebbie del ricordo gelosamente cullano. Avanti, non temere il candore delle nevi o l’ebbro profumo delle primavere: anche tu ne sei figlio, benché non ricordi. Noi tutti vagheggiamo tardive avventure e pronunciamo parole inaudite, ma possiamo davvero condannare la felicità del folle? Non c’è più nessuno con cui ballare ora e il proscenio è lontano, quasi quanto gli anni perduti: non ci resta che muovere passi audaci sulle tegole del mondo, esclusi per sempre dalla stanza in cui furono interpellati i nostri desideri, ridotti in fumo senza aver avuto neppur la gioia di ardere al sicuro; ma nonostante tutto, in volo verso le stelle…