"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

giovedì 31 agosto 2000

INTERAIL 2000



CONFESSIONI RUBATE AD UN FALSO CINICO

- Interail 2000 -


07.08.00 - Singen, h. 2.36 - frontiera svizzero-tedesca

"Okay ragazzo. E ora giù le mutande!". Anche se l'insolito comando fosse stato gridato da una coniglietta di Amburgo avrebbe ugualmente conservato un alone poco eccitante: non voglio dire che sia colpa della lingua tedesca, le cui asprezze richiamano barbari timori, ma ogni qualvolta si attraversa una frontiera si ha l'impressione di essere denudati sin nell'intimo. Ci si lascia alle spalle un mondo in sovrappeso e gli occhi tornano a riempirsi dello stupore di un infante.
Non ci si poteva dunque augurare inizio migliore per un viaggio che si è proposto di violare il sacro velo di Sais. Come se davvero esistesse un simulacro della Verità, alla quale pervenire per nettarsi dagli sputi del quotidiano e per soddisfare la nostra inguaribile sete di assoluto…
Cerchino pure gli equini poliziotti nello zaino di un profugo dell'esistenza, domandino di vizi illeciti o di viaggi proibiti, forse capiranno di essere prigionieri delle proprie mura. Fatuo fuoco nell'oscurità, la caserma di Singen si illude di trovarsi alla deriva di due mondi, per quanto essa stessa sia l'origine di ogni divisione. E mentre si paventa l'arrivo dello straniero, mentre si teme che l'altro faccia capolino nell'identico, ecco una graziosa passante che si intrattiene sui bus della discordia, narrando di ibridi incroci e matrimoni colorati. La ricerca della purezza è condannata all'utopia, né d'altra parte le linde strade invogliano la coscienza a farsi specchio di sogni distorti, perché nessun netturbino riuscirà a lavare il fango che incrosta i vitrei grattacieli della perplessità. Fortuna che ci sarà sempre un treno per fuggire, un anonimo treno che ci regalerà parvenze di libertà, sebbene le monotone rotaie abbiano tracciato già da secoli i sentieri della storia.
Quale stupore se alla fine ritroveremo la medesima stazione da cui un tempo levammo vela: ma a quel punto, chi sarà davvero cambiato? L'occhio ormai stanco del viaggiatore o la calce rigonfia per gli sbuffi della noia? Questo il quesito che si staglia sulle porte sbarrate di una stazione di periferia.

08.08.00 - Hamburg, h. 1.13 - tavolino unto della Grosse Freiheit

E' inutile. I Tedeschi non sono capaci di essere trasgressivi neanche quando venga loro concessa la facoltà di respirare senza briglie. Nel quartiere di St. Pauli sono ospitati più cinema a luci rosse e locali per spettacoli osé di quanti in realtà punteggino il candido volto di Amsterdam; eppure di quest'ultima manca l'ironia, l'ammiccare con lascivia all'ombra del sacro, lo sberleffo inflitto al finto pudore, ostentato con gaudio e giocosità. Qui il vero Fuehrer è il tempo: ogni minuto è prigioniero senza riscatto, ogni prestazione si perpetua stanca nel suo intransigente rituale, nessuno può improvvisare o credere di intrecciare un'orchidea maculata nell'occhiello del giudice attempato. Guai lasciarsi sfuggire un bacio. Una ragazza sorride? Orrore, ha infranto la Regola! Ci si abbandona alle spire del piacere? Signori, che scandalo! Fortuna che siamo a St. Pauli…
Ma dov'è mai lo scandalo, dove si cela questo enigmatico tabù che accappona la pelle di chi può solo ardere di desiderio e vivere di smodata brama? Torniamo a sfamarci di stile, che il capriccio estetico ingentilisca ancora i nostri cuori - e soprattutto i nostri occhi. Né ci si dimentichi di aggiungere al salino un chicco di grazia. Non importa se ci smarriremo fra le sinuose curve della leziosità: in fondo, solo lì le dita paiono ali di farfalle ed i corpi giaguari ansimanti. Allora un singulto sarà davvero un frammento di verità sottratto alla morsa di Crono e le labbra torneranno ad essere la culla dei nostri sogni, finché il domani - pavoneggiandosi fra i suoi lustrini - potrà sentirsi giovane come ieri.
Balla, leggera Nancy, balla senza vergogna, perché sul palco soffuso di rosso va in scena ben altro spettacolo, dietro le serrature a tempo si nasconde solo inquietudine ed il vetro che ti separa dal mondo dei dannati è ormai dissolto dal silenzio dei sensi.


09.08.00 – Krasnaija Ploscjad (Piazza Rossa), h. 10.27 - piastrella del rivoluzionario

Il bisogno del sacro esula dal mero ambito religioso per insinuarsi in modo inconscio nei mausolei della stupidità. Cassandra è ancora viva, dal momento che la morte del socialismo reale era già stata proclamata con la feticizzazione del compagno Ili'c: il grande padre riposa risoluto all'ombra della storia, avvolto in una bandiera che dovrebbe essere sventolata sulle piazze e non consegnata alle reliquie di un'illusione.
L'uscio defilato che introduce nel cuore del secolo è in realtà la porta d'accesso al nostro lato oscuro: qui non echeggiano parole, qui non occorre pensare. Solo la forza delle immagini e della suggestione risveglia primigeni appetiti nel nostro talamo; ma quanta ostinazione, quanta resistenza viene opposta all'emancipazione dell'uomo! Prigionieri di geometrie statuarie, chiusi nella perfezione delle prospettive, siamo sconvolti ed inebriati dalla folle danza di una bandiera che si agita scomposta sul suo prezioso cappio. Come appare assurda la coda ordinata di pellegrini secolari, che avanza a capo chino con un'Olympus nascosta fra le mutande, pronta ad eludere il dovere, ma già inerme schiava di se stessa. Dove corre questa massa atomizzata, cosa ambisce scrutare nella vagina del mondo? Là dentro non alberga un uomo, non giace il rivoluzionario che fece rabbrividire persino le fiammelle delle candele ed esaltò i fuochi dei cannoni. Niente di tutto questo.
Solo una figura gelida che riflette l'attonito stupore di turisti da fast-food. Non si può parlare a chi non ha orecchie: per questo la salma è muta, per questo le sue labbra si offrono beffarde, per questo i suoi occhi celano le porte del paradiso. Avete sbagliato strada: tornate in piazza è lì troverete una piastrella di granito che attende il vostro passo pesante. Si può agguantare il sole o carpire una libellula, ma oggi irretisce solo lo scintillio di un'immagine al neon.

10.08.00 - Prospettiva Mira, h. 23.58 - riflessioni su un muretto di fortuna

Nell'osservare un taxista russo, mentre sostituisce la ruota bucata del suo relitto spillasoldi, si dispiegano secoli di storia immutata. Non ha importanza se la pioggia solleva l'afa dell'esistenza dall'asfalto sfregiato, né infastidisce la maleducazione di automobilisti che corrono nei gorghi dell'anonimia metropolitana. Per sostenere il peso della delusione si è sempre cercato un cric di fortuna: la vodka, lo sputnik o la rivoluzione. Alla fine ciò che conta è che la ruota di riserva sia tonda e senza buchi da cui l'immaginazione spiri il suo ultimo afflato. Perché davvero indecifrabile appare questo popolo, pronto a calare una maschera dietro l'altra, disposto a privarsi di tutto pur di conservare una briciola di speranza.
Sul fondo della botte rimane tuttavia un sedimento d'orgoglio ancestrale che si manifesta nei mugugni della lingua o nell'indomita ironia che fa il verso all'Occidente. Le vie dell'Arbat sono un crogiolo di volti ed identità, dove le cabine telefoniche a gettoni paiono quasi uno scrupolo morale infisso nella coscienza di cittadini senza patria: esiste un orizzonte che solo la moneta disvela, ma è qualcosa di remoto e fugace, qualcosa per cui non vale la pena spendere un sogno da quattro scatti. I confini sono così ben marcati che, paradossalmente, ciò che scaturì dalla contingenza di un capriccio si è oggi trasformato in dogma stantio.
Non occorrono visti per sperare, né bisogna dichiarare alla frontiera un chilo in più di entusiasmo, perché il destino del milite ignoto o del contadino affamato è racchiuso nelle urla del mercato popolare quanto nella campana del Cremlino, che invoca dalle quattro terre una dedizione poliglotta.
E a ben guardare, che differenza sussiste fra l'issare una falce nel cielo amaranto o custodire un'icona nel simulacro domestico? Basta che non si oda il pianto della fame; tirare avanti senza ambizioni, plasmarsi secondo gli spigoli dell'arroganza, mettere a tacere ogni voce che minacci la rottura dell'uguale.
In Russia il tempo pare solo un pellegrino che non trova requie nei monasteri zaristi, rifiutato e scacciato da una clessidra sempre più impolverata. La mediocrità è infine assurta a virtù e chi reclama è lo stomaco della necessità. Neppure un assiette di democrazia e consumismo riesce ad estinguere l'abitudine rassicurante. Non è forse un bene? Correre o fingere di correre valgono l'uno per l'altro quando ogni traguardo è assente e le nubi sono avare di perché: per lo meno vivere qui non è più una fatica. Solo una scommessa da puntare sulla roulette dell'hotel Rossija.

13.08.00 - Vyborg, h. 8.37 - struggimento compito

Chi scrive è un fallito o un malato immaginario. Kirkegaard stesso accusò la penna di nuocere alla salute. Per una manciata di ore, per poche lune imprendibili, un nuovo mondo ha fatto breccia nella vita di un don Giovanni da tre kopeki ossidati, lasciando intravedere tesori impertinenti. Di cui raccontare a nulla serve, se non ad accrescerne l'amabile nostalgia. Il futuro riposa nell'ambiguità, in una terra dove tutto è relativo ed ogni cosa appare seducente o intaccata dalle zampe di gallina solo a seconda di come brilla il sole dell'avvenire. In tal modo la rinuncia alla verità diviene presto sinonimo di vita: come spiegare altrimenti lo sguardo lucido di una selvaggia amazzone che torna sui suoi passi per catturare una preda esotica fra le sue braccia avvolgenti, mentre una voce sensuale sussurra alle orecchie dolci e sconosciute allusioni? In quali occhi invenire una conferma, quando ovunque arde il desiderio ed una scelta pare già una rinuncia? Già, l'assenza di regole esalta la vita, ne scatena il piacere più intimo, la trasporta dalle dolorose lande del dolore ad un limbo sospeso fra dannazione e beatitudine. Si dilatano gli spazi oltre le irraggiungibili fughe architettoniche. Dalle crepe trapelano amene storie. Il prestigio della tradizione si bea delle carezze del sole che, permaloso, coccola cupole dorate quanto il seno di una madre. Né la vita ha esaurito ancora la sua sete, perché i fiori e le verdure avvizziscono ai margini delle strade, ove il passato assiste impotente al corso degli eventi. E quanta, quanta malinconia nelle corde di un violino ucraino!
Nessun cerimoniale; aboliti i fronzoli dell'ipocrisia, la parola si ritrae nel corpo. La sinuosa danza di un giglio della notte può stregare sino agli sbadigli dell'alba, volteggiando intorno ad un enigma del quale solo occhi appassionati tralucono barlumi di verità. Ma mai toccare i tesori altrui, mai chiedere grazia sulla soglia dell'Olimpo: la bellezza è effimera quanto un sogno. Chi stringe i pugni può solo ghermire il profumo di qualcosa che non sarà mai più. Goodbye beautiful stranger…l'eco di un saluto sofferto si perde fra dolci labbra e biondi capelli. Il tempo di uno starnuto. La memoria di un nome. Anyuschka. Che beffa non sapere il russo!

15.05.00 - Jokkmokk h. 16.17 - bisbigli dalla foresta attraverso un panino alle erbette fini

Scattare fotografie è un atto di egoismo. Soprattutto in queste lande timide e silenziose, desuete alle meschinità cittadine. Osservando la macchina fotografica si prova quasi un moto di verecondia. A che serve rapire un brandello di foresta vergine, di larici ed abeti cresciuti spalla a spalla fra i rivoli lacustri? Che cosa alimenta la nostra sete di possesso, la brama di impadronirsi dell'intimità di un popolo che da secoli parla alle montagne ed insegue le sue promesse?
Nel balbettio scomposto iniziamo ad asserire che è per gli altri, che tutti hanno il diritto di conoscere le bellezze del mondo; ma non vi è forse una mal celata punta di vanità in queste parole? E quel dovere sotteso non è forse un'ipocrita violenza al gusto del singolo? Per favore, non facciamo inutile proselitismo.
La bellezza è un privilegio per pochi: assaporarla mentre si offre spontaneamente consente di scrutare negli abissi del divino. Una sua copia sbiadita ferisce la terra quanto l'aratro dei Sami: porta alla luce frammenti senza vita, recide il contatto organico con il tutto, quasi fosse possibile far proprio l'abbraccio di un ghiacciaio dalle serpeggianti morene o rubare un riflesso dalle paludi discrete. Ma si ascolti il vento narrare fra le canne antiche saghe di uomini senza radici, chiedete alle radici stesse di chi furono alimento e quali tesori invenirono nel cuore delle brume severe…l'odore del legno bruciato con l'alloro parla di libertà e schiettezza, non conosce compromessi e si bea della sua saggia ignoranza.
Eppure nel sonno dell'anima alberga un'inquietudine demoniaca: i filari si chiudono in una morsa asfissiante, la mano dell'uomo viene inghiottita dall'infinità degli orizzonti, le strade si perdono verso mete di cui solo le leggende testimoniano verità sepolte: è come se fossimo respinti dal grembo che ci ha partorito; siamo incapaci di riconoscere il seno da cui abbiamo sunto alimento. Il silenzio suona come un'offesa alla socializzazione, mentre le nubi basse occultano i sorrisi di chi non ha ancora trovato risposte. Per questo il gesto stesso di indicare una direzione assurge a rito di una comunità che si autocelebra nel banale. Non è forse questa la culla del nostro sapere, il rifugio delle nostre paure? Con quanta imprudenza ci affidiamo ai giochi dell'uguaglianza!

17.08.00 - Viking Line, h.19.32 - tramonto della riconciliazione

Cielo e terra sono due timidi amanti, molto permalosi - se l'uno arrossisce, l'altro si fa subito più scuro e sospettoso - ma fra loro indissolubilmente legati. E il momento in cui le loro labbra si sfiorano viene annunciato solo dal carezzevole riflusso delle onde, che spumeggiano di gioia e sprizzano scintille di piacere.
Il segreto della felicità è riposto nella leggerezza di quell'imprendibile istante: allora si può tornare davvero ad essere piume di gabbiano negli spazi tersi del Nord, ove le nuvole rigonfie di candore disegnano sublimi scenari di vette himalayane e blandiscono con le loro lunghe ombre i ludi della fantasia.
Sottrarsi ai cachinni ed alle fanfaluche non è semplice rispetto per la parola del silenzio, ma un tuffo nell'etere dell'infinito, la sospensione dell'essere nel fiore ormai sbocciato delle possibilità più improbabili. Non si sceglie di smarrirsi, ma è la furia stessa del vento che rapisce la nostra volontà, se ne prende gioco quasi fosse una semplice trottola dei desideri, la solleva dal torpore e la comprime nel nulla, finché io e mondo agguantano l'universo. Sarà la luce che accieca, sarà la violenza dei gialli e dei rossi purpurei, o semplicemente la perdita d'orientamento, ma nel volteggiare senza meta dilegua ogni senso e, come in sogno, la verità sboccia da un attimo d'assenza.
Peccato rimanga in bocca l'aroma di una scadente sigaretta al mentolo.

18.08.00 - Stockholm, h.14.46 - banchina dei meditabondi

Una marcia militare è quanto di più volgare possa offrire una capitale che si crogiola sull'acqua. Quant'è fastidioso il rullare dei tamburi per le vie dove dolcezza ed aristocrazia si sposano sorridenti al passo di bionde dee, mentre le voci si rincorrono lungo i vicoli della consolazione. Né severo può apparire il volto del corazziere, su cui secoli di candore hanno modellato bonarie smorfie: Stoccolma è una capitale paciosa ed attempata, con architetture simili ai fini capelli di un vecchio bevitore che non possiede neppure il diritto di vivere trasandato. Perché i bagni pubblici sono docce per la coscienza, in cui lo sporco della vita deve essere nettato ancor prima che qualcuno sia in grado di riconoscerlo, alimentando il panico nei zuccherosi salotti del Glamla Stan.
Guai se un biscottino da colazione risulta povero di burro: qui fa orrore persino la ruvidezza della farina grezza, mentre le luci vanno sempre soffuse per nascondere meglio le cicatrici del tempo: eppure, se il lume dell'intelletto non è soltanto una suppellettile da vetrina, presto disvelerà sfregi e storpiature, inusitate macchie e scandalosi rattoppi. Bisogna stare attenti alle avance delle trentenni. Non si sfugge al passato; lo schietto rutto di un ubriaco narra meglio delle guide digitali le origini della città, irretita da verecondia troiana, per quanto pervasa dall'odore di campagna. Basta gettare uno sguardo ai grotteschi balli improvvisati per le piazze, agli occhi stupefatti dai voltafaccia della vita.
E' vero, una croce dorata svetta sul blu della nobiltà, ma non ci si dimentichi che il pennacchio posa saldo a terra solo perché la sua fierezza non è che escremento cementato di piccioni. Ironia della sorte, l'odiato pennuto fu il piatto preferito dei progenitori dai cuori alati.

19.08.00 - Bergen, h. 19.58 - riflessi in una pozzanghera

I Norvegesi non hanno bisogno di ricorrere a sotterfugi per ottenere quello che vogliono. Non tanto perché sono discendenti dei fieri vichinghi; la qualità di un salmone o di uno sgombro paga semplicemente se stessa. Purtroppo è la moneta degli altri ad essere scadente e chi avverte odore di pesce avariato, non si accorge che l'olezzo della corruzione promana solo dal proprio corpo.
Riesce difficile credere che si possa guadagnare rispetto e considerazione fra pescivendoli e commercianti dalle corna ritorte, ma uno sguardo alle case in legno di Bryggen parla già dello spirito solidale qui svezzato: si stringono, si scaldano vicendevolmente, i sussurri delle finestre a una spanna di distanza celano illusioni spezzate. Lo straniero viene considerato come un naufrago, non importa se schernito dalla vita o dai rigurgiti del mare; in ogni caso è qualcuno che ha portato in salvo il bene più caro: solo su questo vale la pena scommettere.
Sarebbe stato concorde persino Pascal, in tempi in cui la dedizione religiosa trasuda fame di consumo. E, d'altra parte, non è l'esistenza una più nobile forma di baratto, che dispiega nuove possibilità proprio perché mai conclusa?
Nelle bettole attorno al porto un mozzo scaricato non si stanca mai di ripetere la sua saggia cantilena: siate liberi di scegliere qualunque cosa, purché alla fine non tremiate per l'ardore che vi ha spinto lontano dal fiordo, nel punto ove le acque divengono scure e le voci del mercato tacciono; né ci si scagli contro la malasorte, additandola come una donna dai facili costumi; si sa che la vita di porto non è un croissant, che si porta via con la stessa rapidità giovani speranze quanto il sole d'estate: ogni tanto conviene dunque chiudere un occhio di fronte alla perversa libertà che anima i fumosi pub del centro, nei quali la musica e l'alcool sono droghe per addolcire la solitudine dei taciturni, o semplicemente una via per non pensare agli allettanti ed irraggiungibili tesori custoditi oltre la spumeggiante cresta dell'ultima onda.
Ci sono scaglie di ghiaccio incastonate negli occhi degli abitanti di Bergen. I loro corpi sembrano talvolta intagliati nel legno odoroso dei pini cembri che, ogni giorno, fanno a pugni col vento dell'ovest; eppure basta porgere una tazza di schiettezza o un piatto di audacia per conquistare una palpata e cancellare la frustrazione di una vita intrisa di pioggia.


21.08.00 - Geile, h. 18.52 - problemi tecnici alla carrozza 72

Non è la sola poesia a risanare le ferite che l'intelletto apre. Il signor Fritz von Hardenberg era troppo oppresso dal proprio ego per apprezzare la ruvida violenza delle fenditure del ghiaccio, le sue rughe centenarie, o per consolarsi con la vista di un terrapieno nel bel mezzo di lande desolate. Il piacere dell'abbandono consiste proprio nell'obliare se stessi, nel lasciarsi trascinare dal vuoto degli spazi e della demenza critica: è sufficiente rimanere sospesi sulle ali dell'evento, come se il manto erboso che riveste i tetti di scarlatti rifugi fosse destinato alle altezze di Lilliputh, come se l'avanzata dei ghiacciai si fosse arrestata ad un soffio dai dorati riflessi lacustri e qui costretto a giacere per sempre, stillando lacrime di mancate promesse. In fondo, non è già testimonianza di una morte prematura la lingua morenica circonfusa dal torpore dell'istanza? Non è forse la granitica impassibilità delle panoramiche a disvelare il piacere del non essere?
L'uomo può seguire una strada molto semplice per sfuggire ai miraggi del divenire: sollevare il velo della prassi dai propri occhi, lasciarsi inondare dall'ebbrezza del puro sentire, quasi l'intimità con la natura e quindi il superamento di ogni dualismo nascesse da un accoppiamento erotico senza pudori, dove il calore della luce possiede la stessa carnalità dei venti indomiti. Immergersi di nuovo nel buio grembo materno, ovvero raggiungere la pace dell'inorganico, non comporta alcuno sforzo, né ci condanna ad altri dolorosi travagli: farsi violentare dall'essere coincide col suo stesso annientamento. Viene semplicemente fecondato dalla nostra ostinazione, al di là della quale non vi è che la statica puntualità dell'istante.
Non occorre pensare ad un susseguirsi di adombramenti, né - difatti - le ombre che calano sulle dune innevate del Sognefjord, o fra le sue verdi gole che neppure il sale marino riesce a compiacere, paiono blande carezze; ma l'estasi sboccia nei brividi della sorpresa, esplode con la grazia attutita dell'incanto.
Fra queste piane rocciose ove le acque, i licheni e i salmoni affumicati appesi a nodosi pagliai si contendono le moine dell'uomo, deve esserci certamente lo zampino beffardo di qualche troll: posso così credere di divincolarmi dalla stretta delle montagne grazie alla premura di un treno, posso così salutare le fronde scomposte, ma di sottecchi è la cornice stessa che si sta muovendo, che rotea ormai folle in una magica danza, affinché la mancanza di senso maturi il senso della mancanza, nella coscienza che l'essere alberga solo là dove l'uomo si perde per mai più ritrovarsi.



23.08.00 - Hildesheim, h.20.40 - gradino filosofico

Mai avrei pensato che la fine del mio viaggio scaturisse d'improvviso da una telefonata presso una cabina maleodorante di Hildesheim. Due minuti di compito silenzio, riflesso fedele delle strade tedesche dopo l'ora di cena, quindi il panico delle mille possibilità, infine il sorriso di chi getta la spugna. Sta bene così, come già sbuffò il pacato Kant: non ci si poteva aspettare soluzione più coerente vista la pazzia degli inizi. E poi, quale strana coincidenza risolversi per l'addio nella città più intima della Germania, fra chiese millenarie avare di parole, ruvide come le pietre bianche da cui sono sostenute nel peso dell'esistenza, malinconiche perché incapaci di sottrarsi agli ultimi baci del sole senza stendere uno scuro cruccio sull'intero abitato.
Nel cercare il punto in cui i fili potessero sciogliersi, a poco a poco si è intrecciato un nodo ancor più stretto: non uno, a dire il vero, ma decine e decine. Come se ogni risposta non potesse far altro che rimandare alla successiva, elargendo un distinto commiato alquanto simile ai campanilistici cartelli gotici che tempestano le cittadine della Bassa Sassonia.
Da Lueneburg a Celle, da Goslar ad Hildesheim, la storia non ha seguito il corso del Reno, ma si è frammentata in case di mattone cotto e in vie dal respiro affannoso, in un ironico gioco di prospettive e rimandi che moltiplica i volti del viaggiatore, tante volte quante furono le alleanze ed i voltafaccia fra gli uomini del Nord, malleabili come i salsicciotti speziati di Norimberga. Vi è addirittura qualcosa di surrealistico nel modo in cui le travi di legno si incurvano o le peonie si afflosciano nelle onnipresenti aiuole: la scoliosi sentimentale non è però una buona ragione per abdicare. Perché purtroppo, o per fortuna, siamo condannati alla fatica di Atlante.
Dunque un nuovo punto di domanda, che promana direttamente dalle labbra di chi ormai tace il futuro ed invita a riaprire le porte serrate. Se infiliamo gli spessi occhiali della storia dobbiamo concludere dicendo che dalla polvere e dalle macerie è pur sempre rinato un uomo più forte. Ed anche se non fu lo stesso, non tardò a divenire il medesimo. Federico Guglielmo avrebbe gridato: due passi avanti ed uno indietro! Bisognava arrivare in un'appendice di Prussia per capirlo…

Appendice: perché non riesco ad essere cattivo

Bisogna sentire il sangue acido per sferzare il volto di un santone napoletano e per pungerne l'obesa coscienza. Purtroppo la mediocrità riesce a trasformare la rabbia in consolazione, dicendo: avresti potuto, forse, ma a quale rischio? A quali condizioni? Guarda come crepita il camino di casa, non è forse meraviglioso osservare una donna anziana mentre tesse una calza di lana? Appunto, uno spettacolo per tizzoni bruciati, per gente che non ha più carbone nel fondo dell'anima, forse perché ormai certa di averne lavato lo sporco con la rinuncia o perché invaghita dalle giocose debolezze che ostenta ogni aspirante filosofo, tanto simile agli equilibristi di un circo itinerante.
Che beffa, poi, scoprire piccola la calza intessuta con sì grande pazienza, del tutto inadeguata ad un piede che nel frattempo si è tagliato sugli scogli ed è stato ricoperto dalla sabbia dei deserti.
E perché una calza, anziché un berretto? Quasi si avesse paura di portare un po’ di calore al proprio cervello, inebetito dalla certezza di vivere - malgret tout - nel migliore dei mondi possibili e dalla pingue soddisfazione di aver fatto qualcosa di concreto, qualcosa che vale al di là delle parole.
Bah, tutto sommato pare migliore la compagnia di un avventuriero cacciapalle di Roma, che non ha la pretesa di prendersi sul serio, quanto di trattare la vita con l'ironia dei commilitoni a cui duole sempre e solo lo stesso membro.
Gira e rigira, alla fine ci siamo arrivati. Convinti? Ebbene sì: conviene viaggiare con la speranza di perdere ogni treno, accanendosi sulla logica del definito sino all'ossessione. Solo così riusciremo a straziare le nostre aspettative o a riscoprire nella nostra amante cento volti e cento ancora, pavoneggiandoci in tal modo di aver sedotto bellezze esotiche, senza accorgerci di aver stretto in pugno solo la penna appiccicosa di un piccione viaggiatore. E dove sarà mai volato il teppista pennuto, colui che se ne infischia delle guide del Tci? Non è forse questo lo stimolo migliore per rimettersi in discussione? A che sarebbe servito costruire castelli di fronte alla rabbia degli oceani? Già Lessing l'aveva detto: fra la verità e la sua spasmodica ricerca conviene scegliere quest'ultima. Per lo meno avremo l'illusione che essa esista ancora.