"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

giovedì 18 dicembre 2008

LA VALLE INSANGUINATA




Se solo ne avesse la possibilità, saprebbe per certo dove scappare. Anche a costo di attraversare a nuoto il mare di Flores, percorrendo chilometri e chilometri sino a crollare esausto al suolo. Dovesse andargli bene, già a Bali potrebbe incontrare qualche hindù dal cuore d’oro, pronto a venerarlo come un dio. Ma l’India! L’India! Basta il semplice nome per farlo tremare di gioia e spingere la sua coda a roteare vorticosamente come l’elica di un elicottero. L’India resta il suo sogno proibito, la terra promessa, il ricordo annebbiato di un’epoca remota di cui forse i soli Antenati potrebbero narrare senza titubanza alcuna.



Laggiù nessuno si permetterebbe mai di alzare contro di lui il terribile la’bo, il coltello sacrificale che con un sol colpo ne reciderà la giugulare, lasciandolo a soffrire, per interminabili minuti, in un lago di sangue: i suoi occhi allucinati, proprio come le narici dilatate, urlano lo stesso disperato appello, mentre s’agita tentando di scardinare il palo cui l’hanno costretto: “Cosa vuoi che m’importi d’essere il protagonista di una cerimonia funebre nella valle di Toraja? Credi forse che i colorati orpelli con cui ornano le mie corna e le pacche sulla groppa siano sufficienti per domare la mia bovide esuberanza? Lasciami vivere, ti prego! Lasciami affondare ancora, per un giorno almeno, nei freschi fanghi delle risaie! Legami al collo dieci aratri, mettimi in spalla venti bambini dal sorriso ingenuo, ma risparmiami! Salvami!”.



Non smetterà di rimproverarti la sua fine sino all’ultima stilla di sangue. Lì, tramortito al centro del “rante” sacrificale, fra muggiti strazianti e spasmi irriflessi, mentre l’odore acre della morte inonda i polmoni e spande pace nei cuori dei trapassati. Così è da secoli e così continuerà ad essere. Da quando un orpello di proto-malesi lasciò 25 generazioni fa le terre che si estendevano dalle propaggini orientali dell’India alle paludi cambogiane, sull’isola di Sulawesi le antiche tradizioni non hanno mai smesso di perpetuarsi. Proprio perché figli d’immigrati, giunti al centro dell’arcipelago indonesiano a bordo delle veloci imbarcazioni “lembang”, i Toraja si sono attaccati ai propri costumi originari sino a divinizzarli, a tal punto che la loro vita quotidiana altro non è che un continuo confrontarsi con la Legge degli Antenati (“Aluk Todolo”, in lingua locale). Un indifesso sottostare all’ostinazione dei tabù, nel timore di macchiarne la memoria ed incorrere nel loro infausto rancore.



Per certi versi ricordano quasi gli Etruschi, dal momento che ogni loro attività viene svolta solo in funzione del trapasso, lasciando che la morte vigili attenta in ogni istante del giorno e della notte. Come loro, hanno tombe e necropoli disseminate un po’ ovunque: scavate nel tronco degli alberi, dove seppelliscono i bimbi deceduti prematuramente e fanno scongiuri affinché i prossimi nascano robusti come piante; sospese su rami o affioramenti, in modo tale che il pallore delle ossa in vista rischiari le ombre dei bambù e ricordi che nessuna bara può nascondere per sempre un morto; o ancora scavate nel cuore della roccia, terrazze da cui s’affacciano inquietanti tau tau, le effigi in legno dei parenti che furono, dagli occhi eternamente sbarrati e vestiti di setosi ikat.



Rari sono i luoghi in cui tanto forte appare il contrasto fra la visione tragica della vita e la dolcezza assoluta del paesaggio, costellato di ridenti risaie, cristallini ruscelli dove le donne cantano ancora durante il bucato, così come da vette smussate che sfiorano però i tremila metri d’altezza, o da piantagioni di pregiatissimo caffè, il cui intenso aroma immancabilmente accompagna di villaggio in villaggio.





Eppure, dietro i mansueti sorrisi di un popolo dalla pelle bronzea e dalle voce ovattata, si nasconde ancora l’animo fiero delle prime tribù che qui si fecero spazio fra il fiume Sa’dan ed il monte Vagina, così chiamato per la sua impressionante forma cava, che spinse a considerarlo un sito sacro dove riaprire il ciclo della vita. I Toraja hanno infatti conservato il gusto per canzoni e danze marziali, che spesso si intervallano ad esibizioni di tono assai più melanconico, mescolando l’intraprendenza degli antichi conquistatori con l’inevitabile nostalgia per la terra perduta (la loro migrazione fu probabilmente causata dalle rovinose incursioni nomadiche antecedenti la fondazione dei grandi imperi asiatici).



Dai nomi paiono somigliarsi tutte: c’è la Ma’badong, la Ma’randing, la Ma’katia o la Ma’dondi, ma ognuna di esse segue un ben preciso rituale, dove alle voci melodiose delle donne rispondono le urla potenti degli uomini, con tanto di aleggianti corone di piume e corna in testa, lasciando che l’ipnosi dei tamburi scandisca le volte dei danzatori in cerchio. E’ in queste occasioni, quando gli animi s’inebriano di vino di palma e fumo kretek (inalando un tabacco aromatizzato ai chiodi di garofano), che può capitare d’assistere ai tipici combattimenti di Sisemba: sorta di kick-boxing locale, durante cui singoli o squadre si affrontano sino al totale stordimento dell’avversario, con calci volanti e violenti cariche, che portano spesso alla frattura degli arti. Analogamente a quanto accaduto per i furiosi scontri fra bufali o galli, sono stati “ufficialmente” banditi dall’ormai lontano 1981, non solo a causa della loro crudezza, ma altresì per il lucroso giro di scommesse che porta spesso questo popolo di semplici coltivatori di riso sull’orlo del lastrico.



In realtà l’organizzazione sociale dei Toraja poggia su basi molto solide, dal momento che il “gotong-royong” – ovvero il dovere della comunità di aiutare gratuitamente il singolo in difficoltà – resiste alle spinte centrifughe del libero mercato indonesiano, tanto da esser stato riconosciuto dal presidente Megawati Soekarnoputri (in carica dal 2000 al 2004) quale uno dei pilastri fondamentali dell’immensa nazione asiatica.
La dimostrazione più vivida si ha proprio in occasione dei grandi eventi della vallata, come i funerali o le cerimonie propiziatorie, che hanno sempre luogo fra i mesi di maggio ed ottobre, in coincidenza col periodo di raccolta del riso e il concludersi della stagione secca.



Trattandosi di celebrazioni d’ampia risonanza corale, destinate a protrarsi anche per settimane intere, la famiglia del defunto è tenuta ad allestire almeno tante abitazioni, quanti più saranno gli ospiti in arrivo: poiché il funerale resta però aperto a chiunque voglia onorare il parente scomparso, offrendo un pacchetto di sigarette o qualche dolciume da condividere con gli intervenuti, le risorse da mettere in campo sono spesso al di sopra di quanto ci si possa permettere. Chi non ha risparmi sufficienti per edificare nuove “tongkonan”, le abitazioni tradizionali il cui tetto arcuato richiama la forma delle antiche navi dei Toraja (o per altri le corna dei bufali), viene prontamente aiutato dai vicini; queste incredibili case sono costruite in modo tale da poter essere anche facilmente trasportate da più uomini, cosicché spesso vengono trasferite da un villaggio all’altro a mo’ di lussuose roulotte, dov’è tranquillamente possibile pernottare.



Le tongkonan sono forse il simbolo più popolare delle comunità toraja: vengono disposte in modo tale che ad un’abitazione corrisponda sempre un magazzino per il riso, di forma analoga ma più piccola, poiché nella visione cosmologica tradizionale questi va ad incarnare il principio femminile (è il luogo che “alimenta e conserva” la vita), inevitabilmente correlato a quello maschile (la casa è il luogo dell’azione, del fare). Sono generalmente raccolte in gruppi di 9 o 11 unità, le più antiche vantano tetti rivestiti in bambù (come nei villaggi-museo di Kete Ke’su o Palawa) e, grazie alla loro disposizione, definiscono una cardinalità sacra, funzionale alla diversa tipologia delle cerimonie: quelle legate alla felicità trovano posto sul lato orientale delle tongkonan e sono celebrate sino a quando il sole non raggiunge lo zenith; gli eventi infausti sono invece commemorati sul lato occidentale, a cavallo fra il pomeriggio e la sera. In sostanza disegnano un microcosmo che, sia nella disposizione che nella forma, punta a creare una correlazione col macrocosmo universale: il tetto, protendendosi verso il cielo, simbolizza l’anelito al paradiso, mentre i pilastri di fondamenta sono l’asse di giunzione con la terra ed il mondo inferiore, dove restano prigionieri gli spiriti degli antenati ai quali non è stato tributato il funerale.



La paura d’incorrere nella vendetta degli avi spiega perché le cerimonie funebri finiscano per assorbire la maggior parte delle ricchezze prodotte dalla famiglia: qualunque cosa sacrificata al defunto lo accompagnerà e lo renderà sereno nell’Oltretomba, evitando al contempo che un eccesso di beni materiali spinga i viventi ad occuparsi troppo degli aspetti materiali dell’esistenza, anziché operare per la salvezza della propria anima. Tutt’al più l’altezza dello status sociale viene ostentata impilando quante più corna di bufalo possibili sul fronte dell’abitazione, oltre che preservata da una rigida ripartizione della comunità in quattro caste, che ancor’oggi tradiscono le remote origini indo-asiatiche.



Considerato l’enorme valore che un bufalo ricopre nell’economia domestica, tanto più se di bianco vello (il rapporto di valore con uno scuro è di 10 a 1), a pagare le conseguenze peggiori della Legge degli Antenati sono spesso i maiali, sacrificati in gran quantità e in grado di sfamare molto meglio gli ospiti della cerimonia. Certo a loro va peggio che ai bufali: nati nel più popoloso paese islamico dell’Asia, hanno avuto la sfortuna di ritrovarsi nell’unica vallata dove la parola di Maometto non è riuscita a scalzare la buona novella di Cristo.



Palpiti e lacrime salate. Strette al cuore e sguardi lucidi. In queste inusitate mattanze finisce per risvegliarsi inevitabilmente un senso di pietas universale che, di fronte al morboso assieparsi di obiettivi assetati più di sangue che di credo, fanno pesare la macchina fotografica quanto il fucile di un cacciatore. Forse sono le anime dei morti a chiamare. Forse soltanto gli scenografici sentieri montani di Lokomota e Batutumonga. Comunque sia, pare sia giunto davvero il tempo d’allungare il passo lassù. Di svanire liberi e leggeri fra nuvole vaporose. E grugniti di nomade felicità.



SIMBOLOGIE NASCOSTE



Per ora se ne contano ufficialmente 150. Ma non è escluso che, osservando attentamente le pareti delle tongkanan, o qualche incisione rupestre nella valle di Toraja, si riesca a scoprire qualche nuova e segreta simbologia taumaturgica. I disegni più facilmente distinguibili sono senza dubbio quelli legati al mondo animale, come il kottek (l’anatra), l’asu (il cane) o il tedong (il bufalo), ma dietro gli intarsi più complessi e le caleidoscopiche geometrie che impreziosiscono gli ambienti di vita locali, si cela in realtà un linguaggio antico di secoli. Ognuno di essi evoca infatti un elemento della natura indispensabile al raggiungimento dell’equilibrio nell’esistenza umana e, più varia è la composizione delle simbologie, maggiore sarà l’armonia del nucleo familiare che ne assorbe i benefici influssi: ad esempio, una sequenza di quadrati barrati da “x” interne – simili all’impronta di una zampa di pollo - sta a significare “vivere con dieci dita”, ovvero vivere con i piedi per terra, della forza del proprio lavoro. Le sinuose linee che ricordano il fiore di papaia servono invece a preservare l’abitazione dalla malaria, visto che le sue foglie sono appunto utilizzate nella medicina tradizionale per curarsi dalle pericolose punture delle zanzare. E ancora: l’accostamento di più svastiche, croci uncinate che possono “incastrarsi” fra loro solo in condizioni ben precise, ricorda che nella vita occorre usare sempre molta prudenza nell’instaurare relazioni personali, soprattutto quando si è chiamati ad agire come terzi nella risoluzione dei problemi altrui. Imparando a leggere questi piccoli frammenti di saggezza popolare, divenuti nel tempo uno degli elementi più caratteristici dell’artigianato toraja (oggi si vendono in particolare sotto forma di piastrelle, decorazioni parietali in legno, sottobicchieri o stampe da collezione), è così possibile riscoprire usi e costumi più tipici delle popolazioni di centro Sulawesi.

I POTERI DELL’IKAT



Fra le tante tecniche di lavorazione dei tessuti presenti in Indonesia, quella dell’ikat è fra le più antiche e misteriose. Originaria delle isole centrali dell’arcipelago, indica letteralmente l’azione del “legare” o “intrecciare”, trattandosi di uno stile di tessitura che impiega un processo di tintura resistente, attraverso cui i fili di cotone o di seta guadagnano spessore e danno così modo di comporre trame estremamente complesse. Il tessuto di fattura più raffinata risulta il “doppio” ikat, perché unisce di fatto due differenti strati (la base e la trama), i cui motivi variano sempre di regione in regione, esibendo una rete di disegni reputati “magici”. Simboli di status, di ricchezza, ma anche di prestigio e potere, gli ikat sono stati utilizzati nei secoli per contraddistinguere una persona o un nucleo familiare all’interno della società, a tal punto che la particolare tecnica ideata per la creazione di un singolo pezzo viene ancor oggi gelosamente custodita. In virtù della complessità di realizzazione e del lungo tempo richiesto per ottenere il prodotto, la popolazione locale ha così finito per pensare che questi tessuti nascano da un singolare intreccio di abilità tecniche e formule sacre: non è infatti raro riconoscere negli ikat il disegno di tau tau protettori o elementi zoomorfi cui si attribuiscono poteri speciali. Il modo migliore per avvicinarsi ai segreti di questa splendida arte consiste nel visitare il centro di tessitura presente nel villaggio di Sa’dan, dove l’antica tradizione toraja viene mantenuta in vita da vispissime vecchiette, pronte a realizzare su commissione l’ikat più adatto alla personalità e alla storia dell’eventuale visitatore.

IL MIGLIOR CAFFE’ D’ASIA



Chiamato un tempo “kalosi kopi”, dal nome della località che tuttora vanta il maggior numero di coltivazioni (ubicata circa 25 chilometri a sud della valle), il caffè di Toraja (www.torajacoffee.com) gode di un’altissima reputazione ben al di là dell’isola di Sulawesi. Grazie ad una concentrazione d’acidi particolarmente bassa, favorita dalla crescita del caffè ad alta quota, ma in clima equatoriale, il suo aroma è fra i più intensi al mondo, tant’è che può essere avvertito sino a 20 metri di distanza. Una caratteristica che ne sancì il successo sin dalle prime esportazioni avviate dalla Compagnia olandese delle Indie Orientali, che favorì la produzione in loco a partire dal 1600, nel tentativo di spezzare il monopolio arabo di mercato. La selezione dei chicchi risulta particolarmente ferrea, dal momento che vengono utilizzati solo quelli di diametro compreso fra i 6.8 ed i 7.5 millimetri, senza apportare alcuna correzione di miscela. Il caffè di Toraja viene fra l’altro coltivato in foreste protette e, grazie ad un progetto umanitario lanciato dall’associazione “coffee kids – grounds for hope”, i proventi derivanti dalla vendita delle sue tipiche scatolette in legno intarsiato sono oggi destinati al supporto dei bimbi indonesiani più poveri. Esteticamente i chicchi locali si distinguono per un colore meno scuro del caffè classico, ma non per questo hanno un sapore più tenue. Anzi. I chicchi semi-lavati e non eccessivamente tostati sono appunto quelli che garantiscono aromi corposi. Per mere ragioni d’immagine, in Occidente sono però più facilmente vendibili caffè dall’aspetto scuro e pulito.

RISTORANTI



RIMAN RESTORAN
Situato sulla centrale Jalan Andi Mappanyukki, a Rantepao, serve sia piatti di tradizione toraja che di cucina asiatica, ma è anche il punto di ritrovo preferito per tutti gli appassionati di rafting sui torrenti della vallata. Fra le specialità imperdibili, un piatto a base di riso nero con blocchetti arrostiti di carne di bufalo e verdure al vapore. Prezzi a partire da 3 euro per portata.

WAE RAMBUNG
Sul bivio che collega Rantepao a Kete Ke’su s’incontra un padiglione di legno affacciato sui campi di risaie, dove naturalmente le portate principali sono a base di riso fritto o bollito, servito in aromatici tronchetti di bambù, con mix di carne speziate e piccanti. A partire da 4 euro.

SAD’AN RESTORAN
Ricavato in una tongkokan a fianco del noto laboratorio di tessitura di Sa’dan, questo piccolo e familiare ristorante è gestito da una signora originaria di Makassar, che ha saputo fa apprezzare le virtù del pesce in una cucina votata quasi esclusivamente alla carne. Tipico è il Konro, servito grigliato e marinato con salse molto piccanti. Piatti a partire da 2 euro.

ALBERGHI



PIA’S POPPIES HOTEL
Situato a circa un chilometro a sud di Rantepao, immerso nelle risaie, questo piccolo hotel incanta per gli arredi tradizionali delle camere, i tanti arazzi appesi alle pareti e rilassanti acquari. Singole a partire da 4 euro.

HOMESTAY KALEMBANG INDAH
E’ una delle rare sistemazioni nel piccolo villaggio di Sangalla, d’ambiente molto familiare e senza grosse pretese, ma come quasi tutte le soluzioni private molto pulita e confortevole. Le tariffe di pernottamento, inclusive dei pasti, non superano i 5 euro.

IKAT HOMESTAY
Rivolgendosi al centro di tessitura di Sa’dan, cordiali vecchiette possono mettere a disposizione le tradizionali tongkanan del villaggio, per pernottamenti in tipico stile toraja. Le abitazioni non sono spaziosissime, ma dormire su morbidi materassini che vantano ikat tessuti a mano al posto delle lenzuola non capita tutti i giorni. Poco più di 3 euro a notte.