Libreville –
Lo conoscono tutti come Tata-yo, ma il suo vero nome è Hugues Obiang Poitevin.
Un po’ antropologo, un po’ sciamano, a vederlo sembra il fratello gemello di
Keith Richard, il dinoccolato chitarrista dei Rolling Stones che in vacanza
precipita dalle palme, ma il suo accento nasale è fuor di dubbio francese.
Rotolato nelle umide foreste del Gabon sul finire degli anni ’70, è il primo
viaggiatore occidentale che ha dischiuso alla pianta sacra dei Pigmei gli
orizzonti di un business farmaceutico dai risvolti sempre meno underground: organizzando spedizioni fra
le più remote tribù dell’Africa equatoriale, ma promuovendone anche usi e
costumi attraverso l’associazione culturale da lui fondata (www.ebando.org), oggi Tata-yo è un punto di riferimento anche e soprattutto per
gli health travellers. Turisti all’ultima
spiaggia che, ormai a decine, arrivano ogni anno in Gabon attratti dalle
misteriose virtù di un arbusto magnoliopside stracolmo di alcaloidi.
(Per consultare la versione dell'articolo sintetizzata sul quotidiano Lettera43,
Farsi
iniziare alla Tabernanthe Iboga
rappresenta infatti un’eccezionale opportunità per disintossicarsi da qualunque
dipendenza. I risultati sono sbalorditivi: basta ingoiare dai 300 ai 400 grammi
di scorza di radice e, in circa 24 ore, i peggiori incubi svaniscono per sempre.
Eroina. Cocaina. Nicotina. Alcool. Poco importa quale sia la droga che abbia
velenosamente sedotto: promuovendo l’ossigenazione dei muscoli attraverso i
globuli rossi del sangue, non solo l’iboga dispensa un effetto tonificante, ma “ripulisce”
il cervello.
Il suo
comportamento è analogo a quello della serotonina, prodotta dall’uomo stesso
come neurotrasmettitore della calma e del benessere, concentrandosi soprattutto
nell’area del cervelletto e nella parte inferiore del corpo olivare, ovvero le
sedi che regolano l’apprendimento del movimento e l’orologio mnemonico. La zona
di maggior interesse per le cure riguarda però il sistema limbico, che
controlla il piacere e viene affetto dalle droghe procuranti dipendenza. Nel
favorire la diminuzione dei livelli di dopamina negli spazi intercellulari,
l’iboga, come per magia, comporta un azzeramento delle sostanze additive
assorbite dal cervello e dà così modo di ricominciare la propria vita senza più
alcuna preoccupazione per gli “sballi” del passato.
“Magia è un
termine che dovrebbe mettere sempre in allarme i ricercatori farmaceutici –
osserva Fulvio Gosso, psicologo di formazione psicoantropologica e
vicedirettore della Società italiana per lo studio degli stati di coscienza
(Sissc) – ma di fronte alla complessità dei meccanismi d’azione e alla rivoluzione
commerciale che la pianta comporterebbe sul piano delle cure odierne, viene
accantonata spesso e volentieri. O, peggio ancora, declassata a droga allucinogena.
Benché negli anni ’60 si fossero già scoperte le sue proprietà terapeutiche, la
campagna statunitense di messa al bando delle sostanze stupefacenti ha finito
per colpire pure l’iboga, ostacolando una meticolosa ricerca scientifica sulle
sue sbalorditive proprietà”.
A sorpresa
l’Italia è uno dei pochi Paesi che non considera illegale l’ibogaina, ovvero la
principale molecola responsabile delle disintossicazioni, ma in assenza di
procedure riconosciute per il trattamento dei casi personali è quasi
impossibile ottenere assistenza presso le strutture sanitarie. Al di là dell’apertura
di qualche portale d’approfondimento (www.iboga.it, www.sostanze.info, www.samorini.it), l’informazione continua a latitare, agevolando quelle dubbie
cliniche private che, sparpagliate come funghetti tentatori fuori dall’Africa, non
chiedono mai meno di mille d’euro per trattamenti sperimentali. Non a caso, di
tanto in tanto, finisce per scapparci il morto, gettando fango e ombre su una
pianta che nel Continente Nero viene utilizzata da secoli senza aver mai avuto
conseguenze letali.
“La radice dell’iboga
non dovrebbe avere alcun costo – puntualizza Giorgio Samorini, il massimo
esperto italiano di etnobotanica – dal momento che, in Gabon, così come in
Cameroon o nella Guinea Equatoriale, è raccolta senza alcuna difficoltà nella brousse. Viene cioè considerata un dono
della foresta e, come tale, partecipato a chiunque la rispetti. Così vuole il
culto locale del Bwiti, fondato
appunto sulla conoscenza dischiusa dal consumo dell’iboga, ma anche l’usanza
tipica dei Pigmei. Già il fatto stesso di chiedere soldi per ottenere la radice
dovrebbe insospettire quanti vanno in Africa per assumerla: è segno che qualcuno
non rispetta il codice tradizionale, cercando di guadagnarci personalmente. Per
questo motivo il prezzo varia spesso in modo discrezionale: talvolta pochi euro
per acquistare solo un po’ di cibo e vestiario per il rito d’iniziazione, talaltre
addirittura migliaia”.
Analogamente
si comportano le cliniche private fuori dall’Africa, giocando più
sull’ingenuità degli assistiti che sugli effettivi costi della filiera: tanto
più che la radice d’iboga, in genere venduta a 25 dollari per 2 grammi,
dovrebbe essere consumata fresca per mantenere tutte le sue proprietà e in base
a quantitativi che solo i curatori africani conoscono esattamente.
L’alternativa “occidentale” è rappresentata dalla somministrazione diretta di
cristalli d’ibogaina, l’alcaloide isolato dalle radici e somministrato in fiale
per via orale. Tenuto conto che le radici ufficialmente in circolazione sono
solo quelle donate dal governo gabonese per finalità scientifiche, l’iboga non
dovrebbe esser dunque quotata sul mercato, benché sempre più spesso venga trafugata
attraverso il Cameroon e la Guinea Equatoriale.
“L’approccio
occidentale - evidenzia lo stesso Tata-yo - non ha nulla a che vedere con la
sapienza tradizionale africana e le sue finalità. Fa uso dell’iboga in modo
desacralizzato e, a suo modo, distorto. I dosaggi della scorza d’iboga sono stabiliti
dal nganga, il sacerdote-curatore che
solo ne conosce i reali effetti, e la dispensa avviene sempre all’interno di
una cerimonia volta a coinvolgere sia la dimensione spirituale che fisica
dell’iniziato. L’assunzione di scorza di radice viene regolata a seconda delle
reazioni e delle risposte dell’iniziato, dal momento che l’iboga agisce sul
fisico intensificando la percezione dei sensi: scopo dell’iniziazione non è
quasi mai la cura contro le dipendenze, ma la rivelazione del Bwiti, la
conoscenza delle origini dell’uomo attraverso l’effettiva visione del proprio
passato e dei propri antenati. Si tratta di un percorso religioso che porta
alla morte rituale del soggetto ignaro del proprio destino, affinché rinasca a
una nuova consapevolezza: non serve infatti guarire il corpo, se non si opera
anche sulla dimensione psicologica”.
Conati di
vomito, forti convulsioni e atassia non fanno che mostrare l’azione purificatrice
della pianta sul corpo dell’iniziato, sempre presente a se stesso e, proprio
per questo, ben distante dalla tipica dimensione ricreativa o immaginifica di
certe droghe allucinogene. L’iboga non ha affatto un buon sapore, non è per
nulla piacevole, perché più che una medicina viene considerata un veicolo di
conoscenza. Di visione, appunto.
Temendo una
sua eccessiva mercificazione, per quanto sia quasi impossibile coltivarla fuori
dall’Africa, dal 2006 il Gabon ha deciso di riconoscere il sacro arbusto come
patrimonio nazionale, vietandone l’esportazione non autorizzata. Eppure,
proprio questa mossa di difesa ha iniziato ad alimentare il fenomeno dei viaggi
curativi direttamente nelle foreste equatoriali, improvvisando sul posto dubbi
guaritori dalle pretese assai venali, ma incentivando pure missioni di astute
cliniche straniere quali l’Iboga House (www.ibogahouse.com). A farne le spese maggiori, in ultima istanza, sono però le
popolazioni pigmee, derubate del loro sapere ancestrale senza neppur saperlo,
minacciate dal disboscamento feroce delle proprie foreste, raggirate da governi
faccendieri che, alla loro vista, ridacchiano ancora apostrofandole con l’espressione
in voga fra i loro vecchi colonizzatori. “Monkey-men!”. Gli uomini scimmia.
Crudele ironia, per coloro che sono forse i più fidi custodi delle nostre
origini.
Nessun commento:
Posta un commento