Il primo assalto è una vera e
propria beffa. A una decina di gradini dal binario, il treno elettrico per Borodino
parte al minuto spaccato e saluta sornione stazione Bielorusskaja. Sono le 7.41
del mattino a Mosca: nulla di fatto. Nonostante la levataccia, il campo di
battaglia deve attendere, proprio come continuava a negarsi ai 600mila soldati
della Grande Armeé, frementi di battersi con le truppe fantasma dello zar.
Un’ora più tardi giunge notizia che il treno è di nuovo sulla linea, ma le
incertezze di un civile russo depistano il secondo tentativo d’aggancio e,
sotto occhi esterrefatti, la fuga avviene indisturbata sul binario a fronte. Borodino:
così vicina, così lontana.
Meglio non demoralizzarsi: nella
lunga marcia d’avvicinamento al cuore della Russia, Napoleone stesso dovette
sostenere semplici scaramucce dapprima a Wilna, poi a Witepsk, e via via sino
alla più remota Smolensk. Eppure a 200 anni di distanza dal sanguinoso scontro
che oscurò la stella dell’ultimo Imperatore d’Europa, i campi e gli acquitrini
alle porte della capitale paiono ancora stregati per chi viene da oltreconfine.
Dalla stazione di Mozhaysk, dove la maggior parte delle corse del treno
termina, quasi non ci si accorge d’esser catapultati direttamente sulla linea
del fronte, perché la strada che congiunge il borgo di Borodino con la sua
piccola stazione ferroviaria taglia abitazioni di campagna immerse in una pace
bucolica surreale. Una donna anziana che lentamente cammina verso un pozzo per
l’acqua. Bimbi intenti a inseguirsi nascondendosi di albero in albero. Passeri perplessi
di fronte al passaggio dei rari visitatori. All’improvviso, però, memoriali di
granito ritti come fucilieri sbucano ai lati: uno, due, tre…basta puntare lo
sguardo e si ha la sensazione di esser stati accerchiati, senza neppure
accorgersene. Alcuni si spingono sino al ciglio della strada, che ripercorre
l’esatta linea divisoria fra gli schieramenti napoleonici e quelli dello zar,
ma molti altri disegnano strane geometrie per i campi, ridanno vita ai
contingenti al comando dell’eroico Bagration o del prudente Murat.
Il disorientamento è forte,
perché al di là della strada, piante e terreni paludosi impediscono di muoversi
agilmente: occorre accostarsi a pochi centimetri dai memoriali per capire quale
sia la divisione che rappresentano, ma per farlo si devono attraversare ampie
distese, scoprendosi inevitabilmente al fuoco nemico: a volte è lo stridere di
una lamina sul marmo; altre il colpo ripetuto di un martello pneumatico. A
Borodino si lavora alacremente per farsi trovare pronti nei giorni di celebrazione,
dal 1° al 7 settembre, ma l’impegno con cui vengono forgiati percorsi
lastricati o colonne segnaletiche conserva inevitabilmente un che di marziale.
Gli operai si chiamano a gran voce da un punto all’altro, fanno segni, si
spostano in gruppo o si accucciano sotto le piante: parlano sempre e solo in
russo. Nessuna lingua straniera accompagna l’avanzata verso il fronte: forse le
truppe napoleoniche hanno riparato altrove, sotto i colpi ripetuti
dell’artiglieria. Forse i turisti attendono il grande evento per palesarsi.
Là dove un obelisco indica la via
per il quartier generale dell’imperatore francese, all’incrocio della strada
che da Semyonovskoe porta a Shevardino, scale e impalcature sostengono i resti
del monastero del Salvatore. Attorno all’edificio adibito a museo la terra è
sventrata, le gru infieriscono. Le opere di restauro parlano dei
cannoneggiamenti ancor meglio delle divise strappate: non un lotto sembra esser
scampato alla violenza del tempo, così come in fondo i resti della Grande
Armeé. Mentre la cupola d’oro della tomba di Bagration è già tornata a
risplendere, esaltando l’eroico sacrificio del maresciallo che coprì la
ritirata tattica di Kutuzov, ben più difficile si sta dimostrando la raccolta
di fondi per preservare il ricordo delle divisioni napoleoniche. Nonostante le
truppe dell’invasore contassero fra le proprie fila volontari di tutt’Europa,
dal Belgio alla Prussia, dall’Austria all’Italia, la preparazione per
l’anniversario della battaglia di Borodino ha portato allo scoperto quanto
fittizia fosse l’unità delle nazioni occidentali invocata da Napoleone.
Gli italiani, ad esempio, che furono
i più stretti accoliti delle divisioni francesi, devono ringraziare soprattutto
l’Associazione studi napoleonici per quanto riguarda il ricordo dei propri
caduti. Grazie alla poesia “Il soldato di Napoleone”, scritta nel 1953
dall’illustre intellettuale Pier Paolo Pasolini per onorare un suo avo caduto
in battaglia, la regione del Friuli è infatti l’unica ad aver sempre mantenuto
vivo un legame speciale verso i 50mila arruolati per la campagna di Russia. Non
a caso, anche quest’anno ha riportato in scena lo scontro dei belligeranti nei
pressi di Porcia, mentre una delegazione è pronta a unirsi alla ricostruzione
alle porte di Mosca. Per tutti gli altri italiani, invece, Borodino rappresenta
una macchia da dimenticare, il gesto sconsiderato di un generale che fu
salutato nel Belpaese come il vento della Rivoluzione, per poi rivelarsi niente
più che un saccheggiatore di beni e tesori, un orgoglioso dittatore fattosi
divorare dal gelo russo.
«Addio, addio, Casarsa, vado via per il mondo, il padre e la madre li
lascio, vado via con Napoleone. Addio, vecchio paese, e compagni giovincelli,
Napoleone chiama la meglio gioventù». Dove siano i resti di questi eroici
caduti al grido libertè, egalitè,
fraternitè, difficile dirlo. La campagna s’è inghiottita le loro spoglie.
Sui memoriali scintillano numeri di divisioni, altisonanti nomi di comandanti,
ma per i fanti che si fecero massacrare dall’artiglieria di Kutuzov, non una
pietra. Non una croce. Non un soldo per mano di quei governi “alleati” sempre
pronti a invocare sacrifici, per voltarsi poi lesti quando è la storia a
reclamar onori.
(ARTICOLO PUBBLICATO SU RUSSIA OGGI)
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