La mattinata aveva preso subito una cattiva piega. L’affollamento eccessivo della metropolitana lasciava infatti presagire un viaggio disturbato e maleodorante, ma soprattutto confuso. Non mi sentivo neppure stuzzicato da uno dei miei sollazzi preferiti: distinguere volti interessanti nella calca del vagone comportava uno sforzo non proporzionato alla qualità dei passeggeri, in maggioranza segretarie pettegole e manager arrivisti.
Quando un ragazzo dall’aspetto trasandato fece irruzione nella placida indifferenza dell’ora precaffé, salutai il suo arrivo quasi fosse una benedizione, benché mi rendessi conto di quanta meschinità fosse occultata nel mio compassionevole sorriso. Aspettavo solo che la folla antistante si dileguasse parlottando del più e del meno, con gli occhi sgranati sulla sua figura e trincerati dietro gli alti baveri del cappotto.
“Signori!” - debuttò con voce incrinata – “oh signori, quale sventura mi ha colpito! Ero giovane allora, un ragazzino appena, non potevo distinguere chiaramente il bene dal male. Ma dovevo scegliere, se volevo vivere davvero: purtroppo calcai la via peggiore e feci cose delle quali mi sono amaramente pentito. Ora ho contratto una malattia terribile: sto morendo nel modo più crudele ed insopportabile”.
Presto attorno al ragazzo si liberò uno spazio vuoto che, al di là della sua arringa strascicata, parlava con eloquenza dell’isolamento e dell’emarginazione cui era stato condannato. Sapeva dosare bene frasi ad effetto ed occhiate penetranti, inframmezzando abili pause di riflessione. Qualcuno si voltò verso il vicino, scuotendo il capo con rassegnazione. Un pensionato, seduto proprio di fronte a me, puntò per un attimo gli occhi sopra il giornale che lo proteggeva dal mondo in carne ed ossa; lo squadrò con orrore e tornò a sviscerare l’articolo sulla cura della cervicale. Solo una donna pallida, con uno stupendo foulard rosso al collo, continuava a seguire le declamazioni del disperato, dipingendo un’espressione d’acuto interesse sui sottili lineamenti del suo viso.
“Non vi chiedo molto - ed allungò la mano ad artiglio - “solo pochi spiccioli per tirare avanti, per comprare quei medicinali che possano alleviare il mio dolore infinito. Abbiate misericordia di chi non può più tornare sui propri passi”.
La donna pareva quasi commossa: sbottonò un piccolo portamonete e vi trasse fuori alcuni pezzi di valore. Quindi fece tintinnare il denaro nella mano del giovane, richiudendola nella propria e stringendola con vigore, come se volesse trasmetterle un po’ della sua forza per le prove a venire. Lui la scrutò senza sorpresa, fece sparire i soldi in un taschino dei pantaloni grezzi e rispose con un frettoloso “grazie”. Tirò poi avanti, inarcando le sopracciglia per impietosire meglio i passeggeri.
“Non vorrei ferire il suo filantropismo - le sussurrai all’orecchio - ma quel ragazzo ha tutta l’aria di fingere. Non ha notato il modo in cui enfatizza ogni parola? E di quale smaliziata mimica sa far sfoggio? Purtroppo viviamo in una città dove non è più possibile riconoscere le differenze: meglio essere superficiali, che ingannati. Non crede?”.
Lei alzò le spalle e tornò ad assumere l’umile contegno che le aveva permesso di mimetizzarsi fra la folla. “Ad esser sinceri - aggiunse poi - non vedo perché si debba aver così paura d’essere ingannati. Coltivare il dubbio nei confronti di qualsiasi cosa alla lunga rende ciechi: si è sempre convinti che la realtà abbia un volto doppio, che si debba scavare dietro l’apparenza per scoprire l’autenticità di una persona, per esempio. Ma ognuno è quello che è nel momento in cui si presenta come tale. Per farla breve, non m’interessa se quel ragazzo è un bugiardo”.
“Lei, dunque, omaggia chiunque col suo denaro? Non si rende conto che la sua carità potrebbe essere capovolta nell’estremo opposto, rifiutando d’esprimere un giudizio ponderato nei confronti di una persona? Non la preoccupa tutto questo?”.
Le orecchie dei vicini s’erano drizzate sull’attenti. A quanto pare avevamo toccato un tasto dolente della vita metropolitana. Persino il ragazzo sembrava aver intuito i nostri pensieri e ci saettava con una certa vena di disgusto.
“Beh, e allora come mi giudica lei? Potrei essere una ladra, una clandestina o ancor peggio una terrorista! Eppure mi siede a fianco già da un pezzo, senz’aver preso alcun tipo di precauzione. Se davvero dubitassimo di tutto, sarebbe impossibile qualsiasi tipo di coesistenza”.
“Scusate se m’intrometto!” - un uomo dalla capigliatura folta, costretto in un appariscente completo cremisi, si sporse dalla poltroncina opposta. “Non ho potuto fare a meno di seguire la discussione, perché ho a che fare tutti i giorni con questioni del genere. Sono un regista di teatro e conosco bene il mondo della finzione: la signora ha perfettamente ragione” - e le gettò una suadente occhiata d’intesa.
M’accorsi subito di che genere d’uomo si trattasse. Lo avevo studiato sin da quando era salito sul nostro vagone. Da allora i suoi occhi erano rimasti puntati sulle gambe della donna, esaltate da un’attillata minigonna di pelle. Si era arrovellato per minuti interi, cercando un pretesto plausibile per attaccare bottone. Ma un po’ per la discrezione della donna, che teneva quasi sempre basso lo sguardo, un po’ per la mancanza d’appigli offerti dai cartelli pubblicitari o dall’aspetto insulso dei presenti, aveva dovuto rinunciare ad un attacco diretto.
“Mi spiego meglio - riprese con fare da esperto - ho speso lunghi anni per cercare di capire quale fosse il vero volto di un mio amico, straordinario attore. Riusciva ad essere violento, poetico od inetto, talvolta pareva uno scaricatore di porto, altre il più raffinato dei cortigiani: adoravo la sua compagnia, dandomi modo d’apprezzare un incredibile campionario di personalità, pur senza vivere gli inconvenienti che sono soliti accompagnare il radicarsi di nuovi rapporti d’amicizia. E di fiducia, indubbiamente. Per quanto, tuttavia, mi sia sforzato di scavare al di sotto delle sue maschere, non ho trovato nient’altro che ulteriori maschere”.
“Vuol dire che il suo amico era ognuna delle maschere che interpretava? - intervenne una teen-ager dal trucco troppo pesante - Mi sembra davvero paradossale. Insomma, forse la mia opinione suonerà un po’ scontata, ma io so cosa sono in realtà e cosa voglio apparire agli occhi degli altri. Riesco cioé a distinguere almeno due piani nella mia personalità”.
“La trasparenza assoluta appartiene solo ai santi e agli angeli” - sbottò infine una vecchietta, non scordando di farsi subito il segno della croce.
”Eppure - aggiunsi velenoso - se dovessimo stare a quanto detto sino ad ora, dovremmo concludere che nessuno di noi è in grado di definire cosa siamo in verità, se non attraverso il giudizio che gli altri esprimono nei nostri riguardi. L’immediatezza con cui viviamo certe figure, dall’eroe ambizioso al falso svampito, non ci consente di prendere distanza dalle stesse, altrimenti tutti s’accorgerebbero del nostro inganno. Ma se chi ci sta di fronte crede a quanto noi mostriamo d’essere, allora noi siamo esattamente quella determinata immagine. Noi siamo solo ciò che appariamo: o meglio, il nostro essere è l’apparire, al di là di qualsiasi pregiudizio moralista”.
Dal dibattito era rimasto escluso solo il protagonista primo, ovvero il ragazzo malato che aveva osato domandare l’elemosina nella carrozza più problematica dell’intera metropolitana. Sconsolato si guardò attorno più volte, ma l’attenzione del pubblico sembrava ormai rivolta altrove. All’improvviso venne assalito da un irrefrenabile accesso d’ira nei confronti della donna, che col suo gesto provocatorio aveva alimentato una discussione senza capo né coda. Sarebbe bastata una domanda, appena: avrebbe potuto chiedere il suo nome, informarsi su dove vivesse, se ci fosse qualcuno al suo fianco. Macché. Solo una stretta d’incoraggiamento e tanta pietà. Lui era tornato ad essere invisibile ed indifferente agli occhi dei passeggeri, nonostante stesse proprio davanti a loro. Col cuore in mano.
“Signori, vi avviso che nella mia borsetta ho una bomba ad orologeria”.
La battuta della donna dal foulard rosso fece scoppiare tutti in una fragorosa risata.
“Dovremmo dunque darcela a gambe?” - insinuò il regista di teatro, dipingendo una smorfia di spavento misto ad ilarità. “Se ci tenete alla pelle” – miagolò la femme fatale - avete ancora un po’ di tempo”.
Il ragazzo malato strabuzzò gli occhi.
“Sciocco, di che hai paura? La bella signora - o signorina, forse? - ha voluto evidenziare con molta garbatezza, e lasciatemelo dire, con squisita ironia, la sua acuta posizione. La nostra posizione!”.
Lei occhieggiò infastidita il regista, dimostrando di non apprezzare le adulazioni smaccate.
“Ironia sì o no - obiettai al teatrante - se fosse coerente, dovrebbe balzare dal vagone al più presto”.
Odiavo quell’uomo. Non aveva neppure il coraggio delle proprie parole: solo la fede nell’assurdo lo avrebbe potuto salvare; il dubitare nei confronti dello stesso dubbio che gli si offriva come certezza. D’altra parte la donna aveva recitato la sua parte in modo molto convincente: e se in quel modo aveva voluto asserire che stava mentendo, ero a mia volta costretto a crederle, per poter dubitare sino in fondo.
“Penso sia stata una discussione molto interessante - osservò alla fine la donna riavvolgendo il foulard - ma soprattutto utile, visto che mi ha coinvolta sino all’ultima fermata. Signori, E’ stato davvero un piacere”.
“Dopo di lei - e le cedetti il passo, quando già le porte della metropolitana si stavano serrando alle nostre spalle.
Prima che i vagoni sguisciassero, m’accorsi tuttavia che il regista era balzato in piedi e batteva i pugni sul vetro. Stava chiamando la donna, per quanto si potesse arguire dal movimento delle labbra.
Lei si voltò sorridente: allargò le braccia in segno di rassegnazione e se ne andò per la sua strada. Fu allora che il volto del regista, immobile con la sua borsetta in mano, raggrinzì d’orrore nel momento stesso in cui le tenebre se ne fecero un boccone.
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