"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

martedì 29 marzo 1977

L'UOMO CON LA VALIGIA


Da dove fosse giunto, Dio solo lo sapeva. O forse il diavolo. Se ne stava ritto in piedi come uno stoccafisso, gelido ed elegante nel suo vestito gessato. Pareva essersi materializzato dal nulla, ma invano avrebbe atteso un mio cenno che lo invitasse a sedere. Tanto più che nel silenzio della stazione abbandonata, il suo saluto era echeggiato sinistro. Sgradito.  
"E' permesso?" - Lo guardai distrattamente, lasciando intuire quanto inutile suonasse quella cortesia ormai datata. Il veleno della solitudine, protratta per giorni angosciosi, scorreva ancora caldo nelle mie vene, pronto ad annientare il consueto ritorno degli incubi notturni. Sui neri binari del destino, sentimenti distorti e slanci frustrati non erano riusciti a cancellare le cicatrici della memoria.

L’uomo non si offese, ma senza ulteriori cerimonie si accasciò sul sedile successivo, esalando un profondo respiro.
"Non hai idea di quanto sia faticoso viaggiare con una valigia così pesante. Peccato non potersi lasciare alle spalle certi bagagli". Ora mi dava del tu, forse alla ricerca di una confidenza ingannatrice.
"Io non ho nulla al mio seguito" - obiettai annoiato. L'insistente cigolio di un'insegna arrugginita, appesa alla tettoia soprastante, non dava l'impressione di poter resistere alle avance del libeccio.
"Dici sul serio? Dammene una prova". Era davvero troppo. Quell'uomo iniziava ad infastidirmi oltre il limite della sopportabilità; ancor peggio, il mio treno protraeva inspiegabilmente il suo ritardo. Non gli detti retta e finsi di cercare con ostinazione qualcosa smarritosi fra i sassolini sotto le rotaie.
"Perché non sollevi la mia valigia?"
"Ma scusa, che senso ha?"
"E' solo per togliermi uno sfizio. E poi inganniamo il tempo. S'è guastato persino il distributore delle bibite". 

Cercai di sollevarmi dopo ore di sterile attesa. Le gambe, ormai flaccide d’apatia, sembravano non reggere l'immane sforzo, soffocando il lamento delle giunture atrofizzate. Mi avvicinai lentamente al manico di pelle, tagliuzzato dal tempo e sporco di vita, affinché potessi scegliere la presa migliore, togliendo le parole di bocca al mio ostinato interlocutore. All'inizio non diedi molta importanza alla sfida lanciatami, ma quando mi resi conto che gli sforzi profusi non erano in grado di smuovere di un centimetro la valigia di pelle, caddi di nuovo in uno stato di confusa depressione.
"Hai visto? Non avevo forse ragione nell'affermare che nessuno mai è uccel di bosco? Viaggiare, sebbene riesca difficile ammetterlo, significa dopo tutto darsi alla fuga da qualcuno o da qualcosa. Magari neppure noi stessi ne siamo consci, dal momento che i dolci miti romantici sono duri a morire: la ricerca infinita, la curiosità ardimentosa...oh, ma non è a te che devo ricordare queste saccenterie, vero? – ed ammiccò, quasi mi conoscesse da lungo tempo - eppuresotto sotto, nutriamo un inspiegabile timore". 

Si lisciò la cravatta con una vena di soddisfazione rigonfia sulla scarna mano.
"Timore? Forse vuoi dire che siamo pervasi da una certa inquietudine, da un velato senso di disagio, ma timore suona un po’ eccessivo"
"Nient'affatto. Anzi, oserei dire che la paura accompagna ogni nostro passo: si annida nell'ombra lunga del tramonto. Basterebbe trascorrere una notte all’aperto, senza un letto su cui riversare le nostre certezze, per scoprire ancora una volta il superstizioso volto dell’uomo. Ci sono persone che se non riescono a trovare una stanza per dormire, impazziscono. “Chissà cosa potrebbe capitare!” – civettò sarcastico – “chissà quali volti terribili si celano dietro gli angoli della strada!”. Già, sul fondo della coscienza di ognuno di noi, un vacuo pensiero, da tempi immemorabili, turba il candore della luna ed offusca persino il sorriso del sole. Non si tratta però dell’angoscia che ci assale al pensiero di venir derubati, malmenati o messi a conoscenza delle vergogne della civiltà; non è neppure il pesante volo della civetta a farci sobbalzare.
E’ il ritorno di qualcosa che mai ci saremmo aspettati d'incontrare nuovamente sul nostro cammino: i morti, coloro che sono infine riusciti a sciogliere il respiro strozzato e a sollevare le palpebre da noi coperte. Temiamo il loro sguardo, ove non brilla più luce perché ormai colmo di verità. La verità su di noi, sui nostri egoismi e le nostre meschinità. Sono persino pronti a rivelare quanto nessuna bocca mortale oserebbe chiedere. Eppure, che ci sarà mai nell'al di là?".

L'ebbrezza di oltrepassare un confine, ameno luogo dai contorni surreali, mi aveva sempre messo in agitazione. Riflettendo bene, tuttavia, quella reazione non era dovuta al timore di incorrere nel diverso, quanto alla possibilità di fare ritorno all'uguale, al punto soffocante del labirinto ove si annullano le possibilità di scelta nel percorso obbligato. Da qualche parte avevo letto che le lancette dell'orologio, quando il traguardo coincideva con la partenza, tornavano indietro da sole, condannandoci a ripetere l’accaduto.   
"Mi ricordi un personaggio di un vecchio film western - ripresi rabbrividendo - girava di città in città trascinando dietro le spalle una bara sempre chiusa. Che cosa hai lì dentro? Non farai molta strada con un peso del genere"
"Alla fine ci si abitua. Tuttavia, se cerchi di non pensarci, non funziona. Devi accettarlo, così come si accetta un supplizio o una pena inflitta per qualche colpa: allora trovi la forza. Stanne certo".

L'ultima lampadina della sala d'attesa si fulminò improvvisamente. Forse un moscone vi aveva trovato una fine elettrizzante. Quella stessa fine che talvolta si augurano i barboni quando scoprono sbarrato l'ingresso della stazione, i cui sedili verniciati sono per loro molto più che un ostello di fortuna.
L’aria della notte iniziava a farsi umida.
"Prova a pentirti!"
Strabuzzai gli occhi. Non smetteva di sorprendermi. "Pentirmi per che cosa? Perché non ti ho fatto posto quando sei arrivato? Lascia perdere, il mio prete di fiducia ha gettato la spugna da un bel pezzo!"
"No, non capisci. Che c'entrano preti ed acqua santa? Il problema è tutt'altro: su di noi grava una colpa, comunque sia. Non sto dicendo che sopra le nostre teste sieda un giudice inflessibile pronto a sollevare il dito per ogni nostra azione. O che, in una futura reincarnazione, saremo destinati a trasformarci in pavidi maialini. Per chi mi hai preso? Non sono un predicatore dell'ultima oraSempre, tuttavia, avvertiamo un ago lancinante, una spina che ci tormenta quando, sulle ali della leggerezza, siamo intenti a baciare qualcuno con passione, o non appena, sdraiati sulla bianca sabbia di una spiaggia tropicale, pensiamo di aver ricevuto il massimo di quanto si potesse desiderare dalla vita. Il fondo del bicchiere è amaro. Non è così? Non ti senti...come dire...intaccato?".

Desideravo ardentemente che il mio sguardo traboccasse disprezzo, ma mi accorsi di non essere in grado di oppormi alle sue osservazioni. Aveva ragione. Purtroppo non era il solito predicatore puritano che striscia alle spalle di una giornata piovosa. Ma non mi arresi. "Non c'è nulla di cui mi possa lamentare per quanto ho fatto o vissuto. Non rimpiango nulla. Neppure le mie sventure. Non sarei quel che sono senza di esse".
Mi fissò con un’odiosa aria di compatimento. “Prova a chiederti, piuttosto, cosa accadrebbe se loro non fossero in grado di darti una risposta. Se ti instillassero un dubbio ancor più atroce di quanto avessi supposto. Come vedresti la vita, allora?”.

Quell'uomo così elegante giungeva da terre lontane. Mosso da una cieca fede aveva abbandonato la sua fattoria da diversi anni, essendosi messo alla ricerca dei suoi consanguinei sparsi per il mondo. Viaggiava confidando sul fatto che i suoi ipotetici parenti, benché divisi dai voltafaccia della storia, non avrebbero rifiutato il sacro dono dell’ospitalità ad un signore distinto. Potevano forse cacciare un’anima in cui scorreva ancora il sangue di un remoto antenato? Molti di loro, scambiandolo per un eccentrico turista, gli avevano realmente prestato accoglienza, accrescendo il suo senso di fiducia nella provvidenza umana. Era assai probabile che i loro destini non si fossero mai incrociati, neppure in secoli ingialliti, ma la condivisione di un'illusoria affinità, il piacere di scoprire se stessi a partire dallo straniero, o meglio dall’estraneo, contribuiva ad alimentare un perduto senso di fratellanza. Lui veniva nel nome di un morto e, attraverso il morto, distingueva l'identità e la differenza del loro essere al mondo, dischiudendo affascinanti universi.

"Per quanto assenti, sono i morti che ci tengono uniti. Sono i ricordi di uno stesso passato che, senza alcuna vera ragione, riaffiorano nelle menti assopite di chi si ostina a negare. Non ci si libera del passato, neppure quando crediamo di vivere in un presente che non passa - l'uomo fissò spaventato l'orologio - mio dio, com'è tardi! Ti prego, fammi un ultimo favore: aiutami a portare la valigia sull'ultimo binario. Il mio treno arriverà a momenti"
Sapevo per certo che il terzo binario era inattivo. Ciononostante l'uomo insisteva nell'affermare che mi sbagliavo. Mentre sudavo lacrime e sangue per trasportare il suo fardello sulla banchina opposta, tacitamente lo maledissi. Ma non mollai la presa.
“Ora che siamo qui, lasciami almeno controllare. Qualora il treno non passasse, potremmo accoccolarci di nuovo sui nostri comodi seggiolini". Fu lui ora a gettarmi un'occhiata sprezzante, quasi volesse mostrarmi la paradossale meschinità del mio scetticismo inscalfibile. Trascorsero pochi minuti, giusto il tempo di raggiungere il sottopassaggio per trovare la conferma sulle tabelle degli orari, quando - all'improvviso - udii dall'alto il frastuono zoppicante di una locomotiva che sfregiava la quiete della stazione.

Mi catapultai in superficie, ma feci solo in tempo a scorgere con la coda dell'occhio l'ultimo vagone allontanarsi sul terzo binario. Al mattino, se fossi rimasto in quella località, avrei dovuto suggerire al personale ferroviario di aggiornare lo schema delle corse. O, più saggiamente, avrei dovuto cucirmi la bocca intorno ad un avvenimento che già da molti anni aveva cessato di ripetersi. Prima di abbandonarmi alle spire di un sonno mendace, dovetti far ritorno alla banchina da cui era partito l'uomo senza nome. Solo ora mi ero accorto che, al di là di tutte le parole spese, avevamo trascurato le uniche due che potessero onorare il rito di fratellanza da lui tanto esaltato.
Aveva scordato la valigia a terra. Non potevo aspettarmi altro da un chiacchierone. Sentii cento occhi puntati sulla mia figura, ma mandando al diavolo i soliti scrupoli, non resistetti alla tentazione di far scattare le due linguette di sicurezza. Quando sollevai la metà del contenitore rimasi di stucco. La valigia era completamente vuota.       

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