“Voi due, venite qui. Ho da farvi un
discorsetto”. Non ci fu neppure il
tempo per salutare l’allenatore. Sollevò la mano con noncuranza e si allontanò
insieme alle indiziate verso il quadro svedese.
Appena messo piede in palestra,
mi ero accorto che il programma della lezione doveva aver subito una variante
inaspettata. I ragazzini stavano provando i salti in modo nervoso, mentre il
loro osservatore continuava a fissare l’orologio e a fischiare con insistenza.
Mi ritirai
intimidito negli spogliatoi, pronto a togliere la felpa prima del consueto
riscaldamento. Benché avessi gettato solo una rapida occhiata al gruppo degli atleti
sparpagliati sul tartan, intuii che la squadra non era al completo. Qualcuno
aveva disertato, a pochi giorni dalla competizione più impegnativa.
Quando feci
ritorno sul campo, le luci parevano essersi sbiadite, l’aria gravava umida e
pesante: accovacciati in un angolino, il mio allenatore e due ragazzine si
stavano fissando negli occhi con aria di sfida. Li raggiunsi in silenzio,
cercando di capire cosa fosse accaduto, senza mostrare segni di invadenza.
“Il vero problema – sbottò infine sconsolato – è che bisogna
parlare apertamente, dire le cose in faccia. Se nei giorni scorsi vi eravate
accorte di esser state trascurate, sarebbe bastato presentarsi ai preparatori e
chiedere di essere seguite meglio. Siamo in tanti: purtroppo non è facile
comprendere le esigenze di tutti, perciò dobbiamo collaborare, darci una mano
reciprocamente. Mi capite?”
“Non siamo
poi tanto stupide: è lo stesso discorso che ci hanno fatto prima. Ma che colpa
abbiamo noi, se lei ha scelto di andarsene? Il nostro gruppo si allenava
distintamente dal suo. Non avevamo molti contatti”
“Già, ma dopo
tanti anni condivisi nella stessa palestra eravate pur sempre amiche. Vi
conoscevate e sapevate anche che lei era disposta a sacrificarsi, pur di
conseguire ottimi risultati. Il gruppo delle sue affezionate si era dileguato,
è vero… ultimamente, poi, le lezioni non avevano più seguito un programma rigido,
ma diamine…abbiamo perso uno dei nostri assi! Un’amica, una ragazza
straordinaria!”
“Ci dispiace”
“Non dovete
sentirvi in colpa. Sappiate solo che noi siamo sempre pronti ad ascoltarvi. E
ora andate: vi ho già sottratto minuti preziosi. In gamba, ragazze!”
Si sollevò
ostentando un sorriso affabile, ma con gli occhi velati dalla delusione. In
fondo, cercare un colpevole era quanto di più errato si potesse fare in quel
momento. Tutti, nel bene o nel male, eravamo responsabili.
Avevamo perso
la sfida più impegnativa e lei, purtroppo, non sarebbe più tornata. Anzi,
avrebbe iniziato una nuova, luminosa carriera nelle fila di una società
concorrente.
“Pronto a
sgambettare?” – domandò affabile.
“Certo. Come sempre”.
Non era vero.
Qualcosa, nello spirito di gruppo, si era rotto in modo definitivo. Le
settimane a venire non sarebbero più state le stesse, nonostante la dipartita
di una singola atleta potesse apparire irrilevante, agli occhi dei più.
Iniziammo dunque a girare attorno all’isolato, seguendo il solito quadrato
residenziale avvolto nel buio e nella nebbia. Nessuno aveva voglia di parlare.
Udivamo solo i nostri respiri affaticati, lo scalpiccio delle suole sulla
ghiaietta dei marciapiedi. Non so per quanto tempo continuammo quella farsa, ma
il dolore alla milza ed il tremolio delle gambe servivano a farci sentire
ancora vivi. Eppure, mai
come quella sera ebbi l’impressione di girare a vuoto. Di correre senza uno
scopo.
“E’
dispiaciuto al capo?” – biascicai all’improvviso.
Lui mi guardò sorpreso,
avendo creduto, forse, che fossi rimasto totalmente estraneo alla vicenda. In
realtà, più di ogni altro, avvertivo un nodo alla gola. In palestra, quando
avevo realizzato che la discussione ruotava proprio attorno a lei, dovevo
essere arrossito d’imbarazzo. Fortunatamente nessuno se n'era accorto.
“L’ironia del
destino” – avevo pensato fra me e me, mentre le due ragazze rimproverate
tenevano il capo chino. “Proprio questa sera doveva capitare, dopo averla
incitata nell’ultima gara, dopo averla incontrata nel fine settimana in mezzo a
mille persone, dopo il suo saluto ricercato e interrogativo… basta, se n'è
andata. Così, senza preavviso. Senza dirmi ciò che da mesi pareva angustiarla”.
“Lui è
abituato – commentò asciutto - di atlete ribelli ne ha viste tante nella sua
vita. Alla fine è un po’ come a scuola: arrivano, crescono, se ne vanno. Fa
parte del corso degli eventi. Resta però il rammarico di una partenza
prematura.
Sai...in
genere capita quando una ragazza ha già raggiunto i diciotto, i diciannove
anni; ormai il cammino è compiuto. Lei, al contrario, aveva ancora molto da
donare a noi tutti”.
“E’ buffo. Ne
parli quasi fosse morta”
“Beh, la
differenza non è poi molta. Sarà difficile rivederla. E’ uscita dalla nostra
vita. Non ci saranno più gare da condividere, né gite di gruppo durante le
quali ridere a crepapelle. Come quest’estate, ricordi? Quanto ci siamo
divertiti nella pensione vicino al lago! Tutto finito”.
Rientrammo
mesti in palestra. La corsa ci aveva sfiancato, ma alla fine ne eravamo quasi
compiaciuti. Avrebbe aiutato a dimenticare. “Mio dio, dimenticare! – inorridii
muto – dimenticare! Era come se la stessi condannando al confino. Forse è solo il
rimorso che spinge a occultare il corpo del reato, a storcere lo sguardo dalla
ferita sanguinante…”.
Prima di
varcare la porta d’ingresso, mi mise una mano sulla spalla. “Pazienza. Ci si
abitua a tutto”.
Aveva capito.
L’inflessione della sua voce tradiva una consapevolezza sin troppo schietta.
Dunque il mio
rossore non era passato inosservato. Ma in quale misura, sapeva? Se in palestra
erano davvero al corrente del mio sgarbo, la gogna non si sarebbe fatta
attendere ancora molto. Evidentemente circolava solo qualche pettegolezzo….mai
provai angustia peggiore nel resto della mia mediocre carriera di atleta.
Due settimane
dopo, i migliori alunni dell’istituto scolastico locale furono chiamati a
confrontarsi con i coetanei di altri tre Comuni vicini. La campestre si sarebbe
tenuta all’interno di un ampio parco, su una superficie fangosa e difficile.
Gara d’alto livello, destinata a gente grintosa. Era l’occasione d’oro per
mettere in luce le leve della nostra società. Vecchie e nuove.
Lei non
poteva mancare: la sua fama giganteggiava fra le concorrenti dell’ultima
batteria.
Stava
svolgendo appartata alcuni esercizi di riscaldamento, accanto ad un castagno
dai colori accesi. Il contrasto con la sua tenuta ginnica, completamente nera e
molto attillata, esaltava il fisico asciutto, appena turbato dal primo
sbocciare della sua delicata femminilità. Sulle labbra, nessun sorriso: era concentratissima,
incuteva rispetto e persino un po’ di timore.
“Vuole dare
lei il via alla corsa?”
La domanda
dell’insegnante di educazione fisica mi catapultò nel caos elettrizzato della
gara. Quando mi voltai, il campo, che pullulava di studenti variopinti,
dispensò subito un effetto rasserenante. La giornata era gradevole, sebbene il
gelo invernale bussasse alle porte. Nel cielo, ammantato di uno straordinario
blu cobalto, il sole si stiracchiava pigro, mentre dal percorso segnalato con
paletti traballanti si levava un gradevole profumo di erba tagliata.
“Non sono un
buon giudice. Forse è meglio scegliere qualcun altro!”
“Oh, ma lei è
il nostro cronista di fiducia. Se vuole essere sempre in prima fila nel dare
notizie, questa è indubbiamente un’occasione irripetibile”
Mi avvicinai
alla linea di partenza con grande circospezione. Il fato aveva decretato che
proprio la mia equivoca persona dovesse inaugurare la sua gara. La vidi
allinearsi alle compagne, mentre teneva lo sguardo rivolto a terra. Percepivo
il suo imbarazzo. Non avevamo avuto neppure il tempo di salutarci.
“Pronti…”.
Alzarono tutte il capo, contemporaneamente. Nella frazione di secondo che aveva
preceduto il via, lei non aveva resistito. Com'era capitato a me, d’altra
parte. Per un attimo avevo incrociato i suoi occhi lucidi e tempestosi,
dispensando il segreto augurio che ero solito tributarle un tempo, quando
potevo ancora ammirarla da dietro la rete degli stadi.
“Sarà dura su
questo campo…” – sentenziò uno degli insegnanti, il cui sforzo maggiore era
stato sino a quel giorno il ruminare della mandibola di fronte a piattini di
meringhe montate.
“Non per lei,
però. Guardi che falcata! E’ così elegante, così leggera, si nota che è una
spanna sopra le altre…”
Col suo passo
sicuro e potente stava già staccando il gruppo di testa.
“Beh,
sappiamo per chi fa il tifo!” – commentò ironico.
“Sto solo
giudicando le potenzialità agonistiche”.
“Sì, sì,
adesso si chiamano le potenzialità agonistiche…”.
Era un
buffone e, purtroppo, lo sarebbe rimasto sino alla fine dei suoi giorni. Mi
ricordavo bene di lui. Ai tempi delle scuole medie era stato il mio professore
di educazione fisica. L’unica preoccupazione in grado di farlo sobbalzare dalla
seggiolina della palestra era la sicurezza dello spogliatoio femminile. In un
modo o nell’altro, trovava sempre un pretesto per ronzarci attorno.
Lei
guadagnava metri. Fresca e scattante, come al primo giro. Il suo corpo si
muoveva con estrema armonia, senza rinunciare a strane accelerazioni quando
sfrecciava davanti alla mia postazione. La coda dei capelli, solo un poco
ondulati, sobbalzava inquieta a destra e a sinistra, richiamando le immagini di
animali selvaggi in corsa verso la linea dell’orizzonte, lanciati nelle immense
praterie siberiane. Tale era il distacco dalle inseguitrici che,
all’improvviso, venni turbato da un pensiero assurdo: “e se stesse correndo
solo per dimostrarmi qualcosa, per rispondere alla sfrontatezza delle mie
accuse?”.
“Si prepari a
raccogliere i cartellini. Stanno per arrivare”
Com’ero stato
meschino! L’avevo accusata di essere una ragazza ambiziosa, piena di sé fino
all’eccesso. Ma non mi ero limitato a sibilare il mio giudizio con velenoso
sarcasmo, quando ancora svolgevamo fianco a fianco gli allenamenti, durante le
settimane addietro. Avevo osato pronunciare quelle parole davanti a tutte le
sue compagne, mettendola indubbiamente a disagio. Mi ero comportato da irresponsabile, mentre lei aveva liquidato la faccenda con una smorfia
beffarda.
La mia
presenza alla gara non avrebbe certo recuperato i cocci di un rapporto
incrinato. Chissà di quale ipocrisia mi stava accusando, ora che s'accingeva a
tagliare il traguardo fra le urla acute delle sue sostenitrici. Non avevo
neppure la decenza di nascondere l’applauso.
“Brava!
Bravissima! – il professore si era sciolto in brodo di giuggiole – lascia, sei
affaticata, stacco io il cartellino dalla tua maglia”.
Non la vidi neppure
passare. Solo una breve ventata, pervasa da una calda sfumatura di sandalo, mi
comunicò che la sua gara era giunta a compimento. Come al solito in un tripudio
di acclamazioni, con un distacco esagerato, con una freschezza invidiata
persino dalle vezzose dee dell’Olimpo.
Ancora una
volta, era lei ad aver vinto. Ma ora, purtroppo, non mi era neppur concesso
tributarle un atto di stima sincera. Forse mi sarei rifatto durante la stesura
dell’articolo che, sul numero di fine settimana, avrebbe esaltato la sua
ennesima impresa.
La
manifestazione era agli sgoccioli.
“Ma come? Non
si ferma per le premiazioni?” osservò sorpreso il professore.
“Ho assolto
il mio incarico. Lascio a lei la gloria…”
“Si perde il
meglio…”
“No. Io ho
già visto quanto mi interessava….arrivederci!”
Alzai il
bavero del cappotto e, fissando la punta dei piedi, mi avviai verso l’antica
cancellata. Le strade trafficate mi attendevano dietro i suoi intrecci rococò.
“Brava!
Almeno questo complimento credo di meritarlo da te!”
Mi voltai
imbarazzato. Era sopraggiunta con aria trionfante.
“Ti meriti
ben di più. E’ stata una delle gare più intense cui abbia mai assistito: chissà
se, un giorno o l’altro, ci sarà mai qualcuno capace di impensierirti…”
“Io l’ho già
trovato!”
“Ah sì? E di
che squadra è?”
Sorrise
storcendo le labbra con una punta d'amarezza. Poi s'avvicinò sino a sfiorarmi
e, guardandomi fisso negli occhi, disse “tu!”.
“Sei ancora
arrabbiata con me, vero? Non sai quanto mi dispiace. In palestra pensano che te
ne sia andata per cercare un ambiente più stimolante, di maggiore agonismo, ma
credo che la ragione sia un’altra…”.
“Sì –
sussurrò con un filo di voce – ma non è esattamente quella che tu immagini”
Mi ritrassi
sorpreso. Per giorni e giorni mi ero angustiato attorno ad un’offesa per lei
irrilevante. Mi sentivo confuso.
“Il fatto è
che….io ti amo!”
Quella
rivelazione, così simile a uno dei suoi fulminei scatti, mi lasciò di pietra.
Era l’ultima cosa cui avessi potuto pensare.
“Ma…ma tu hai
quattordici anni!”
“Non mi
sembra una risposta molto romantica…”.
“No, non è
affatto romantica. Voglio solo dire che è così difficile definire
l’amore…soprattutto quando si è tanto giovani…io stesso non saprei offrirti una
spiegazione esauriente…”.
“Meglio. Se
nessuno dei due sa dire cosa sia, lasciamo solo che accada!”.
La sua
parlantina mi aveva messo in croce. In quel momento, fra noi due, era lei a dimostrarsi la più matura. Anche il suo corpo, ora, appariva più vicino a quello
di una donna minuta, che alla figura di una ragazzina impertinente.
“E che cosa
ti aspetti?”
Questa volta
sorrise con una punta di malizia, incrociando le sue gambe sottili e le braccia
dietro la schiena. Abbassò lo sguardo, finalmente tornato vivace ed allegro, e
bisbigliò: “mi accontento di un bacio. Per ora!”.
Le
premiazioni avevano raccolto tutti i presenti nel cortile dell’antica cascina.
Il viale, sui cui vigilavano robusti platani, era turbato solo dal cinguettio
dei passeri. Persino la tarda brezza mattutina si era scaldata ai raggi del
sole e correva fra i nostri riccioli, accarezzandoci benevola.
“E va bene.
Oggi hai vinto due volte. Ma…come recita il finale di un vecchio film, domani è
un altro giorno!”.
Si avvicinò
protendendo le braccia sottili verso il mio collo, alzandosi in punta di
piedi. Avvertii dapprima il calore del suo respiro, concitato e tremante come
l’abbraccio da cui ero cinto, poi le sue labbra sfiorarono le mie. Si toccarono,
reciprocamente sorprese e ingenue, si cercarono, stuzzicandosi con curiosità.
“Oh, mio dio!
– gridò fuori di sé – è...è meraviglioso! Stupendo!”.
Si mise a correre sul
vialetto, balzellando come una cavalletta.
“Grazie!
Grazie!” – e mi abbracciò ripetutamente.
“Fra poco ti
chiameranno: è meglio che tu vada alla premiazione”.
“Già, sono
arrivati a quelli della mia batteria”.
La guardai ammirato. Viveva ancora di sogni e poesia. Un petalo di rosa che
volteggiava spavaldo fra gli sbuffi dell'imminente tramontana. Un folletto dei boschi
che si stagliava controluce verso un futuro non troppo lontano.
“E’ per
questo che hai deciso di lasciare la società?”
“Era
difficile, per me, continuare ad allenarmi in palestra. Non potevo fare a meno
di sbirciarti da dietro le porte, o nei riflessi delle vetrate. Non ti voltavi
quasi mai e io non ero disposta a rinunciare anche ad uno solo dei tuoi
sguardi, o a un tuo sorriso. Così dolce. Le battutine che lanciavi mi mettevano in
agitazione, mi facevano sentire al centro dell’attenzione. Credo che il
trasferimento sia stato un bene per tutti”.
Tentennava.
Non riusciva ancora a credere a quanto le fosse capitato.
“Mi prometti
una cosa?”.
Distesi il
palmo della mano sul cuore. Era divertente. Sembrava d'essere tornati adolescenti.
“E’ una
promessa solenne. Se le presti fede, dovrai mantenerla seriamente. E’
importantissima per me. Direi che è quasi sacra”.
“Spero non
sia troppo vincolante”.
Si allungò
ancora sulla punta dei piedi e mi sussurrò all’orecchio: “voglio che tu venga a
prendermi in macchina il giorno del mio diciottesimo compleanno. Anche se non
ci dovessimo più vedere sino ad allora. Poi andremo sul lago e ci terremo
abbracciati su una panchina sgangherata, assaporando i baci dell’alba. Costi quel che
costi. Anche se sarai emigrato o sposato. Me lo prometti?”
“Ti do la mia
parola di cavaliere”
Scomparve
soddisfatta fra i cespugli del vialetto.
Non la rividi
più. Molte cose cambiarono nella mia vita, da quel giorno. Mi allontanai da
casa, iniziai a lavorare per un giornale straniero e decisi di non tornare più
sui miei passi.
Non scordai
però la mia promessa, la promessa strappatami da una gentil donna astutamente
celata nel corpo di una ragazzina.
Il giorno del
suo diciottesimo compleanno feci ritorno al paese natio. Era sera. Davanti al
cancello della sua abitazione motorini e studentelli sbruffoni si contendevano
la scena.
La vidi comparire all’improvviso dal cortile della villetta.
Era alta,
florida, vestita in un provocante completo di jeans. All’inizio non s'accorse
neppure della mia presenza; poi, quasi avesse avvertito alle sue spalle un
richiamo recondito, si voltò incredula.
“Ma...ma sei tu!
Sei venuto davvero!”
“Già. Ti
avevo dato la mia parola”.
I ragazzi sui
motorini si scambiarono occhiate perplesse. Lei era imbarazzata, benché nei
suoi occhi scalpitasse una folle irrequietezza. Rimase in piedi in mezzo a
loro, indecisa sul da farsi.
“Beh, sei
stato gentile. Però questa sera ho da fare…”.
“Pazienza.
Non possiamo prevedere tutto quanto dovrà capitare. Comunque mi ha fatto
piacere rivederti. A presto e…divertiti!”.
“Sì...ciao!”.
Mentre mi
allontanavo al volante di un’auto scalcinata, m'accorsi che i suoi occhi mi
stavano fissando di lontano, nello specchietto retrovisore. Aveva l’espressione
di chi vede lentamente dissolvere, nell’imprevedibilità della vita, un sogno non più compreso.
Era diventata
una vera donna. Io, al contrario, ero rimasto un ragazzino.
Sollevai tre dita
della mano, l’indice, il medio e l’anulare, ridacchiando beffardo: “oh Adamo, sei sempre così serio!”.
Quanto avrei dato per rivedermi una puntata del mio cartone animato
preferito…
1 commento:
Con il giavellotto non ho mai fatto braccia
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