"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

lunedì 21 febbraio 2011

NAUFRAGI ALLA FINE DEL MONDO/1

In Patagonia con Cruceros Australis, la compagnia cileno-argentina che ripercorre la leggendaria rotta verso Cape Horn, fra maestosi ghiacciai, pinguini impettiti ed indomiti indios.  




Impossibile non notarlo. Per metri e metri, il muro di uno scatolificio di pesce urla la propria rabbia a un chiassoso gruppetto proveniente dal centro di Punta Arenas. "Libertad a los presos politicos Mapuche!". Macché. I gringos tirano dritto, in cerca di pinguini ridotti a grotteschi cappellini e magliette con la scritta “Fin del mundo, Patagonia”. Bramosi, nel migliore dei casi, di un relitto incagliato o di qualche perduta reliquia che parli loro dell’epopea che fu, di quell’età dell’oro - a cavallo del secolo scorso - in cui i Braun e i Menéndez controllavano l’intero traffico commerciale fra Atlatico e Pacifico. Grandezza di un Cile dal volto familiare e piacevolmente somigliante a quello dell’Europa sovrana degli  oceani, o ancor più a quello degli Stati Uniti, già pronti a raccoglierne il testimone. 

Yankee fu infatti la mano che, nel 1914, tagliò l’istmo di Panama causando un’emorragia fatale proprio alle ricche famiglie di Punta Arenas. In un periodo in cui le fondamenta artefatte dell’Occidente vacillano pericolosamente, un po’ di voyeurismo sadico non guasta di certo. Guardare in faccia la propria fine, qui, dov’è l’America stessa a finire, a sbriciolarsi in una manciata d’isolotti spazzati da venti impietosi e marosi ruggenti, regala pur sempre il piacere d’essere padroni dell’ultimo naufragio in arrivo.

IL RITORNO DEI NATIVI
Libertad a los presos politicos Mapuche!”. Hanno lettere cubitali le scritte lasciate sui muri dagli indigeni del sud, convinti ancora di poter catturare in questo modo gli stranieri di passaggio.  Chatwin ha però reso i loro occhi ancor più sordi delle orecchie. Dopo l’uscita del suo bestseller “In Patagonia”, che oltre trent’anni fa inoculò nei turisti più facoltosi velleità da viaggiatori maudit, il sud del Cile e dell’Argentina è diventato terra di conquista per personaggi quanto mai bizzarri: dagli amici del milodonte ai corridori estremi dell’Eco Challenge, per arrivare alla Yatra Expedition ed ai suoi mistici che celebrano il “gran risveglio mondiale” in pigiama. Uno sfondo esotico perfetto per curare le paranoie della modernità, senza che queste terre riescano ad aver mai diritto alla parola e possano sottrarsi una buona volta agli effetti anestetizzanti del mito. 
La Bibbia le voleva abitate da esseri a testa in giù, Pigafetta le descriveva popolate di goffi giganti, per il vagabondo Paul Theroux non sono mai state altro che “un immenso deserto”, magica parolina capace di estirpare alla radice qualsiasi problema; ma non è tanto il vuoto degli spazi, quanto la scomparsa d’indizi ad alimentare lo sconcerto per l’idea fittizia impostasi nell’immaginario popolare. 

Oltre i fastosi palazzi neoclassici che dominano piazza Hernando de Magallanas, le vie di Punta Arenas sono un continuo succedersi di cartoline patinate: invitano a visitare Fuerte Bulnes, dove si trova ancora il quadrilatero di tronchi che difendeva la guarnigione più estrema dei “conquistadores” cileni; danno indicazioni per raggiungere il cimitero cittadino, affinché i tronfi mausolei degli onnipresenti Braun e Menéndez incassino l’ennesimo plauso, oppure raccolgono con astuzia i versi del poeta José Grimaldi. 

Serve infatti una buona dose di miele per ricordare i pecorai dalla schiena rotta, visto che i latifondi delle grandi famiglie possidenti mescolano tuttora il sudore al loro sangue. Basti pensare che nei territori patagonici dell’Argentina i Benetton sono proprietari di quasi un milione di ettari, su cui le pecore sono libere di pascersi per contribuire ai profitti della United Colours, mentre gli indigeni espropriati vengono costretti nei recinti delle riserve.
Nessuno stupore se il monumento al perro ovejero, che in avenida Bulnes guida cocciutamente il suo gregge contro una delle solite ed imprevedibili tempeste, ancora una volta non possa lamentare le proprie rivendicazioni salariali. Ancora una volta non faccia parola del suo sogno rappezzato, di quando gauchos, bandoleros ed anarchici al di qua e al di là delle Ande osarono alzare la voce contro i governi del privilegio. Pestati, umiliati e massacrati, dovettero scavarsi la fossa con le proprie mani, prima che il colonnello Varela, in una triste giornata del 1923, prendesse a fucilate persino le stelle.

Canta. Canta pure, José Grimaldi. “…sempre floco, desgrenado y poca cosa…” - canta la Patagonia che nessuno vuol vedere od ascoltare, la Patagonia rebelde di Osvaldo Bayer, la truce Siberia degli antipodi - “va arreando fortunes que no tiene, per la pampa magellanica desnuda…”. C’è sempre tempo per deporre qualche petalo vellutato sulla tomba del piccolo indigeno senza nome, sperando faccia un nuovo miracolo e, chissà, cancelli addirittura le vergognose macchie del “libero” mercato. Ma non è certo la compassione che salverà le anime di quei poveri diavoli.





ECOSISTEMI DA TUTELARE



“No. Non ci interessa che la gente faccia visita al museo salesiano, se poi ne esce col viso tutto sorpreso, provando al massimo un senso di stizza per la scomparsa degli Yamana, dei Selk’nam o degli Hausch”. Usa parole dure Tamara, eppure le sue forme sono morbide. I suoi lineamenti dolci. Cent’anni fa avrebbe potuto impugnare un fucile. Oggi s’accontenta di mandare avanti la sua farmacia d’erbe medicinali e, all’occasione giusta, d’issare la colorata bandiera dei Mapuche. “Noi non siamo esemplari da conservare sotto vetrina, ma un popolo vivo che lotta per difendere la propria identità culturale e riottenere le terre sottratteci con la forza, l’inganno e il sopruso. Vista la scomparsa degli altri indigeni, qualcuno ci vorrebbe agghindati in abiti tradizionali e sempre pronti ad inscenare danze o canti per far felici i turisti di passaggio, ma noi chiediamo semplicemente ascolto. Non facciamo “spettacoli” di folklore, perché il folklore stesso è la nostra manifestazione d’unità ed attaccamento alle radici. Rispettare una cultura significa tutelare l’ambiente, la lingua e gli usi in cui si è sviluppata nel corso dei secoli, mentre oggi fa gioco sfoderare il buon indigeno solo quando porta soldi nelle tasche degli speculatori”.


Per fortuna esistono anche realtà come Cruceros Australis, che ha saputo fare delle crociere in Patagonia uno strumento di meticolosa conoscenza del territorio, integrando le proprie uscite in gommone con lezioni sull’erosione morenica del ghiacciaio Pia o le scorribande dei castori contro le foreste di notofagi. Forte di ben tre ammiraglie da 150 a 300 passeggeri, la compagnia cileno-argentina riesce infatti a coprire in sicurezza l’intero percorso da Punta Arenas ad Ushuaia, risalendo lo Stretto di Magellano ed il canale di Beagle sino alle propaggini del leggendario Capo Hoorn.










Non dovendo più temere indigeni e bracconieri dalle fiocine ingorde, elefanti marini e pinguini magellanici sono così tornati gli unici padroni degli affioramenti che compongono l’arcipelago della Terra del Fuoco: nella baia di Ainsworth, così come sulle isole Tuckers, possono addirittura permettersi di stringere vantaggiosi accordi con tutti quei bizzarri visitatori pronti a promettere loro notorietà e copertine patinate. Basta scorrere le cronache del “El Pinguino” per assaporare i gossip più piccanti: chi si rotola sulla pancia camuffando l’adipe debordante, chi si gratta viziosamente di sottecchi, chi ancora battibecca per la goffaggine dei tuffi altrui, sempre che a rubare la scena non sia il piumaggio fiammeggiante di un cormorano imperiale o l’appetito carnivoro di una pianta di drosera


D’altra parte le minacce delle petroliere e delle trivelle dell’Enap Magallanes, che ogni anno estrae in Patagonia oltre tre milioni di tonnellate di gas, appaiono lontane agli occhi di questa fauna tanto affaccendata e dagli olezzi micidiali; soprattutto ora che i governi locali cercano di compensare le generose concessioni estrattive con l’apertura di parchi nazionali “cuscinetto” sulla costa o nell’entroterra. 





LA MISSIONE IMPOSSIBILE


“Non abbiamo avuto nessun tipo di finanziamento statale per allestire il percorso yamana sull’isola di Navarino – osserva dispiaciuto Mauricio Alvarez, capospedizione della nave Stella Australis. “Evidentemente i progetti che non generano vantaggi economici diretti suonano meno interessanti di altri, benché il patrimonio culturale dell’isola sia unico. 


Grazie al contributo di Cruceros Australis, dell’Università di Santiago e della Regione, siamo però riusciti a portare in luce vecchi sentieri yamana, individuando alcuni siti abitati nei pressi di Puerto Williams. In virtù di queste scoperte, ma grazie anche alla ricchissima documentazione fotografica originale dell’esploratore italiano Alberto De Agostini, si è poi dato avvio alla ricostruzione di alcuni esemplari delle tipiche capanne akharh, comprendendo quale fosse l’uso effettivo delle bacche di Calafate o delle piante di Romerillo che crescono sul posto. Piano piano, a baia Wulaia ha così preso piede un piccolo museo nella vecchia radiostazione dell’esercito cileno, all’interno del quale si possono ora ammirare gli ultimi esempi di canoe yamana da caccia, di accessori in pelle di guanaco, così come dei bastoni decorati che scandivano le iniziazioni giovanili durante le cerimonie shiehaus e kina”.


E’ una corsa contro il tempo. Se l’84enne Cristina Calderòn gode ancora di buona salute, nel giro di una generazione la Terra del Fuoco potrebbe veder scomparire persino gli ultimi meticci in grado di parlare la lingua originale degli indigeni. A differenza dei Mapuche, organizzati in grandi comunità stabili e dunque capaci di difendersi meglio dalla colonizzazione bianca, le popolazioni nomadi fueghine contavano poche unità sparse, in perenne lotta con le asperità del clima antartico: senza l’arrivo dei missionari verso la fine dell’Ottocento, difficilmente Marcos Marino avrebbe conosciuto i propri nonni.




“A 33 anni posso dirmi fortunato. Lavoro come aiutante di bordo sulle navi di Cruceros Australis, ho già due figli e sono libero di educarli secondo la cultura dei miei avi. Non siamo più purosangue yamana, ma non è questo che importa: un popolo si riconosce dalla lingua che parla, dalle medesime credenze, dalle tradizioni trasmesse. L’ossessione per la purezza genetica è roba da allevatori. Senza dubbio la morte della sorella di mia nonna, Ursula, è stata una perdita gravissima per chi vedeva in lei l’ultimo esemplare di una rara specie, ma sarebbe assurdo ridurre lo spirito degli Yamana ad una questione di sangue. Grazie alla sua caparbietà, io ed una ventina di altre persone parliamo di nuovo la lingua degli avi, abbiamo ottenuto in concessione il 30% delle terre di Navarino e siamo pronti a riprenderci il nostro spazio nella storia”. 



FUOCO INDOMABILE
Nonna Ursula ne sarebbe fiera. Proprio come tutti quei vogatori dalle gambe anchilosate che sbiadiscono nelle foto del museo “Fin del Mundo” ad Ushuaia. Costrette all’angolo dai reperti delle grandi esplorazioni di Drake e Fitzroy, oscurate dalle memorie evoluzionistiche di Darwin, per troppo tempo si sono viste rubare la scena da esposizioni di foche imbalsamate, da piatti in alluminio appartenuti ai cercatori d’oro, se non addirittura dai famosi criminali che popolavano il carcere a raggiera della città argentina. Poeti, anarchici e farabutti che finirono i propri giorni dietro le sbarre della sinistra prigione in cui oggi terminano le crociere patagoniche.


Si chiamavano Yamana. Selk’nam. Hausch. Alacaluf. Oggi ti guardano dalle stampe con gli occhi sbarrati. Tremanti nelle loro folte pelli di guanaco. I capelli corvini lunghi e liscissimi. Un figlio sottobraccio, la lancia in pugno. 
Così slavati dal tempo, che neppur più ti accorgi del loro pallore mortale, dello sgomento provato di fronte agli insulti che i preti vomitavano sui loro dei. Ancora non capiscono l’ira sprezzante per la propria nudità. Soffocano, mentre i loro tutori dalle lunghe mani si ostinano ad abbottonare i colletti vittoriani. Eppure una scintilla brilla di sottecchi.
Volevano una terra di ceneri. Hanno trovato la Terra del Fuoco.

Per saperne di più: 
http://albertocaspani.blogspot.com/search/label/Patagonia%2F2 
 



1 commento:

Anonimo ha detto...

La serata sulla Patagonia al circolone, si è trasformata man mano in una bella e interessante “infornata” di informazioni, immagini e sensazioni. Se proprio non puoi TU partire e andare… Pensare che sono uscito di casa dubbioso, se venire o no, per il tempo incerto.
Tornando a casa, poi, ho cominciato a fare delle considerazioni (serate così servono anche a questo), e non solo sulla bellezza di certi paesaggi o di certi volti che portano i segni della loro “storia e cultura”. Sicuramente, quando si fa un viaggio e si scoprono paesi, culture e popoli nuovi ci si arricchisce sempre. Ci si sente così nuovi e rinvigoriti che diventa difficile riuscire subito a reinserirsi nella solita quotidianità (questo io l’ho verificato tutte le volte che sono tornato da un viaggio). Viene voglia di ripartire subito, e siccome questo è quasi sempre impossibile farlo, allora tutto il “nuovo” immagazzinato lo usiamo per migliorare questa quotidianità e, in definitiva, anche noi stessi (non si dice: impara e migliora viaggiando?).
Subito dopo, però, entrando nel merito di ciò che avevo visto e sentito sulla Terra del Fuoco, ne ho fatta un’altra di considerazione, un po’ più amara. Nella storia, culture e popoli, una volta a contatto, non si integrano, quasi sempre si scontrano, spesso si elidono (secondo la legge “maschia” del più forte che mangia il più debole), quando non scompaiono per auto-estinzione, per non essere riusciti a stare al “passo con i tempi“ utilizzando nuove metodologie di vita e tecnologie, come è successo al popolo Maya. La scomparsa di questi, infatti, al di là dell’alone di mistero che sempre l’ha avvolta, è solamente dovuta al fatto che i maya non conoscevano la ruota (per il trasporto di merci e persone) e la tecnica dell’arco romano in pietra nelle costruzioni (la cultura non è solo memoria storica, si tramanda, si conserva in una costruzione, in un tempio; banale ma è così). Sono quindi state le foreste, la vegetazione circostante, in questo caso, a far sparire (quasi) dalla storia i segni di quella civiltà.
Ma tornando allo scontro di culture e popoli. A noi (penso) viene facile accettare il fatto che l’antica Grecia abbia potuto caratterizzare per quattro o cinque secoli le civiltà mediterranee soprattutto grazie alla sua cultura, alla sua filosofia (che è alla base del pensiero moderno). Meno facile, invece (penso), è accettare il fatto che l’antica Roma abbia potuto governare per otto, nove secoli il mondo antico, soprattutto grazie alla sua forza-arguzia militare, “mangiandosi” quasi integralmente culture e popoli che incontrava sul suo cammino. Indubbiamente più difficile ancora è accettare (ed è quello che si è sentito venerdì sera raccontare) che culture e popoli indios americani siano spariti o quasi dalla storia per la violenza conquistatrice degli spagnoli.
Il fatto, però, che quasi sempre cultura mangia cultura non ci vieta di pensare “più positivo” e ritenere, per esempio, che, nel nostro quotidiano, trovandoci di fronte ad un pensiero “diverso” non bisogna attrezzarsi per mangiarselo, ma solo per confrontarcisi ed, eventualmente, ostacolarlo.
Grazie agli organizzatori e a quelli di Biassono in progess per la serata.
E.DL