IN VIAGGIO CON CRUCEROS AUSTRALIS
Cruceros Australis (www.australis.com) è da quindici anni una delle compagnie crocieristiche di riferimento per esplorare i territori patagonici, dal momento che offre l’opportunità di navigare lungo la rotta (anche inversa) Punta Arenas (Cile) – Ushuaia (Argentina), o semplicemente nell’area attorno a Punta Arenas. I pacchetti proposti, disponibili da settembre ad aprile, prevedono dalle 3 alle 4 notti a bordo, con tariffe variabili fra gli 840 ed i 1.120 dollari americani. Delle tre navi in servizio, l’ultima arrivata è Stella Australis (2010), ammiraglia da 210 posti distribuiti su 100 cabine (tutte con vista mare). I suoi cinque ponti sono dotati d’ogni comfort, a partire da sale pubbliche per la lettura ad una piccola palestra per mantenersi in forma fra uno sbarco e l’altro in gommone, senza tralasciare l’ottimo piano bar per consumazioni all-inclusive. Di altissimo livello la cucina (a buffet per colazione e pranzo, à la carte la sera), che propone piatti tipici di tradizione cileno-argentina, senza mai trascurare qualche specialità europea.
L’aspetto più qualificante si conferma però l’impegno della compagnia sul fronte ambientale e scientifico: grazie agli accordi con il Conaf (Corporacion Nacional Forestal) ed il Cequa (Centro de estudios del Cuaternario de Guego-Patagonia y Antertica), si fa carico d’azioni di manutenzione e conservazione di tutti i luoghi visitati (Parco nazionale Alberto De Agostini, Parco nazionale Cabo de Hornos e Monumento Natural Los Pinguinos), oltre che di una documentazione rigorosa sugli studi glaceologici, florofaunistici ed antropologici sulla regione. La scelta di privilegiare un turismo non di massa, al pari delle misure adottate per evitare l’inquinamento e l’alterazione ecologica dei siti visitati, fanno oggi di Cruceros Australis un eccellente esempio di ecosostenibilità.
LA CONQUISTA DI CAPO HORN
Niente bandiera, ma un attestato sì. Se Capo Horn è ormai saldamente in mano all’Armada Cilena e da un bel po’ di anni sono solo i suoi colori a svettare sul pennone di fronte al faro più a sud del mondo, i viaggiatori odierni possono provare ancora l’ebbrezza della conquista. Chi riesce infatti a raggiungere la vetta dell’isolotto ha modo d’acquistare una cartolina con apposita affrancatura (costo simbolico di un euro), se non un vero e proprio certificato con dedica, attraverso cui testimoniare l’epica impresa. In certi casi è anche possibile ottenere un timbro ufficiale sul passaporto. Accortezze che hanno trasformato il Capo – avvistato per la prima volta il 24 gennaio 1616 dalla nave olandese Hoorn - in una meta leggendaria non solo per capitani e lupi di mare, ma anche per collezionisti estremi.
Nonostante molte compagnie crocieristiche raggiungano l’isolotto a circa 55 gradi sud di latitudine e a 67 ovest di longitudine, lo sbarco non è mai scontato (ragion per cui ogni compagnia ha scelto di rilasciare un proprio attestato): il tempo è quasi sempre burrascoso, con fortissime correnti e venti che arrivano a toccare i 100 chilometri all’ora. Non c’è da sorprendersi se il Capo sia conosciuto come il più grande cimitero di navi al mondo (si contano più di 800 naufragi e oltre 10mila vittime a cavallo fra il XVI ed il XX secolo), né va sottovalutata la rapidità con cui gli organizzatori gestiscono le operazioni di sbarco in gommone. Pochi minuti di ritardo potrebbero risultare fatali. Ecco perché, in vetta allo scoglio, la Cofradìa de los Capitanes del Cabo de Hornos ha deciso d’inaugurare il 5 dicembre del 1992 un monumento che ricordasse tutti i marinai caduti. Ai piedi di albatros scolpito, l’uccello che si ritrova anche nel logo dell’associazione francese sotto cui si sono originalmente raccolti i capitani dei mercantili più intrepidi (International association of Cape Horners, 1937), riecheggiano i bellissimi versi della poetessa Sara Vial: “Sono l’albatros, che ti aspetta alla fine della Terra. Sono l’anima dimenticata dei marinai scomparsi, mentre navigavano attorno a Capo Horn da ogni mare del mondo. Loro non sono però morti nella furia delle onde: oggi volano sulle mie ali, verso l’eternità, nell’ultima fessura dei venti antartici”.
IL POPOLO INVISIBILE
Sono ovunque, eppur nessuno li vede. O meglio, nessuno vuole vederli. A partire dai governatori locali messi alle strette dalle loro pretese, ai turisti che vengono spesso adescati da chi ne sfrutta nome ed immagine. I Mapuche sono uno degli ultimi popoli indigeni sudamericani che, oltre ad aver sempre dato filo da torcere ai colonizzatori bianchi (i territori d’Araucania e Patagonia da loro occupati rimasero indipendenti sino al 1833), sono riusciti a conservare vive le proprie tradizioni e a renderle uno degli elementi d’interesse più affascinanti dei viaggi in Cile ed Argentina. Nonostante le continue lotte contro la speculazione edilizia sulle terre loro espropriate, contro le multinazionali assetate di risorse energetiche e terre fertili, così come a fronte di una repressione poliziesca dalle misure antiterroristiche criminali (ben documentate sul periodico ufficiale del Paese Mapuche www.azkintuwe.org), notevoli sono i contributi alla preservazione della propria cultura.
Quasi tutti i corredi in ceramica venduti in Patagonia sono infatti di matrice Mapuche, a partire dalle pipe kitra (usate per bruciare incenso durante le cerimonie religiose), alle pentole challas e alle brocche metawe o pitren (dalle fattezze antropomorfe e zoomorfe, in quanto anch’esse d’origine rituale). Raffinatissimi sono poi i gioielli, quasi sempre in argento e per lo più composti di placche o campanellini per allontanare gli spiriti negativi, così come i prodotti tessili: testimonial d’eccezione è stata per lungo tempo l’affascinante modella mapuche Ximena Huilipàn. Grande successo stanno infine incontrando i rimedi tradizionali a base d’erbe medicinali, venduti nelle apposite herbolerias mapuche, così come le nuove espressioni artistiche musicali e di poetica urbana (il cosiddetto movimento warriache). Chi poi avesse la fortuna di assistere ad un’esibizione di pailin (sorta di hockey indigeno per dirimere diatribe politiche) o ad una vera e propria cerimonia propiziatoria in costume (ad esempio il festival Winoy Tripantu a giugno), dove s’inscena la danza del nandu e si suona il tamburo kultrun, potrebbe realmente comprendere perché i Mapuche si autodefiniscano “Popolo della Madre Terra”.
PATAGONIA IN PILLOLE
Divisa fra Cile ed Argentina, la Patagonia è terra di giganti non solo per il nome che porta, ma anche per le sue stesse dimensioni. Magellano la battezzò in tal modo per via degli enormi abitanti che la popolavano al suo arrivo, nel 1520, mentre cercava una rotta più comoda che lo guidasse verso le Isole delle Spezie: pare infatti che i Selk’nam raggiungessero già all’epoca il metro e ottanta d’altezza, contro il metro e cinquantacinque degli iberici, e somigliassero dunque al buffo personaggio “Patagòn” descritto da Francisco Vàzquez nel “Racconto di un cavaliere errante”. Oggi occupa una superficie di ben 900mila chilometri, tale dunque da inglobare l’intero cono meridionale del Sudamerica, presentando una densità di popolazione piuttosto bassa (un milione 740mila abitanti, cioè 2.21 per kmq). Pianure steppiche si alternano ad enormi distese ciottolose prive di vegetazione, mentre l’alta piovosità delle Ande occidentali contribuisce al mantenimento dei maggiori ghiacciai al di fuori del continente antartico. Le temperature variano comunque dai 25 gradi in estate (che corrisponde al nostro inverno) ai meno 2 in inverno.
OSPITALITA'
Chi dovesse prendere parte ad una delle spedizioni proposte da Cruceros Australis si vedrà quasi sicuramente assegnato ai due hotel di riferimento della compagnia.
A Punta Arenas il nome d’obbligo è l’hotel Cabo de Hornos (www.hoteles-australis.com), un edificio storico degli anni ’60 eretto dalla Sociedad Ganadera Tierra del Fuego e ospitato sulla centralissima Plaza Munoz Gamero. Chi parte o sbarca invece ad Ushuaia farà riferimento al recente hotel Fueguino (www.fueguinohotel.com), un quattro stelle dal moderno design e comodamente ubicato alle spalle del corso principale della città, ovvero avenida San Martin.
Quanto alle specialità gastronomiche locali, il king crab si contende spesso il primato con l’agnello patagonico, insieme al merluzzo nero, alle trote e a frutti di mare dalle dimensioni esagerate. Basta dare un’occhiata al mercato popolare di Punta Arenas, nel cui edificio appena ristrutturato si trovano numerose tavole calde, oppure provare gli storici ristoranti Sototios e La Tasca. In alternativa, ad Ushuaia si possono seguire i consigli di Fuegolento (www.ushuaiaafuegolento.com.ar).
QUALCHE SUGGERIMENTO
Un viaggio in Patagonia, con i suoi profondi silenzi ed i tramonti interminabili, prende decisamente più gusto in compagnia di buone letture. Se “In Patagonia” di Bruce Chatwin è ormai un must, nonostante la sua visione un po’ estetizzante e neocoloniale, per uno sguardo alternativo sulla regione vale la pena dedicare un po’ di tempo a quattro testi più recenti: pubblicato in Italia solo nel 2010, sin dagli anni ’70 “Patagonia Rebelde” è stato un libro proibito, per via della cruda ricostruzione storica sulle lotte degli immigrati descritte da Osvaldo Bayer. Ne esiste anche un bella riduzione cinematogratica di Héctor Olivera, premiata con l’Orso d’Argento a Berlino nel 1974, oggi in competizione con l’altra pietra miliare del cinema patagonico: Geronima, interpretato dall’attrice mapuche Luisa Calcumil nel 1985. Più attuale risulta invece l’opera di Leslie Ray dedicata al popolo dei Mapuche, “La lingua della terra”, mentre il curioso “Cannibali, giganti e selvaggi. Creature mostruose del Nuovo Mondo”, scritto da Paolo Vignolo, è un ottimo saggio per meglio inquadrare quale fosse l’immaginario europeo all’alba dei grandi viaggi d’esplorazione. Chi si trova a proprio agio con l’inglese, può infine immergersi nell’interessantissimo “The indians of Tierra del Fuego”, resoconto di Samuel Kirkland Lothrop sugli abitanti indigeni nel 1928 (acquistabile su www.patagoniashop.net). Per gli appassionati di musica etnica, spiccano poi gli album Plata (2000), della cantante mapuche argentina Beatriz Pichi Malenm e Feley (2004), collaborazione del gruppo rock Superpatria con la comunità mapuche Organizzazione 11 Ottobre.
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