Se ne vanno fra risa e schiamazzi. Così, come se si stessero incamminando per una passeggiata in compagnia. Eppure all’orizzonte non s’intravedono che dune rocciose, costellate di arbusti rinsecchiti e, talvolta, di traballanti rifugi in lamiera. Ultime, sporadiche vestigia dei beduini che qui un tempo pascolavano le loro scarne capre e si meravigliavano di fronte ai presagi del cielo, mentre oggi li osservano con placida rassegnazione. Un giorno è un F16, che taglia l’aria come un pugnale affilatissimo, pronto a far fiottare l’azzurro dai nembi lividi. Un giorno è un missile Kassam, seme di un odio cieco, capace di sollevare solo interrogativi di fumo. Infine fanno irruzione pure loro, le allegre matricole, le belle soldatesse dalle chiome nere e fluenti e i rubacuori in divisa, con la kippah sul capo orgoglioso. Un po’ dandy. Un po’ ortodossi. Come ben s’addice a chi porta una papalina ricamata all’uncinetto, ribadendo a tutti che queste terre non sono più un rifugio per nomadi al di sopra della legge e della storia, ma dal 1948 – anno di fondazione d’Israele - la promessa di un Stato tuttora impegnato a tracciare i propri confini.
Riconoscerli in un ondivago susseguirsi d’avvallamenti assetati è però compito arduo, visto che un paesaggio simile si estende quasi ininterrottamente per più di 13mila chilometri quadrati, dalle porte del Sinai alle sponde del Mar Morto. Sulle carte geografiche assume le sembianze di un enorme triangolo, colmo di sabbie roventi, ciottoli acuminati ed illusori wadi, i letti dei fiumi che durano il tempo di uno sbadiglio e, qualora Provvidenza voglia, concendono scampo al passo degli smarriti. Perché il Negev non dà mai l’impressione d’essere un deserto senza speranza, quanto piuttosto un luogo di passaggio ove scontare i propri peccati e ritrovare un sé diverso da quello che qui inevitabilmente conduce. Coprendo quasi il 55% della superficie d’Israele, non può infatti permettersi il lusso di chiudersi in uno sdegnoso silenzio, facendo finta di non sapere cosa accada ai suoi margini tormentati.
Gaza è solo a pochi chilometri dalle propaggini sud-occidentali, mentre a Beersheba, la capitale della regione, affluiscono di continuo fondi governativi e forza lavoro per ridare giovinezza alle sue rughe millenarie. In ebraico la parola “Negev” significa appunto “secco”, “disidratato”, designando un’entità nella quale si conserva e può svilupparsi un principio di vita, purché questo venga alimentato con fede paziente e perseverante, una fede incapace di piegarsi all’impossibile. Esattamente la stessa che animò il primo ministro e fondatore dello Stato David Ben Gurion, di cui oggi il deserto accoglie le spoglie nei pressi del Wadi Zir, insieme a quelle dell’inseparabile moglie Paula: insieme lasciarono il governo nel 1954 e, sempre insieme, scelsero di vivere per due anni in una semplice capanna all’interno del kibbutz Sde Boker, animati dal sogno di vincere anche la resistenza del deserto, dopo quella degli inglesi e degli arabi. E’ proprio al suo memoriale che le allegre matricole sono dirette, in cerca della parola solenne che darà loro la forza per premere il grilletto ad appena 18 anni, o di lanciarsi oltre le nuvole di terra da cui il ritorno non è mai certo. Col sorriso sulle labbra, forse, ma l’inferno nel cuore.
Il Negev è la loro ultima tappa, lo specchio in cui osservare la propria storia che si fa luce ed ombra, entro il quale cercare le ragioni di un senso che può riaffiorare da secolari reperti di grotte sperdute, così come dall’aratro delle colonie agricole. “E’ chiaro che i fondatori e i costruttori dello Stato d’Israele non sono stati gli uomini politici, ma gli immigrati che hanno ricostruito il Paese con il sudore della fronte”. Nelle orecchie, ancora, le parole del grande Primo Ministro. Nelle mani, il peso della coscienza, nelle sembianze di un kalashnikov con la sicura innescata. Davanti a sé, solo un aut-aut: difendere la pace, o costruirla. C’è chi sceglie la via dell’esercito e chi quella dei kibbutz, che dopo gli anni di appannaggio seguiti al crollo delle utopie socialiste, tornano ad offrire risposte forse non così scontate come la retorica ha pedantemente ripetuto.
Ma hanno bisogno di solitudine. D’isolamento. Chilometro dopo chilometro, il mondo circostante comincia a trasfigurare. Le strade polverose si smarriscono lontane. I cavi dell’elettricità vengono inghiottiti dal vuoto. I benzinai dalle vetrine ricolme di bibite colorate cedono gradualmente il passo ai resti dei caravanserragli nabatei, pietrificati su colline di un ocra ostinato. Parole incerte e ferrei ordini si amalgano piano piano, sfumano nei versi di preghiere vetuste, si stringono attorno alle lunghe vesti nere di ragazze piegate sul dolore di una roccia, lo sguardo perso nell’infinito e i ricordi fermi alla sete del deserto, al clangore delle spade nemiche. A quei giorni del destino in cui Roma piegò l’orgoglio dei figli di Davide, e a quelli in cui la rinascita del proprio popolo scatenò la furia dei vicini. Quindi lo sbuffo di un vento esanime e la magia di un mondo che d’improvviso smette di girare su se stesso.
Silenzio. Luce. Cieli cobalto. E l’odore dolciastro della Terebinth che inonda le narici, il calore del sole che accarezza la pelle, come la mano pietosa di un padre che sa perdonare. Sempre.
Nella gola di En Avedad qualcuno trova il paradiso, benché nulla abbia in comune con l’Eden biblico. Attorno si levano montagne non più alte di 600 metri, la cui roccia biancheggia del tipico nitore che appartiene all’Eocene, attraversata però da neri strati di ere geologiche ancor più vetuste. Prima che la valle di Arava collassasse nel Grande Rift, qui scorrevano infatti acque che avevano il sapore salmastro del Mediterraneo. Oggi le piogge stagionali ne richiamano vagamente la memoria, eppure - anno dopo anno - continuano a scavare friabili canyon che possono dispiegarsi sino a 20 chilometri di lunghezza, intervallando idilliche cascate, canneti dai misteriosi fruscii e dalle scure paludi, grotte con incisioni rupestri risalenti ad oltre 45mila anni fa. Vere e proprie oasi di vita, tutelate dal parco nazionale che porta il nome stesso della gola più importante, ma rispetto a cui le uniche insidie giungono solo dai ghiri del deserto, dagli stambecchi nubiani o dalle acrobatiche picchiate degli storni di Tristram. Chi conosce a memoria i versi della Bibbia, qui ritrova esattamente gli animali e le piante di 5mila anni fa, proprio come se il tempo si fosse fermato e nelle sinuose venature delle pareti rocciose fosse stata scritta una storia destinata a ripiegare in sé, a chiudersi nel circolo delle domande eterne che attanagliano ugualmente l’uomo disorientato d’oggi, al pari del timoroso antenato di ieri. Quando i nomadi del deserto s’imbatterono per la prima volta nei tre grandi crateri che costellano la superficie del Negev, non trovarono infatti altra spiegazione, se non quella di associarli alla manifestazione in terra di un “dio del fuoco”: luce misteriosa che, di tanto in tanto, attraversava sotto forma di cometa luminosa i cieli da loro usati come mappe stellari.
Negli ovali scolpiti nel terreno, il più grande dei quali – il Makhtesh Ramon - raggiunge i 40 chilometri di lunghezza e i 9 di larghezza, venature di un nero ardente si commistiano all’arido marrone del suolo: tinte ulteriormente saturate dalle immense ombre che pareti rocciose, alte sino a 1.037 metri, proiettano ai loro piedi. Per secoli i ritrovamenti di materiale vulcanico e magmatico, di fossili e complesse stratificazioni basaltiche, hanno indotto a pensare che i crateri fossero stati generati dalla caduta di meteoriti, verificatasi presumibilmente oltre 220 milioni di anni fa. Grazie al Centro Studi della Riserva Naturale Makhtesh Ramon, è stato invece appurato che queste impressionanti voragini della Terra sono in realtà frutto di un’attività carsica iniziata assai più tardi, attorno ai 110 milioni d’anni fa, intervallando all’invasione delle acque nel Basso Cretaceo fasi di spinta verso l’alto del sostrato terrestre, in modo da creare scompensi geologici a causa dei quali, infine, si è verificato un collasso asimmetrico delle superfici più esposte.
Oggi i crateri rappresentano un habitat protetto per le più svariate specie animali e floreali, grazie anche all’altezza delle pareti rocciose che favoriscono un clima continentale in una regione prettamente desertica. Molto diffusi, ad esempio, sono il Gymnocarpus o l’Anabasis, piante capaci di trattenere l’acqua e indispensabili ai beduini per sopravvivere nei lunghi viaggi attraverso il deserto. Né va sottovalutato il contributo delle proprietà medicamentose del bush locale, formato per lo più da contorti cespugli di Ochradenus e Moricandia. Questi tesori botanici hanno fatto sì che il Negev, nonostante le sue ardue condizioni di vita, continui ad essere attraversato da intrepidi amanti del trekking sulle orme delle antiche popolazioni carovaniere, la più illustre delle quali risulta ancor oggi quella dei Nabatei: i creatori di Petra, oltre che i padroni delle spezie per tutto il periodo dell’antichità classica. Dei loro avamposti sopravvivono solo desolate spoglie, città fantasma coperte di sabbia quali Avdat, steli miliari enigmaticamente infisse nel terreno e facilmente confuse con le masseboth, pietre sagomate senza volto che – a loro volta - ricordano l’apparizione di quel “dio del fuoco”, preannunciante forse la fine dell’età del Bronzo.
Nelle ferite del deserto, d’altra parte, l’uomo ha sempre letto i segni di un’imminente Apocalisse. Ancor oggi li scorge nelle smorfie disperate dei profughi, in fuga da terre o accampamenti che la geografia dei confini cancella senza appello. Li coglie nel volo ossessivo delle mosche attorno alle costole di uno stambecco, ferito a morte dopo un combattimento per una pozza d’acqua. Un tempo li riconosceva invece nelle preghiere degli Esseni, quei Figli della Luce le cui frange estreme, sconfitte dalla storia, qui mortificavano il proprio corpo cercando giustizia eterna nell’anacoresi. Folle cecità di chi scambia il silenzio degli spazi per l’azzittimento del desiderio, dimenticando che uomo e Dio sono pur sempre fatti della stessa sostanza, e che la banalità del Male, assai più facilmente di quanto si creda, abita sempre il rovescio della straordinarietà del Bene.
Manicheismi del deserto. Verità mutevoli quanto il Verbo della genesi, che fra rocce millenarie, sorgenti nascoste e fenditure vertiginose, crea e distrugge alla ricerca di un mondo a venire.
TESORI OCCULTI
C’è chi è pronto a scommettere che il ricchissimo tesoro del Tempio di Gerusalemme, portato in salvo prima della distruzione romana, sia nascosto nel deserto della Giudea. Chi, invece, sostiene sia stato occultato nelle grotte del Negev. Stando infatti al cosiddetto “rotolo di rame” ritrovato a Qumran, il sito che nel 1947 rivelò al mondo i misteri della comunità degli Esseni, è nei luoghi da loro un tempo abitati che sarebbero state messe in salvo le preziose spoglie. Gli Esseni, o Figli della Luce, furono probabilmente una delle quattro sette che si distaccò dal movimento degli Asidei (“i pii”), nato attorno al II secolo a.C. per contrastare l’ellenizzazione degli ebrei e confidente nell’arrivo di un Messia capace di riscattare il proprio popolo. Alcuni li considerano piuttosto Zeloti disillusi, ovvero ex membri del movimento armato che cercò di contrastare Roma, sino alla definitiva e tragica sconfitta di Masada (il forte di Erode dove si suicidarono in massa, dopo anni d’assedio). Tutti riconoscono però loro enormi poteri taumatugici (la parola “esseno” deriverebbe da asya, medico in aramaico), derivanti dall’impiego di erbe miracolose di cui proprio il Negev, più che il deserto di Giudea ove Qumran si trova, sarebbe custode. Grazie a queste – stando alla missiva di un esseno di Palestina e ai vangeli “apocrifi”, fra cui “Il Vangelo degli Ebrei” – Gesù venne curato all’interno del sepolcro, non essendo ancora morto dopo la deposizione dalla Croce. Ripresosi, tornò a viaggiare in Oriente (dov’era stato in gioventù prima d’iniziare a predicare in Palestina), assumendo l’identità di Yuzu Asaph per non farsi riconoscere dai Romani. Qui avrebbe continuato a diffondere la sua parola, instillando i semi del buddismo, prima di morire ed essere sepolto in Kashmir. Il “Gesù esseno” è protagonista di diversi studi, da quelli del viaggiatore russo Nicolas Notovich (autore de “The Unknow life of Christ”, 1895), alle ricerche del sufi Fida Hassnain (“Sulle tracce di Gesù l’Esseno”, 1997), ma sono testi ferocemente osteggiati dalla Chiesa, tanto d’aver portato al suo diretto coinvolgimento nell’occultazione di testimonianze giudicate “sovversive” rispetto ai Quattro Vangeli.
MUSICA D’ALTRI TEMPI
Se la musica e i ritmi dei beduini del Negev sono oggi patrimonio comune, grande merito va soprattutto al produttore israeliano Idan Raichel. Appassionato di culture esotiche, è riuscito a far convergere le influenze etniche più disparate in un’affascinante amalgama di suoni, usando principalmente la lingua aramaica per i testi e le strumentazioni etiopi come base di composizione. Questa formula si è rivelata esplosiva per il mercato israeliano, proiettando in breve tempo l’artista ai vertici delle classifiche nazionali, sino alla definitiva consacrazione sui palchi di Londra e New York. Se il primo album del 2002 ha entusiasmato proprio per la freschezza dell’approccio (“The Idan Raichel Project”), le opere successive hanno accentuato ulteriormente l’originalità delle sperimentazioni musicali, andando ad attingere proprio alle radici nomadi della tradizione ebreo-palestinese. Sia “From Depths” del 2005, che il recente “Within my walls” del 2008, sono deliziosi esempi di world music dalle forti suggestioni, dal momento che aiutano a riassaporare l’atmosfera degli spazi vergini e l’intimità delle voci nel vuoto. Piano piano accanto agli interpreti israeliani si stanno poi affiancando nelle canzoni giovani talenti di tutto il mondo, come la colombiana Marta Gomez, Sumi dal Randa o Mayra Andrada da Capo Verde. E chissà che il prossimo passo non veda proprio la promozione dei beduini del Negev a cantanti di prima linea, dopo aver fornito le basi ritmiche più coinvolgenti delle opere prodotte.
L'UOMO CHE SFIDO' IL DESERTO
“Il deserto ci fornice l’opportunità di un nuovo inizio. E’ un elemento vitale del Rinascimento d’Israele, perché padroneggiando la natura s’impara a controllare anche se stessi. In questo senso, più pratico che mistico, riconosco la nostra Redenzione su questa terra. Israele deve continuare a coltivare la sua nazionalità e a rappresentare gli Ebrei, senza rinunciare al suo glorioso passato. Non è un compito facile, ma può essere adempiuto proprio attraverso il deserto…Gli alberi di Sde Boker mi parlano differentemente da qualsiasi altro piantato chissà dove. Non semplicemente perché io stesso ho partecipato alla loro piantumazione e al loro mantenimento, ma perché rappresentano anche un dono dell’uomo alla natura ed un dono degli Ebrei alla ricomposizione della propria cultura”.
E’ con queste parole che il fondatore dello Stato David Ben Gurion giustificò la sua uscita di scena dalla politica nazionale, dopo essersi ritirato nel kibbutz di Sde Boker – nel cuore del Negev - agli inizi del 1953. Fu un gesto di grandissimo impatto sul suo popolo, perché dimostrò con fermezza la volontà di trasformare ogni centimetro di terra conquistato nella casa di ciascun ebreo. Sia che fosse già rientrato nei confini patrii, dopo la diaspora seguita alla distruzione romana del tempio di Gerusalemme (70 d.C.), sia che dovesse ancora adempiere alla aliyah, l’immigrazione verso il nuovo stato israeliano riconosciuto nel 1948. Oggi la capanna in cui visse a fasi alterne sino al 1973, anno della sua morte, accoglie un’esposizione sulle famose dichiarazioni dello statista e sulle foto documentanti le imprese agricole dei primi anni, oltre ad una biblioteca privata con più di 5mila testi, mentre poco più a sud si trovano l’Istituto di ricerche del Deserto ed il memoriale Ben Gurion. Si affacciano sullo scenografico crepaccio di Nakhal Tsin, al di là quel quale sono fioriti negli anni numerosissimi kibbutz – le colonie agricole basate sul principio della condivisione socialista - che proprio oggi stanno rivivendo una nuova epoca d’oro, essendo riusciti a convertire o integrare i propri spazi con originali strutture d’accoglienza per il turismo (www.kibbutz.co.il).
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