Un
fiotto di vino scuro e corposo inondò le fenditure del tavolino traballante.
Franco non era riuscito a trattenere nella mano callosa l'ultimo calice della
serata. Inspiegabilmente era sfuggito alla sua presa, come già i sogni della
giovinezza. Pochi secondi prima lo aveva ammirato tenendo le orbite spalancate:
luccicava solitario sul legno rigonfio dell'unico angolo di mondo che sapeva
prestare ascolto al suo canto di disperazione. Ma non appena si era deciso ad
allungare la mano per agguantarlo rabbioso, la sua immagine si era sdoppiata: una,
due, tre volte addirittura.
Ora
non aveva la più pallida idea di dove fosse rotolata quell'estrema illusione,
perché le palpebre si erano abbassate con la stessa inesorabile impertinenza
delle saracinesche da osteria, ponendo fine ad amari festeggiamenti. Si
lasciava cullare dal profumo di vite cotta al sole, scagionato violentemente
dai rivoli purpurei lungo i quali si spegnevano le sue lacrime invisibili.
Fu
forse in seguito ai propositi di rivalsa che cercavano di riscattare notti come
queste, che mi capitò di leggere gli scritti di Franco. Sino ad allora ne avevo
sentito parlare solo vagamente e di lui avevo maturato un’immagine poco
definita.
Lo
incontrai faccia a faccia, per la prima volta, nei corridoi di una scuola
elementare, sul far dell’alba. Erano ancora in corso gli scrutini per le
elezioni: al di là di qualche rappresentante di lista, intento a fumare fuori
dai seggi, l’edificio appariva deserto. A me era toccato il compito di
raccogliere sul posto i dati da trasmettere alla redazione del giornale per cui
scrivevo. Stordito dalle divagazioni sindacaliste di un anziano con problemi
d’insonnia, che desiderava a tutti i costi redarguirmi sulle sorti del paese,
venni salvato dall’arrivo di Franco.
“Sigaretta?”
- aveva chiesto barcollando
“E’
l’ultima. Goditela lentamente”, rispose infastidito l’attivista canuto
“E
sia!”
Non
so perché, ma lo scambio di quelle semplici battute, cadute all’improvviso fra
immagini di rivolte luddiste e braccia incrociate, mentre milioni di persone
giacevano nei propri letti ignare delle sorti del mondo, mi regalò una
sensazione d’incredibile leggerezza. Fuoriuscito dalle ombre più infide,
portandosi appresso l’odore del vizio, un uomo sconosciuto aveva l’impudente
innocenza di domandare ancora. Di sollecitare un peccato che lo aiutasse a
dissolvere la sua richiesta nella soave impalpabilità del fumo aromatizzato.
Prima
di andarsene soddisfatto, ghignò facendo gravare il suo sguardo sul vecchio
insonne: “Augusto, troppa prosa stanca!”. Possedeva l’indubbio fascino del
ribelle decaduto, privo di mezzi, umiliato nella dignità impettita, ma
nonostante tutto sferzante. Senza contare la galanteria dei suoi gesti,
accentuata dai volteggi ossequiosi di uno smunto cappello di panno o dalla
vigorosa stretta di mano, immancabilmente accompagnata da un leggero inchino.
Passarono
mesi prima del secondo incontro. Franco, questa volta, apparve in mezzo alla
folla accorsa per il rinfresco d’inaugurazione dell’ufficio postale,
mimetizzato fra le pesanti pieghe di un cappotto fuori moda, quanto mai utile
per preservare la sua cagionevole salute dai rigori d’inizio dicembre: un pesce
fuor d’acqua, in mezzo alla calca di persone che lottavano a denti stretti per
impadronirsi di una tartina in più, mentre sciorinavano complimenti asfittici
per il nuovo visone del vicino.
“Scrivi
su qualche giornale, non è vero?” , domandò alticcio
Una
collega dell’ufficio stampa, intenta a decantarmi con audace civetteria i pregi
della sede appena aperta, si allontanò a capo chino, lanciandomi un’occhiata
allibita.
“L’ha
dedotto dal blocchetto per gli appunti?”
“Sei
conosciuto, ormai!” Obiettò con l’indice rivolto al cielo
“Senti;
anch’io scrivo, ogni tanto. Versi, poesie, talvolta riflessioni che scottano:
roba un po’ scomoda. Dai un’occhiata a questo materiale” - e sfilò dalla tasca
del cappotto alcuni fogli spiegazzati - “magari si può pubblicare qualcosa”.
La
scena aveva stuzzicato le male lingue di paese. Udivo dei cicalecci alle
spalle, ma ancora infastidito dalla vigliacca fuga della mia collega, cercai di
adottare un contegno professionale mai conosciuto prima, dispensando tutta la
stima e l’onore che il contatto con un giornalista, adulato zerbino pronto a
regalare briciole di notorietà a chiunque, potesse riversare su una persona
comune.
“Ne
sono molto onorato” - osservai accogliendo il plico – “ma forse dovrà attendere
qualche settimana. La cronaca furoreggia in questo periodo. Per ogni evenienza
mi lasci pure un suo recapito”.
Quanto
avrei dato per potermi voltare di nascosto e sorprendere mille espressioni di
gelosa stizza sugli abbronzati visini di tutti quegli ipocriti! Resistetti alla
tentazione, pregustandomi una vendetta molto più sottile.
Inaspettatamente
fu però Franco a telefonarmi. In qualche modo era riuscito ad ottenere il mio
numero di casa: più temporeggiavo, più le sue richieste di chiarimento
divenivano di giorno in giorno insistenti e squillanti. Domandava senza nutrire
alcuna pretesa. Desiderava semplicemente sapere. Gli sarebbe bastato un
giudizio. Null’altro. Al contrario, io mi ero riservato di utilizzare il suo
materiale sul numero del giornale di maggior impatto.
Gli
fissai un’intervista per un venerdì sera, nell’osteria a lui tanto cara. Ancor
prima di mettere piede nel locale, tuttavia, cambiai idea. Lo prelevai mentre
degustava un bianchino, deciso a condurlo segretamente nella defilata redazione
del paese. Celati dalla notte come due temibili massoni. Non nevicava; anzi, soffiava
un vento alquanto leggero, fine, poco adeguato all’atmosfera natalizia che le
sinuose cascate d’illuminazioni erano chiamate a soffondere per le vie del
centro storico. Ciononostante, rapito dalle melense suggestioni dell’Avvento,
mi sentivo come un angelo precipitato fra taverne fumose e muri crepati, mosso
dall’irrefrenabile desiderio di salvare un’anima peregrina.
L’idea
della redazione si rivelò un’arma a doppio taglio. Fui costretto a svolgere
l’intervista in mezzo ad alcuni appassionati di montagna che saltuariamente, il
venerdì sera, condividevano lo stesso locale.
“Quando
ha iniziato a scrivere? Ha mai pubblicato qualcosa, in precedenza? A chi sono
rivolti i suoi testi?” - infilavo una domanda dietro l’altra, consapevole del
fatto che le mie parole si stemperassero in flebili acuti, non appena
giungevano alle orecchie di Franco, amplificandosi centinaia di volte, quando,
al contrario, un sorriso malizioso faceva capolino sulle labbra degli uditori
disinteressati.
Le
rughe del suo volto parevano scolpite nel granito. “Insomma!” - sbottai esausto
“perché compone poesie?”.
“Per
lasciare un segno”.
Avrei
dovuto costruire un articolo su quattro parole. Una sfida al limite
dell’ermetismo. Ma nel momento in cui Franco mi strinse la mano, fissandomi con
gli occhi lucidi, realizzai che non avevo alcun bisogno di altre informazioni.
Era stata una stretta vigorosa, calda, attardata. Quasi volesse aggrapparsi
alle dita cui aveva affidato la speranza di una vita intera. Di fronte alla
fuga degli anni, persino lo sprezzo che riservava alle istituzioni si era ormai
stemperato. Per preservarsi, la memoria doveva soggiacere ai capricci del caso.
Giunto
profugo da un paese in guerra, era cresciuto in un ambiente inospitale, ancora
lungi dal benessere che, di lì a poco, avrebbe addolcito il pianto di una nuova
generazione. Voci anonime mi avevano confessato che, sin da giovane, era solito
vagabondare fra le macerie delle case distrutte o nei vicoli privi di luce, in
cerca di uno sguardo che lasciasse trasparire, con spontaneità, l’orrore per
l’annientamento e l’incontenibile gioia della vita. La rabbia della miseria, al
pari della forza d’animo. Quel sottilissimo margine di contatto che scandisce
il confine fra il bianco e il nero, in cui ogni ragione affonda, per poi
riemergere consapevole del vuoto abissale.
Accomiatandosi
sulla soglia della redazione, ormai lontano dai suoi denigratori, in un impeto
di evanescente lucidità, Franco mi confessò la sua paura più oscura.
“Bianco.
Ostinatamente bianco. Per quanto mi sforzi di scrivere, il foglio su cui calco
oggi la mia penna ostenta, di volta in volta, un sovrano distacco. Quasi avesse
l’ardire di rispecchiare il candore delle nuvole estive, il silenzio dei
ghiacci, la purezza dell’origine intonsa. Proprio non avverte l’impercettibile
ansia che mi rode, che si contorce nel disegno ricurvo di lettere misteriose.
Attende beffardo, perché sa bene che qualunque segno io tracci sul suo manto, è
comunque destinato ad affondare lungo pieghe annoiate. Non sono che macchie,
per il suo aristocratico sdegno”.
“Ma
io ho apprezzato il materiale che mi ha consegnato” - obiettai compassionevole
– “non l’ha forse scritto di recente?”
“Appunto.
Non ha sapore. Non è figlio di alcuna emozione, bensì di ricordi annebbiati, di
fumi ottenebranti. Ho ricercato a lungo il mistero della vita e della morte,
convinto potessi sostenere la sua vista. Ho perso dapprima il lavoro, quindi
una moglie. Sono stato abbandonato da amici e parenti. Intendo dai veri amici,
dai congiunti di spirito”.
“Ma,
ma ci sono persone che apprezzano realmente i suoi lavori. Mi hanno detto che
lei distribuisce nelle osterie del paese copie delle sue poesie. Non le ha
lette anche il quartetto che gioca a scopa d’assi? Non è stato proprio lei a
volere i suoi compagni di bevuta
come unici destinatari, quale uditorio privilegiato? La sua poesia è rivolta a
loro, a chi non ha ancora smesso di sognare, a chi sa riconoscere in un
bicchiere di vino rosso l’occasione per stringersi accanto al vicino, per
confidarsi senza veli. Mi creda, è molto più che un’effimera consolazione!”.
“Forse
dovrei solo abbandonarmi a un insulso peregrinare fra le invisibili dune dei
fogli” - riprese con sguardo assente “ove il tempo è condannato a dissolversi
in nervose spirali. Eppure m’invitano di continuo! Dio mio, quanto pesa una
confessione, quant’è arduo aprire il nostro cuore al severo sguardo della
ragione, sottrarsi ai trabocchetti della retorica, rivoltando la cruda
insoddisfazione che avvelena il passo trascinato. Sai, spaventa l’idea di non
avere alcunché da raccontare: siamo aridi, siamo diventati aridi, senza avere
l’umiltà d’ammettere che fra le dita, oggi, stringiamo solo un’arma spuntata,
cigolante e arrugginita. Oh, sono ridicoli i virtuosismi fuori moda! Ci rendono
grotteschi e imbolsiti. Dov’è dunque fuggito il nemico?”.
Si
allontanò a capo chino. Ero la sua ultima speranza.
Già,
il nemico. “Il nemico non si è presentato al duello!” - avrei dovuto
controbattere. Lo abbiamo aspettato con trepidazione, benché odioso. Non ci
siamo mossi di un centimetro dalla nostra solida postazione. Per anni interi.
Ma lui ha disertato. Probabilmente non ci reputa neppur degni d’incrociare il
suo sguardo sprezzante. O forse sta chiedendo di mettersi in cammino, di
stanare le sue orme allusive e sfidarlo alla luce del sole, lontani dalle
infide suggestioni che una fantasia offesa tesse nella penombra. Ebbene sì, ha
paura. Teme l’olezzo della nostra anima ammuffita, ancor più di un fodero
bucato.
Franco
non aveva neppur avuto la fortuna d’inforcare le pale di un mulino. L’alcool
aveva fatto presto terra bruciata. Non c’era più alcuna via di ritorno dalla
terra in cui si era smarrito, gettandosi con leggerezza all’inseguimento delle
sue insidiose tentazioni. Lucidamente conscio del rischio che avrebbe potuto correre.
Non
so che cosa abbia visto oltre le sue dune, se il gioco sia valsa la candela. I
suoi vecchi scritti, gli scritti per cui la gente del paese lo aveva
esorcizzato disprezzandolo, si erano consumati sotto le bottiglie delle
osterie. Finendo in cassetti disordinati. Dietro mobili polverosi. Ormai erano
solo schegge, frammenti dispersi di un passato senza memoria. I versi di
oggi erano l’ombra scavata del suo
ingegno: un bambino diligente avrebbe saputo cantare altrettanto, se non di
meglio. Ma di certo non l’avrei data vinta a quella massa di stolti, che non
aveva saputo cogliere i fragili fiori di Franco, semplicemente perché assillati
dalla necessità di sfornare mattoni e sradicare erbacce dagli orti di casa.
Scelsi
una delle sue poesie natalizie. La presi per mano, le diedi una veste
rispettabile, la incorniciai al centro della pagina, affinché nessun lettore
del mio settimanale potesse scansarne la vista.
L’effetto
finale non mancò l’obiettivo. Titoli sontuosi, rabbia scoppiettante e piumata
delicatezza avevano finalmente riscattato le rughe di Franco. Come per magia,
le parole stampate avevano orientato i riflettori della ribalta sull’eterno
buffone, sull’immarcescibile anonimo dell’osteria all’angolo.
Sprofondato
nella mia poltrona di velluto, potevo dunque attendere i rintocchi del Natale
con gli occhi chiusi e il capo reclinato. Cullato dal mio carezzevole
filantropismo. Il suono delle campane fu però anticipato dal telefono.
“Si?”
“Salve,
sono io, Franco!” - la sua voce tremava, eppure distinguevo chiaramente la sua
immagine, potevo persino intuirne le più minute reazioni “E’ stato un articolo
davvero ben fatto. Ho solo una parola: grazie!”.
Grazie.
E ancora grazie. L’eco di quel mugugno un po’ catarroso fu sufficiente per
riempire i silenzi d’interi decenni. Di una vita che non si era persa nell’indifferenza
della beffa.
“Ma…perché
non fai un salto qui, in osteria?”.
Il
sangue mi si ghiacciò nelle vene. Il cuore, per un attimo, smise di battere.
Che cosa significava quel “ma”? La storia era finita, il lieto epilogo
natalizio ne sanciva la favola, la poesia era tornata a risplendere fra gli
aghi degli abeti addobbati. Eppure Franco mi voleva al suo cospetto. Chiusi la
porta, tornando sulla strada che iniziava a ghiacciare.
La
sedia mi attendeva severa, appena discosta dal solito tavolino traballante e
illuminata dalla fioca luce di una vetusta lanterna. Il freddo siberiano aveva
fatto saltare l’interruttore dell’impianto generale.
Mi
guardai attorno perplesso. Non c’era nessuno. Franco sedeva infagottato nel suo
cappotto fuori moda, con le dita bluastre saldamente avvinghiate alla
bottiglia. Accanto, due bicchieri ancora vergini. Ormai non potevo far altro
che accomodarmi.
“Ma…quella
non era la mia poesia”.
Non
ebbi il coraggio di sostenere il suo sguardo. Si ergeva coriaceo e tozzo di
fronte alla mia figura contrita. L’idea di aver sfregiato in quel modo orribile
la sua dignità d’artista, non mi aveva sfiorato neppure per una frazione di secondo.
Mi ero dimostrato più ottuso degli stessi compaesani che tanto a lungo avevo
disprezzato.
Per
un po’ udimmo solo il ticchettio delle gocce che, con ossessiva regolarità,
cadevano nel lavandino del piano bar.
“Dunque
ho commesso un errore. Già, che sciocco! Il peggiore degli errori”. Non avevo
lottato per Franco, ma solo per me. Non avevo riscattato la poesia, ma avevo
pugnalato la fiducia di un innocente.
“In
fondo non è colpa di nessuno” - biascicò stanco – “vivendo nella mediocrità, a
poco a poco, senza neppur accorgercene, diventiamo terribilmente miopi. Anzi,
no: direi presbiti. Guardiamo lontano e confondiamo le linee dello spazio,
semplicemente perché abbiamo perso di vista ciò che ci sta sotto il naso. A me
sarebbe bastato lasciare una sparuta testimonianza nel tempo. Un’impronta mia,
solo mia. Per quanto disdicevole o meschina. Non m’importa della gloria”.
“Non
so che dire. Sono mortificato”.
“Non
ha importanza. Per una volta cerchiamo di prestare davvero ascolto al silenzio,
senza nutrire la pretesa di colmarlo con tante futilità”.
Versò
del vino in entrambi i bicchieri. Quindi mi allungò il calice della
conciliazione.
“Ho scelto, di essere amico nel mondo nemico;
poca sarà la ricompensa, ma grande l’amore! Malgret tout!”
“Era
fra i tuoi fogli. E’ un verso bellissimo”.
“Già,
oggi ancor di più. Sai, i medici mi hanno imposto di non toccare più una goccia
di vino. Hanno detto che potrei lasciarci la pelle. Da un momento all’altro. Ma
tant’è! Alla salute, amico mio!”.
“Alla
nostra!”
Mentre
faceva ritorno sulla strada, mi chiesi per quale motivo avesse deciso di tenere
sotto braccio il foglio di giornale su cui avevo pubblicato l’articolo. Non l’ho
mai saputo. Pochi metri fuori dall’uscita, Franco rantolò a terra. Senza
sorridere, né piangere.
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