"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

lunedì 1 dicembre 2003

SABBIE SILENTI



Giungere nella capitale libica il 21 novembre, “giorno del destino” in cui l’arcangelo Gabriele annunciò a Maometto la rivelazione del Corano, permette di pregustare con rara delicatezza la sacra solitudine delle dune del Fezzan. Sino a tarda sera Tripoli è infatti avvolta da quell’atmosfera di pia dedizione che riempie le vie dell’eco dei passi, così come del respiro paziente di chi è impegnato a rispettare il digiuno del Ramadàn: avvicinarsi al deserto comporta innanzitutto il prendere coscienza di se stessi, riscoprire i singulti del proprio corpo, lasciarsi irretire dal fascino del non detto. E’ questo l’unico modo per non venir sopraffatti dall’assordante incalzare delle domande che, a dispetto della vacuità aleggiante fra altopiani desolati e gole sabbiose, deborda presto oltre le labili verità che trincerano gli occhi del visitatore.
Al di là della capitale si apre infatti una terra ostica ed avara, una terra che impone il suo modo d'essere, ancor prima di concedersi in tutto il suo segreto splendore, animato da geometrie dorate pronte a dissolversi come fossero sogni eterei, non appena si insidino i sabbiosi avvallamenti dell’Erg Ubari: qui si celano una ventina di laghi dalle acque salate, ove canne e palmeti lussureggiano inspiegabilmente, facendo degli specchi di Umm-el-Ma (La madre delle acque) e di Mandara puri miracoli della natura. 

Tanto misteriosi quanto vitali dovevano infatti apparire ai Duanda, i beduini che nel 1882 irruppero nella storia come "mangiatori di vermi", allorché il distinto esploratore britannico Walter Oudney ne riferì scandalizzato le  pittoresche usanze. Si trattava in realtà dei minuscoli gamberetti catturati setacciando proprio i bassi fondali lacustri, ancor oggi base dell’insolito condimento che insaporisce il pane barattato coi  Tuareg di passaggio. Costeggiando l’imperturbabile massiccio arenario del Messak-Settafet, lungo il quale si alternano cammelli allo stato brado a dotti petroliferi in fase di costruzione (collegati al secondo giacimento brend del mondo, dal prossimo febbraio in concessione all’Agip), i giochi di luce che aizzano dune sempre più scoscese si stemperano piano piano nella poesia cromatica cantata dalle gole dell’Acacus: uno scenario surreale di scuri monoliti di basalto tutelati dall’Unesco e, molto probabilmente, plasmati dalla mano del tempo per scatenare le ibridazioni della fantasia con le figure dell’inconscio.

Ma non è la sola natura ad aver generato opere d’arte, bensì l’ingegno dei primi uomini che abitavano queste terre un tempo prodighe di pascoli, inaridite poi dai mutamenti climatici: a Uan Amil, così come a In Farden o a Tin Tarharit, si sono conservate alcune delle più rilevanti pitturi rupestri dell’antichità. Scene di vita quotidiana, quali la preparazione dell’acconciatura rituale, la vestizione o la caccia al muflone, hanno permesso  di ricostruire le fasi evolutive delle popolazioni locali, distinguendo periodi artisticamente ben differenziati nell’arco di quasi 12mila anni dalla nascita di Cristo: in base alle indicazioni dello studioso Fabrizio Mori, è ormai facile riconoscere le testimonianze della "grande fauna", delle "teste rotonde" o dell'epoca "pastorale", cui hanno fatto poi seguito quelle del "cabalino" e del "camelino". Pitture d'impressionante plasticità, dunque, ottenute frammentando rocce contenenti ossido di ferro, pronte però ad alternarsi con incisioni sempre vividissime, come quelle realizzate fra le fenditure del Messak-Settafet, in cui bovidi, giraffe, elefanti e gatti mammoni, insieme a figure itifalliche, parlano senza misteri d'inquietanti pratiche sciamaniche ormai estinte.

Un autentico bestiario del Fezzan attraverso cui comprendere lo strettissimo legame venutosi a creare fra il mondo animale e quello delle etnie locali, rappresentate dai mitici Garamanti, dai Berberi, dai Tebu e naturalmente dal popolo che oggi risveglia le suggestioni più intense, i Tuareg dal volto blu. Sono loro i veri padroni di queste terre, le imprescindibili guide cui affidarsi per trovare percorsi spettacolari nei labirinti di roccia e sabbia che si commistiano sino all’immenso mare di sabbia del Murzuq, il “deserto” per eccellenza. Abbandonarsi all’ipnotica litania dei loro canti attorno al fuoco, seguire i loro alati passi nelle danze sotto le costellazioni scintillanti, assaporare l’indescrivibile fragranza del Taajeelah (un pane fatto di sola farina, acqua e sale, cotto sotto la sabbia) sono esperienze semplicemente commoventi, che educano a riappropriarsi del mondo sotto una prospettiva ludica, ma mai ingenua. In una società strozzata da fili invisibili e sfibrata da ritmi ossessivi, gli ameni regni del Fezzan non hanno infatti alcuna pretesa di offrire una via di salvezza o di redenzione. Esistono, nulla più; ed è forse questa scabra verità ad illuminare l’infinita ricchezza che alberga nella povertà assoluta, l’urlo dell’evidenza che travalica qualsiasi scrittura del mondo.


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