Oasi di meraviglie naturalistiche, sogno proibito dei giovani disoccupati, ma anche nido d’amore per sposini in cerca di rudi emozioni, l’Australia d’oggi è la nuova Terra Promessa del viaggiatore insaziabile.
Eppure le sue rughe millenarie nascondono un’anima nera come la pece.
“Non devi imitarlo! Tu...Tu sei il canguro!”. Sarà pure; ma là dietro la coda proprio non sbuca. Solo due tasche di jeans, ormai piuttosto logore ed impolverate. Barry pretende una metamorfosi al limite dell’impossibile: allungare l’indice e il medio sopra le orecchie, dilatando le narici e balzando a scatti improvvisi, sembra un gioco da ragazzi, ma la goffaggine dell’apprendista finisce per rovinare tutto. Più che ad un marsupiale in allerta, l’uomo bianco somiglia immancabilmente ad un emerito pagliaccio. Incespica nei propri passi, deforma il volto in espressioni imbarazzanti, si dimentica persino di tener dritte le orecchie.
Ed è lento. Lentissimo. Un animale bolso e perdutamente addomesticato, che non meriterebbe pietà alcuna nell’infernale Outback australiano. Eppure Barry non fa una grinza. Mostra di avere una pazienza infinita, invitando a ripetere di continuo l’esercizio, senza dar peso al fatto che la sua lezione stia in fondo rievocando una delle pratiche più sacre per la tribù dei Kaurna. L’esatto opposto di quanto accadeva invece ai suoi avi, costretti a trasformarsi nei cittadini modello di Sua Maestà, più per imperativo morale che per scelta di costume. Furono sufficienti cent’anni; nel 1931 la loro lingua già si era estinta.
“I rapporti coi bianchi stanno migliorando – si lascia andare in una delle rare pause al centro culturale Tandanya (www.tandanya.com.au) – ma la diffidenza resta forte. Alcuni di loro continuano ad avvicinarci per mera curiosità. Altri per semplice gusto dell’esotico o anche solo per pietà. Qualcuno, fortunatamente, sembra davvero interessato al nostro stile di vita. Non temiamo più nessuno, in ogni caso: il nostro occhio è tornato a vedere cose che nessun altro può”.
Una scintilla guizza d’improvviso dalle sue palpebre di pece, ma è un fuoco fatuo. Barry sembrerebbe voler confidare qualcosa, spezzare un silenzio più autoimposto che condiviso. Un tormento combattuto che nei bushmen traspare troppo spesso: se le recenti aperture del governo australiano stanno cercando di recuperare una fiducia compromessa da secoli di sprezzo coloniale ed anglicano paternalismo, dall’altra l’aborigeno teme ancora che la terra possa improvvisamente smettere di parlargli.
E’ vero. Nessuno si permette più di portar via i suoi figli, chiuderli in un collegio e ributtarli malamente per strada, qualora non abbiano imparato bene ad impugnare forchetta e coltello. L’era vittoriana è per fortuna alle spalle. Però una televisione, oggi, fa comodo a tutti. Comprare una scatola di bacche sciroppate vale certamente più che spendere ore ed ore a raccoglierle per l’Outback. Seguire una lezione di storia da un computer in rete, lascia letteralmente senza parole: non tanto le vecchie generazioni, quanto gli ultimi arrivati. Nessuno ha più voglia di dar retta ai verbosi segugi del deserto, quando l’indizio più trascurabile può essere rinvenuto con un comodo click. Le arcane storie sul serpente arcobaleno, il Dreamtime, l’origine della propria gente. Fantasie meravigliose, non c’è dubbio, ma un libro le può certo preservare meglio che una mente labile e mortale.
“Mio nipote passa le giornate a girovagare per strada – si rammarica Barry – e ha solo in mente di andare a bere con gli amici giù in città, ad Adelaide. Quando cerco d’infondergli gli insegnamenti dei padri dice di annoiarsi. Non ne vede l’utilità. Non so ancora dove io abbia sbagliato: sono stato cresciuto così e so che così è stato sempre. Ora non funziona più, però. Sembra che i giovani abbiano la mente costantemente altrove. Sgranano gli occhi su schermi fluorescenti o per telefonini che producono suoni snervanti, ma se spieghi loro come ritrovare il corpo di un assassino nel deserto è come se parlassi della cosa più banale al mondo. Neppure la morte ha più valore, per loro. E’ semplicemente una delle tante cose che accade. Capita poi che qualcuno ci lasci davvero la pelle, azzuffandosi con qualche testa calda o facendosi investire quando l’alcool ruba loro l’anima: ah, se vedessi poi quegli occhi! Tardi! Si svegliano troppo tardi!”.
Un adepto bianco, per quanto volonteroso, dovrebbe in fondo desistere: mai e poi mai potrà sostituire un nipote scapestrato. Un conto è rendere partecipi di una tradizione, un conto insegnare. Iniziare alla vita. Ciononostante, alternative se ne danno poche. Chi rinuncia a trasmettere il sapere degli avi inevitabilmente lo perde. Se lo dimentica. Oppure si rende conto che non funziona più. Persino il famoso “strong eye”, la capacità di vedere l’anima dentro un corpo o fuori di esso, finisce per indebolirsi. Se un tempo i nativi potevano almeno trovar lavoro come segugi infaticabili della polizia, oggi devono accontentarsi di studiare i movimenti delle formiche solo per capire dove si trovi il pozzo d’acqua più vicino. Le pieghe dei ramoscelli per indovinare se pioverà o meno. Le acute tecniche d’investigazione contro i nemici della comunità si sono cioè trasformate in un blando rimedio per difendersi dalle minacce del cambiamento climatico.
Peccato che ad apprendere queste sbalorditive sottiliezze siano ben spesso i goffi turisti dell’ultima ora, molto più interessati a scovare nel bush la pianta giusta per perdere peso, anziché l’amara sorte che toccherà ai loro mentori. Lo sciamanesimo dei medicine-men è diventato moda. Life-style. Il perfetto surrogato per stupire quelle generazioni che si sono perse Mr. Crocodile Dundee al cinema o in televisione.
Così è per le vie di Adelaide “la colta”, capitale del South Australia che porta il nome della consorte di re William IV (1830-1837); così è all'interno degli innumerevoli pub del “Mull”, presso cui splendide ragazze suonano la furia degli Ac/Dc e fanno schioccare baci ancor più elettrici; e di nuovo lungo i percorsi che attraversano le valli di Barossa e Claire, paradisi di viti e cantine ottocentesche, dove ogni rivendicazione finisce per stemperarsi sotto le forchette di “Skillogalee” (www.skillogalee.com), storico ristorante che mette tutti d'accordo, perché esattamente al punto di congiunzione fra le due valli. Un tempo si sarebbero impugnati boomerang e lance. Oggi si mangia sugli avanzi delle ossa. Astuzie d'eredità “british”, che nel nettare di Bacco hanno trovato armi tanto suadenti quanto letali.
Non appena si fugge dai recinti dorati delle metropoli, l'Australia rivela infatti un volto assai meno rubicondo e compiacente. A Warrapinga, il “posto ventoso nei pressi del fiume”, Barry non è che uno dei tanti Kaurna impegnati a trovare una nuova forma di convivenza fra indigeni e forestieri. Dal 1998, ogni giorno lotta affinché il centro culturale Tandanya continui a sorbire la linfa delle umide terre su cui si davano appuntamento i suoi padri, qui usi a celebrare il walkabout che guidava dalle colline alla costa.
Al di là dell'integrazione politica, che segna passi a corrente alternata, è sul piano culturale che si gioca la grande sfida all'integrazione australiana. Pur di non vagare alcolizzati per le vie di città, o piuttosto che ritrovarsi chiusi come bestie nelle riserve del governo, i nativi si sono messi a lottare con ogni mezzo lecito: hanno aperto una radio che trasmette negli innumerevoli dialetti delle proprie genti, “101.5 Fm Nunga Wangga” (www.radio.adelaide.edu.au); si sono organizzati in un network di operatori locali (www.indigenoustourism.australia.com) che punta a far conoscere i costumi tribali attraverso esperienze in comunità, insegnando una volta la danza del canguro, un’altra avviando alle cure erboristiche, esattamente come all'ascolto dei miti ancestrali attorno al fuoco; hanno lanciato addirittura una trasmissione televisiva intitolata “Outback Café” (www.theoutbackcafe.com), grazie a cui lo chef Mark Olive ha rivelato le sorprendenti virtù della cucina tribale e, a suon di bush cocumber e desert lime, alimenta ora un canale d’approvvigionamento economico fondato sul rispetto dello stile di vita autoctono.
Passi piccoli, certo, ma incredibilmente preziosi per il riconoscimento di quelle etnie che per secoli hanno subito angherie d’ogni sorta, benché occultate da un odioso muro d’omertà. A tal punto che, ancor oggi, dar troppo spazio alle voci fuori dal coro può costare il rilascio del visto australiano, sotto la voce “ospite non gradito”. Poco importa se, durante l’inaugurazione delle Olimpiadi di Sydney 2000, si fosse fra coloro che disegnarono nei cieli un rammaricato “sorry” appellandosi all'etereo candore dei nembi. Né mette il cuore in pace un aereo Qantas dipinto a pallini colorati, giusto per scimmiottare l'arte aborigena, ma sotto sotto mossi da gretti interessi di marketing. Qualunque tipo di scusa non restituirà certo quella “Lost generation” che fu vittima inerme della saccenteria coloniale. Neppure l’amabile “fair play” odierno.
L'Australia continua infatti a crogiolarsi in un'immagine di sé neutra, di Paese dove solo la natura è padrona e la storia “giovane”, benché le tribù originarie rappresentino la più antica forma di civiltà presente sull'intero globo terrestre. Gli stessi storici sono ancora incerti se farla risalire a 40 o 60mila anni fa, se non addirittura oltre.
Allora si va nel Nuovissimo Continente per nuotare accanto alle balene, come capita lungo le coste della penisola di Eyre, oppure per saltellare giubilanti accanto ai wallabies di Kangaroo Island, il piccolo eden scoperto solo nel 1802 dall'esploratore inglese Matthew Flinders. Sì, proprio quello che dà il nome ad un'altra area di spettacolari conformazioni geologiche, i Flinders Range a nord di Adelaide.
Un terzo del territorio dell'isola è riservato a parco nazionale di conservazione florofaunistica, facendone il posto ideale l’osservazione degli animali in un habitat vergine, ove si contano almeno 30 diverse specie - oltre alle 250 di uccelli e le 850 di piante - fra cui il Tammar Wallaby, il Brushtail Possum e la Short Beached Echidna, senza però dimenticare gli immancabili koala, i buffi canguri e, soprattutto, le ampie colonie di foche marine. A volte basta lasciarsi guidare dal loro forte odore salmastro per scoprirle paciosamente accoccolate sugli scogli, magari nei pressi del mastodontico Admiral Arch: parabola granitica che rappresenta una delle mete immancabili di qualunque pellegrinaggio a Kangaroo, insieme alla plasticità spettacolare delle Remarkable Rocks, alla romantica solitudine di fari ottocenteschi quali il Cape de Coudic, o ancora alle vergini radure del fiume Rocky.
Immancabilmente l'accento sulle mirabilia locali finisce però per ricadere su dettagli che dall'uomo rimandano all'animale, dalla storia alla natura, a mo' di una censura subconscia. Non una parola spesa sulla nascita mitica di Wilpena Pound (www.wilpenapound.com.au), anfiteatro naturale dal diametro simile ad un enorme vulcano - sulla strada che porta al cuore del Continente - dove paiono aver trovato rifugio tutti i tesori della Terra: jeep cingolate o aerei di bassa quota si affannano in ogni modo a trovare nuove prospettive d'esplorazione, ma la risposta più convincente resta ancor oggi l'antico racconto adyamanthana.
Wilpena Pound altro non sarebbe che il frutto dell'ingordigia di due serpenti giganti, incapaci di muoversi dopo aver divorato troppi uomini, responsabili della pigmentazione della terra per via del sangue versato. Altrettanto sidereo e distaccato appare il cielo sopra il santuario di Arkaroola, punto d'osservazione astronomico alle propaggini dell'anima più selvaggia d'Australia, il deserto dell'Outback.
Qui lo stupore è tutto per i piatti fumanti di canguro, emu o cammello, cucinati lungo la strada che guida al Prairi di Parachilna (www.prairiehotel.com.au), oppure per le sue incredibili stanze scavate nella viva roccia e dotate dei più sofisticati sistemi di teleriscaldamento. Soluzioni esaltate anche presso il Desert Cave Hotel di Coober Pedy, la capitale dell’opale australiana (www.desertcave.com.au).
Ma il santuario di Arkaroola, fondato nel 1960 da una coppia di ecologisti su una superficie di oltre 610 kmq, dovrebbe spingersi assai più in là dello sforzo di ricostruire un habitat avvelenato dalla mano dell'uomo: picchi vertiginosi, gole dalle acque sorgive e timidi wallabies dalle zampe gialle, sono in realtà riflessi di quel mondo onirico da cui tutto ha avuto origine, il “Dreamin' time” degli Aborigeni; o detto con parole loro, il “Tjukurpa”, il “Djugur”, la “Altyerre”, e mille altri ancora potrebbero essere i suoi appellativi, innumerevoli come le stelle e vertiginosi quanto gli sbadigli sacri.
E' infatti da questa dimensione che si fece spazio e scese sulla terra il Serpente Arcobaleno, creatore di ogni cosa; da qui sono nati gli eroi totemici di ogni tribù, dall'uomo-coccodrillo all'uomo-formica; nel sogno trova ancora risposta la vita offesa e deturpata; ma il mitico azzurro che si dispiega sopra le nostre teste – a ben guardare - assomiglia incredibilmente alle volte dai colori psichedelici evocate dalle droghe del bush; tunnel spaziali e caverne ctonie sono propaggini dei più profondi meandri delle nostre menti dischiuse, che sull'onda dell'ayahuasca, dell'ibogaina o della psylocibina lanceata, ci guida con leggiadria dai pendii delle Ande alle foreste del Congo, sino alle interiora dell'Europa Glaciale.
D’altra parte, come già notava l’inquietante Nietzsche, può essere molto pericoloso scrutare l'abisso davanti a noi: non tanto per la sua profondità, su cui potremo accanirci sino all'ossessione, quanto per il fatto che, ad un certo punto, sarà l'abisso stesso a scrutare noi. L’anima nera dell’Australia offesa.
1 commento:
"Quelli che smettono di sognare sono perduti" (Proverbio aborigeno)
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