VIOLA
Quando la luce torna a scoprire l’evidenza, è tempo di dormire. I contorni sono ben definiti, le strade senza indugi, i ceri della fede continuano a lambiccare, ma nessuno ci fa più caso. Sono le spoglie superflue di un brutto sogno, la voce materna che ci sussurrava nel delirio l’imminente preludio del giorno. Perché solo la certezza del poter far ritorno alimenta il passo incauto, lo guida nei vicoli dove persino i topi temono la vita, dove l’umanità si confonde col pattume abbandonato, dove gli scoppi di risate e fischi taglienti come lame, sconquassano i vetri che ci proteggono dal morbo del sentire. Ora invece ci si può appisolare, perché ovunque noi siamo, siamo comunque a casa. Al sicuro.
Ogni notte l’uomo si mette in viaggio, rinnova la sfida con i suoi ancestrali perché, nella speranza di non violare troppo quel cieco ottundimento che ammicca benevolo all’arrotondarsi della pancetta: non è più grasso, non è impedimento, ma il piacere codardo di allontanarsi sempre più, giorno dopo giorno, dalle contorte inquietudini delle viscere. Si può dunque dormire tenendo gli occhi aperti e parlando una lingua che tutti capiscono: chi mai ci disturberà, se non quella pozza maleodorante apparsa inspiegabilmente sul corso affollato, macchia di un uomo che sin dal suo concepimento non è mai stato vergine, perché mai lindo?
Diciamolo senza gratuità e senza offesa alcuna alle nostre più care benefattrici: siamo figli di puttana. Tutti. Senza distinzione. L’utero che ci ha messo al mondo non conosce padre, ma quale prezzo dovette pagare l’eterno piacere di un illustre ignoto! Pur di conoscerci, andremmo fra le gambe del diavolo…facendoci il segno della croce: non è un caso che il nostro supremo desiderio sia anche la nostra più profonda “passione”.
E allora viene da chiedersi: quanto siamo disposti a perdere, ancor prima di guadagnare? La sconfitta è indubbiamente la compagna silenziosa di ogni zingaro; anzi, ne è la sua cieca fede, la musa dall’amaro sorriso che culla la sua perenne nostalgia. Trascinati da un porto all’altro, incuranti dei venti oscuri, sfidiamo la nostra fanciullezza purché un’oasi promessa si offra all’orizzonte: ma se questa si rivelasse infine il più astuto degli inganni? L’arrivo non occulta il nastro di partenza, il cui superamento comporta in ogni caso il taglio del candore. Se ne diviene consci solo nel momento in cui il raso sfregia la pelle e ne segna per sempre il tempo perduto. Una condanna, più che una punizione, qualcosa che non può esaurirsi, perché mai amore più generoso saremo in grado di dispensare, se non quando avremo definitivamente perso.
Eppure chi sta nel mezzo, chi ancora ha la forza di guardare dietro le spalle prima di farsi lacrima dell’eternità, possiede forse il privilegio dell’eletto: riconosce la sua fine nel passo inaugurale. E sorprendentemente la fine diviene un fine che non sta più oltre, ma al di qua, in un’immanenza dalle virtù elastiche votata a domandare una sola verità. Ed una soltanto: amami senza perché, affinché tu non sappia di avermi perso, proprio quando mi trovasti…
GRIGIO
Prigioniero, prigioniero di un’idea. E’ mai possibile? Ci sono milioni di persone che sfilano davanti agli occhi, ma qualcuna di loro sembra fatta di sola colla: si appiccica alla pelle alzando semplicemente lo sguardo, tacendo una parola che manca, o non facendo altro fuorché allungare il passo lungo la propria via, dopo averti messo al corrente della sua fugace presenza. Ma sei tu ad averne strappato un brandello o è forse lei ad averti rubato l’innocenza? Il frammento parla sempre dell’intero che fu: vive nella sua nostalgia, ne ricerca il perduto compimento, ma qualunque sia la protesi mentale attraverso cui ne viene colmata l’eco, la libertà di un pigmalione turbato si trasforma presto in un’arma a doppio taglio. Impossibile resistere alla tentazione di credere che in quell’uno sia davvero l’essenza del tutto, che si possa godere indisturbati della sua evidenza ammutolita: è già oltre, al di là delle nuvole formose, nel cielo blu, semplicemente perché privo di sfumature. Ma c’è di peggio. Può capitare che il frammento, ebbro di luce, non distingua più i suoi margini e si abbandoni con esausta curiosità fra le tue mani. Sarebbe il coronamento del sogno, eppure ha già parlato. Suo malgrado, non può fare a meno di dire sempre e comunque “eccomi!”, disegnando nel traguardo improvvisato la malinconica distanza dall’origine. Un’origine che solo in quel momento assume la titanica grandezza del suo enigma, la desolante rivelazione del deserto in cui il miraggio venne evocato. E dunque, che fare? Cingersi di questa onerosa medaglia significa farsi carico dei suoi lati senza speranza: ingannare l’illuso o ripudiare il desiderato. L’esito, in ogni caso, sarà il silenzio dei sensi. L’unica verità che fugge se stessa, che conosce solo risposta e nessuna domanda, consiste esclusivamente nel cavarsi gli occhi, scagionando l’incoscienza dell’animale. Questione di fiuto.
GIALLO
Esiste un regno, a cavallo fra la notte e il giorno, dove ognuno è sovrano assoluto, eppur zimbello del caso; un regno nel quale è dolce levare la parola ancora assonnata, affinché plasmi i desideri con lo stesso amore di un demiurgo in lacrime e ne evochi la nostalgia, con la forza del sogno domato.
Le sue creature sono ombre in procinto di staccarsi dall’oltretomba: quasi perfette, ma impercettibilmente incompiute, ignare della condanna comminata dal barbaglio della veglia, pronto a dissolverle in aride polveri.
Non chiedete se sia giusto o sbagliato riparare in questo regno. Lasciate solo che il suo spazio si dispieghi come un mondo transeunte, nel quale siamo però invitati a sostare, perché qui ogni perduto potrà tornare ad essere, ogniqualvolta ci convinceremo di averlo semplicemente smarrito. Non è difficile: basta lasciare le porte socchiuse, per quanto facciano paura.
Da una parte ci attendono le tenebre dell’inconscio, troppo severe per i veri sognatori: sulle loro mobili dune fluttuano cadaveri d’idee alle quali nessun sangue d’agnello ridarà spessore, se non per gravare sulle nostre anime e sprofondarci nel baratro del non ritorno. Lì non possiamo che assentire ad una verità che non ha giustificazione; appellarsi alla luce significa invece rassegnarsi al disgusto del diniego, alla frustrazione dell’impossibile. Fuori dalla penombra è solo lotta impari, alla ricerca di un nuovo corpo dove disperdere le nostre ceneri.
Riuscite dunque a sentire quanta vita spensierata stride negli schiamazzi indistinti, nelle melodie spezzate, nel brusio opaco, nelle promesse che non potranno mai essere attese, costringendoci a votarci ad esse per sempre?
Non è più tempo per sognare: a noi basta credere di farlo. E in questo è tutta l’onestà di chi può solo vivere nella menzogna.
SEPPIA
Una fotografia sbiadita resta imbevuta di molta più verità di quanto possa fare la carta che le ha dato vita. Senza proferire verbo, parla crudelmente dell’indifferenza cui il tempo condanna i nostri sogni mancati, li svuota piano piano della loro seduzione, finché su di essa non rimangono che spettri sorridenti imprigionati nell’oltretomba della memoria. Non c’è più verso che tenga, non si può fare nulla per arrestare questa subdola fuga, il cui ripiegare tutto sommato ci rincuora, addolcendoci in virtù della perdita che attanaglia le viscere: vattene, vattene per sempre se così dev’essere, ma comunque sia, nulla cancellerà la ragione del sorriso che in te trovò un pigmalione, lo spensierato assassinio della gioia di cui ancora non potevamo avvertire il peso gravoso.
Fa male guardare le fotografie, esattamente come lo specchio: entrambe sono creature doppie, false, eppure hanno la pretesa di dire chi noi siamo, o chi siamo stati, senza l’umiltà di ammettere che l’essere non appartiene alla nostra dimensione. Ti convincono meglio di qualsiasi adulatore, talvolta sono schiette più del sangue blu, solo perché hanno dimenticato cosa loro stesse sono. Sottrarsi alla loro illusione non è dunque un atto di ripicca, né tanto meno di disinteresse: appare piuttosto un invito a non accontentarsi di un raggio di sole, quando la luce più intensa ed accecante ancora splende davanti ai nostri occhi. Meglio perdere la vista, che perdere di vista. Nonostante la sua afasia, la fotografia si ripete peggio di una vecchia, mentre chi siede nella cornice della camera oscura sta suo malgrado urlando le pretese dell’interrogativo, desideroso di prendere forma sulla tua bocca. Ma la ghigliottina cala assai più velocemente di quanto la coscienza dello scatto realizzi, confidando nella netta intransigenza del moncherino. Per fortuna resta pur sempre il rigore pallido ad inquietare la nostra bonaria rassegnazione: nella sincope risuona il severo monito a far sì che di nuovo sia quanto mai più potrà essere. Troppo intenso è il desiderio del colore: impossibile scordare il fuoco del vino che scorre dal collo delle pecorelle sacrificali. E’ l’idealità dell’utopia, vagheggiata sino al convincimento della sua possibile riscrittura nella carne del mondo, l’eterna linfa cui gli amanti amareggiati continueranno ad appellarsi, in cerca di un riscatto posticipato troppe volte.
Torna, ma senza rancore: vieni, dunque, e benedici l’ignoranza. E’ la miglior droga che alimenta lo stupore. Non mi interessa sapere quante volte sei morta.
ROSSO
Quale droga più esilarante ci si potrà mai concedere, se non la ricerca dell’assurdo? Non lo evochi per non rovinarne la sorpresa, non lo scegli per non apparire eccentrico, eppure ti ci imbatti quando meno te lo aspetti e non te ne liberi più. Una volta che lo hai scorto in volto, finisci per riconoscerne le cangianti fattezze ovunque tu sia e, per quanto tu possa sforzarti di conferirgli un trucco, tutto ciò serve solo a farlo ridere ancor più forte. E’ un clown che si nasconde nel pubblico, con un sorriso che seduce e al tempo stesso indispettisce, perché sotto sotto sappiamo di desiderare morbosamente la sua stessa sfacciataggine, la sua volgare irresponsabilità, ma per raggiungerla dobbiamo comunque onorarla di un senso. Bada: sante e puttane si guardano entrambe allo specchio, sono una il riflesso dell’altra. Se una via d’accesso c’è, arde allora nel fuoco della passione: delizia assassina sorprendere la segreta scintilla che eccita le lingue e, lasciando fare, brucia qualunque attesa. Perché lui ti prende di spalle, ma se ti volti, è già davanti. Non c’è modo di afferrarlo, non paga pegno inseguirlo. Bisogna lasciare semplicemente che sia. Consacra ad esso il tuo tempo e vedrai, oh mia anima in pena, per magia lui ti farà dono dell’unico presente di cui mai nessuno omaggia, eppur tutti bramano: una vita vissuta. Non importa come.
BLU
C’è qualcosa, nella quiete crepuscolare, che ci spaventa. Lo sappiamo bene, sin troppo bene, ma quando la calda brezza estiva ci sorprende in una notte di festeggiamenti, è davvero difficile sottrarsi alle sue carezzevoli moine. Stiamo lì, immobili, a fissare le luci da un angolino appartato, mentre si estinguono ad una ad una, inesorabilmente, finché una voce silenziosa rimane sola a tenerci compagnia: le nostalgiche note della musica che volteggiava ai tavoli sono già diventate l’eco di un passato che non tornerà. Proprio come quelle immagini sbiadite che continuano a scorrere davanti ai nostri occhi, in chissà quale fugace dimensione, sospesa fra la bruna collina e la pianura afosa: abbiamo sempre creduto di poterne cavalcare l’onda impetuosa, di piegarla ai nostri desideri, relegando in un cantuccio quei fastidiosi abbagli che, un tempo, ci oscurarono inspiegabilmente i cartelli del bivio.
Ma quanto è dolce il soffio dell’assenza, al cui cospetto si ridestano persino ciuffi di capelli assopiti! Ecco, gemme di sogni mancati tornano a rinverdire, senza alcun timore, ai cordoli della strada dimenticata: sono sguardi obliqui, gesti spezzati o volti interrogativi, la cui familiarità ha guadagnato credito nei capovolgimenti del caso, insinuando il dubbio che dietro il nostro sorriso affabile non si celasse l’ortodossia della scelta, bensì lo scacco inaspettato.
Se amaro è figurarsi ciò che sarebbe stato, con un tasso di leggerezza appena appena più frizzante, l’inesorabilità dell’accaduto getta terra sul baratro oscuro e affida petali ancora freschi agli slanci di un falso entusiasmo. Ora non si può più mentire: non tutti i tagli sono rimarginabili, né gli strappi rimediabili. Sarà per questo che gli spifferi del vento ci vestono di pelle d’oca, nonostante la fronte sia imperlata di rammarico e scotti di passione.
Vagheggiamo di tardive avventure, pronunciamo parole inaudite, ma come condannare la felicità del folle? Non c’è più nessuno con cui ballare e la pista è lontana: vorrà dire che muoveremo passi audaci sulle tegole del mondo, esclusi per sempre dalla stanza in cui erano state interpellate le nostre promesse, ridotti in fumo senza neppur aver avuto la gioia di ardere al sicuro; ma nonostante tutto, in volo verso le stelle.
BIANCO
Bianco. Ostinatamente bianco. Per quanto mi sforzi di scrivere, il foglio su cui calco la mia penna - ormai incapace di spiccare il volo - ostenta di volta in volta un sovrano distacco. Quasi avesse l’ardire di rispecchiare la purezza delle nuvole estive, il silenzio dei ghiacci, l’origine intonsa. Proprio non avverte l’impercettibile ansia che mi rode, che si contorce nel disegno ricurvo di lettere misteriose. Attende beffardo, perché sa bene che qualunque segno io tracci sul suo manto, è comunque destinato ad affondare lungo pieghe annoiate. Non sono che macchie, per il suo aristocratico sdegno. Dovrei abbandonarmi all’insulso peregrinare fra le sue dune invisibile, ove il tempo si dissolve in nervose spirali.
Eppure mi invita…ha ammiccato di nuovo! Quanto pesa una confessione, quant’è arduo aprire il nostro cuore al severo sguardo della ragione, sottrarsi ai trabocchetti della retorica, rivoltando la cruda insoddisfazione che avvelena il passo trascinato. Spaventa l’idea di non avere alcunché da raccontare: siamo aridi, siamo diventati aridi, senza avere l’umiltà di ammettere che fra le dita, oggi, stringiamo solo un’arma spuntata, cigolante ed arrugginita. Oh, sono ridicoli i virtuosismi fuori moda! Ci rendono grotteschi ed imbolsiti.
Dunque il nemico non si è presentato al duello. Lo abbiamo aspettato con trepidazione, benché odioso. Non ci siamo mossi di un centimetro dalla nostra solida postazione. Ma lui ha disertato. Probabilmente non ci reputa neppur degni di incrociare il suo sguardo sprezzante. O forse sta chiedendo di mettersi in cammino, di stanare le sue orme allusive e sfidarlo alla luce del sole, lontani dalle infide suggestioni che una fantasia offesa tesse nella penombra.
Già, ha paura. Teme l’olezzo della nostra anima ammuffita, ancor più di un fodero bucato.
VERDE
Non so che dire: ogni addio si porta via tutto. Corpi, emozioni, voci e dolci parole. Resta solo un inaspettato senso di sbigottimento, d’incredulità, quasi si trattasse del semplice risveglio da un lungo sogno. Ma passato anche questo, riconosceremo solo l’amaro della consapevolezza per cui un mondo ha ormai cessato di vivere. Forse tornerà, forse non verrà mai più, forse riusciremo a tenerlo in vita con ostinate memorie e commoventi palliativi, ma inevitabilmente mai più sarà lo stesso. Un velo impercettibile d’indifferenza inizierà a frapporsi fra gli estremi della sorte, nonostante la tragica resistenza che tenteremo di opporvi. Inutile combatterlo all’ultimo sangue, sentendoci pure in colpa per la consapevolezza del nostro tradimento impotente: è la vita, semplicemente lo scorrere di una nuova vita che per respirare ha bisogno di farsi spazio. Come un tenero amante, che staccatosi dalle labbra del piacere, torna a guardare negli occhi il suo destino, il riflesso di se stesso.
AZZURRO
Quante volte siamo partiti?
Ancor prima di trovare una risposta a questa domanda, dovremmo forse chiederci quante volte abbiamo davvero fatto ritorno. Se consideriamo infatti le ripetute sortite dalla porta di casa, dal quotidiano rincorrersi all’ingenuo slancio dei primi viaggi d’oltrefrontiera, certo la persona che suonava al campanello domestico per farsi aprire era, di volta in volta, diversa. Non un estraneo, per carità, il mazzo di chiavi restava pur sempre in tasca, ma indubbiamente uno straniato. Qualcuno che, senza capire perché, non riusciva a ritrovare nell’uguale di sempre lo stesso di ieri.
Troppo facile asserire che il tempo ci cambia, qualunque sia l’intervallo che si frappone fra due istanti del nostro essere costantemente al mondo: se siamo costantemente, cosa può mai cambiare lo scorrere del tempo? Quale virtù potrebbe aver mai su di noi quest’idolo da noi stessi partorito?
Il mondo non cambia riaprendo gli occhi, eppur cambia anche quando la realtà circostante resta immutata. Lasciamo da parte i sofismi stantii che scherzano sull’alterazione o il ribaltamento di prospettiva. Posso infatti muovermi per le strade di una città, calcandone il tracciato ogni volta in modo differente, senza per questo uscire da un labirinto ben più soffocante del loro ingarbugliarsi. Lo stesso dicasi pure per il più ostinato dei percorsi, la via ferrata o l’autostrada gemella: non trasgrediamo i binari o la carreggiata deragliando da esse, volontariamente o meno, bensì solo nel momento in cui ne avvertiamo lo stacco.
Ma non è forse la partenza lo stacco per eccellenza? E non è forse il deragliamento l’agognata fuga liberatoria? Perché allora abbiamo spesso la sensazione di tornare esattamente uguali a noi stessi dai lidi più remoti, mentre capita di staccarci dal nostro mondo, proprio nel momento in cui calchiamo le vie domestiche?
Partenza e fuga. Partenza ovvero fuga. Binomio suadente e di gran suggestione, visto che partire implica pur sempre un venir meno agli impegni presi, un rinunciare alle nostre aspettative. Ebbene, chi ha detto che rinunciare significa omettere? Il rinunciare è un atto comunque responsabile pur nella sua irresponsabilità, perché ci rende padroni del nostro non esser padroni. Votarsi all’oblio dell’omissione, al contrario e nonostante il suo imperituro fascino, non ci aiuta a sottrarci dall’eco ridondante della nostra caduta. Non ci allarma tanto sapere dove mai finiremo, quanto il fatto che – comunque sia – saremo sempre più lontani dal punto di caduta, di rottura.
Non sono dunque la fuga o la caduta dal mondo che ci permettono di accedere ad una nuova e segreta dimensione di vita; non è chiudendo gli occhi che ci si libera dal vedere, quanto piuttosto il sapere che ciò che lasciamo non cade a sua volta. Che resta in equilibrio.
Questione di ritirata tattica: noi ci ritiriamo con la stessa certezza di chi si ritira per andare a dormire, dunque per sognare. Senza pesi sullo stomaco, affinché non ci causino incubi sudaticci, facendo impuntare l’ago delle nostre paure in una direzione sola, la quale ci spaventa proprio perché è la sola concessa. Se il peso grava su se stesso, se cioè non pesa su altri, significa invece che è predisposto ad assumere qualsiasi inclinazione. Potrebbe addirittura non prendere posizione alcuna, rimanere semplicemente tale e quale in questo imperturbabile nodo di possibilità irrisolte; e si sa, l’assenza di turbamento non offre appiglio. Non si concede a niente o a nessuno, benché del tutto inerme. O proprio in virtù dell’essere inerme. Come un sogno dai labili confini, è un mare che può portarci ovunque, perché non c’è punto in cui si possa dire di essere. Galleggiamo senza aver coscienza della deriva, né dell’inabissamento. Alla faccia di tutti quei pedanti capitani dal berretto blu, che vogliono chiusi tutti i bocchettoni del loro transatlantico.
Quando si parte, non si dovrebbe mai chiudere alcunché, bocchettone o porta che sia. Precludersi la possibilità di vedere oltre quel pertugio, comporterebbe l’inevitabile insorgere di un quesito legato all’esatto momento del taglio, della partenza.
Paradosso curioso: come può essere legato un taglio, il cui senso alberga appunto nel dividere? Forse lo è perché non può che vivere nella nostalgia del perduto, nell’intrascendibilità della sua cicatrice, che solca il suo orizzonte, sempre e comunque.
Se non c’è taglio, invece, il filo onirico si dispiega con morbidezza, adeguandosi alle asperità della fantasia, circuendole, magari assorbendole nel loro prendere forma, identificandosi infine con esse stesse. Ecco allora che stiamo cambiando pur senza modificarci, proprio come un filo che si ingarbuglia, ma non si spezza.
Non basta tuttavia lasciare aperta solo una porta. Occorre spalancare anche le finestre, i pertugi, gli usci più nascosti. Lasciare che la nostra casa sia attraversata dalle correnti più disparate: l’aria viziata fa male alla salute e un solo ingresso può diventare troppo stretto. Non è poi detto che faremo ritorno all’ingresso principale, sebbene il suo restare aperto ci consenta di ripercorrerlo infinite volte, a costo di straniarsi di volta in volta. E non è neppure escluso che, a furia di ricalcare le nostre orme confuse, non si ritrovi proprio il punto esatto da cui avevamo mosso il primo passo. Quale indicibile sorpresa, allora, scoprire noi stessi diversi e al contempo uguali! Staccati dalla realtà pur essendone parte vitale: insomma, né estranei, né straniati, bensì…buffi.
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