Le orme paiono ancora fresche. Potrebbero assomigliare a quelle di un piede umano, se non fosse per la presenza di una falange in più. “Forse la fanghiglia si è deteriorata” – azzardo in un improbabile slancio tardo-illuminista. Rob mi guarda con aria di compatimento e scuote la testa. “Cazzate! Ci dev’essere un duppy nei paraggi”. Circospetto, sfila quindi la sua inseparabile bottiglia di rum, facendo cadere qualche goccia proprio vicino alle orme. Un gesto che ricorda i riti propiziatori dell’Africa più nera, sebbene Little Cayman ansimi in un alveolo sperduto dei Caraibi. Ha un aspetto stravolto, con l’ispida barba scura impastata in treccine rastafarin, la pelle più rugosa di un’iguana blu e lo sguardo lontano di chi conosce bene le insidie dei Sette Mari. O forse sente ancora al collo l’umiliazione delle catene. Dinoccolato e vestito di pochi cenci scoloriti, dà l’impressione d’essersi appena messo in salvo dal naufragio di uno sloop pirata.
Non è proprio la figura che ci si augurerebbe d’incontrare sul far dell’alba, quando le lagune dell’isola vengono lacerate dai richiami di sule dalle zampe rosse e fregate dalla coda biforcuta, mentre l’acqua melmosa ribolle dell’impazienza del tarpone argenteo, un pesce d’incredibile agilità, che sfrutta l’onda lunga delle tempeste per lanciarsi in volo verso il mare aperto.
Sabbie mobili. Ponticelli marci. Fitti cespugli di mangrovie. Un tempo queste umide oasi non dovevano essere solo il rifugio prediletto di aironi guardabuoi o spettrali barbagianni, bensì un ricettacolo ove mettere in piedi capanne ubriache per riti voodoo.
“Se vivessi per un po’ qui, ti renderesti conto che le storie sui duppies sono tutte vere. Quando un marinaio muore, metà della sua anima sale in cielo, ma l’altra metà resta qui sino al giorno del Giudizio…e se non si sorveglia bene il cadavere per i tre giorni successivi, questa farà di tutto per scappare. E’ allora che la ritrovi in giro per l’isola e posso garantirti che un duppy non ha mai intenzioni benevole!”.
Dalle credenze meticcie non è difficile arguire come l’influenza di Sua Maestà sia arrivata tardi alle Cayman. Un tempo conosciute come Las Tortugas, per via delle numerose tartarughe giganti che Cristoforo Colombo avvistò nella sua spedizione esplorativa del 1503, le tre isolette a nord-ovest della Jamaica sono rimaste ai margini della politica imperiale britannica per secoli. Little Cayman e Brac iniziarono a popolarsi grazie all’arrivo di qualche profugo dalla scomoda vicina, trasformatasi in breve da capitale della pirateria caraibica ad acuminata spina della Corona, scaltramente infissa nel fianco delle ricche colonie spagnole. Grand Cayman, la maggiore, beneficiò invece del piano di assegnazione dei terreni che il governatorato inglese dei Caraibi inaugurò attorno al 1734, non riuscendo però a conquistarsi mai un posto di rilievo, se non come comodo scalo per rifornirsi di carne di tartaruga embricata e apprezzate corde di palma reale.
“Ma che motivo avrebbero di prendersela con noi?” – insisto spiazzato.
“Valli a capire! Secondo me hanno paura che qualcuno scopra i tesori nascosti per le isole, ma non escluderei che si divertano a far spaventare i passanti, solo per buttar giù un sorso. Le gente di mare ama far baldoria, in paradiso come all’inferno. Anche Bob cantava di loro, non ricordi?”.
Bob, naturalmente, è Marley. Il santone del reggae giamaicano, qui venerato almeno tanto quanto in patria, che raggiunto il successo s’affrettò ad ingraziarsi i maligni spiritelli caraibici, dedicando loro le suadenti “Duppy conqueror” e “My Cup”.
Di gioielli e monete d’oro sepolti si vocifera da secoli a Little Cayman, ma solo un pirata dal fegato spappolato potrebbe trovare l’idea saggia. Piatta e scabra, si gira a piedi in poche ore. Benché conti un centinaio d’abitanti, in 26 chilometri quadrati s’incrociano solo spiagge bianchissime e selvagge, un pittoresco centro d’osservazione ornitologica ed una sede di studi biomarini agognata da qualunque ricercatore oceanico. Per il resto, al Salt Rocks Dock l’antica miniera di fosfati è chiusa da anni, a scuola non si vedono mai più di un paio d’alunni, mentre la strada sterrata che disegna il perimetro dell’isola devia solamente verso il relitto arrugginito di una petroliera fantasma. E’ fra le pochissime incagliatesi in superficie, visto che i bassi fondali e il fitto intreccio di coralli, spugne e gorgonie hanno giocato più di un brutto tiro ai galeoni decisi ad avventurarsi per queste acque, finendo poi per consegnare ai fondali meraviglie leggendarie. Ne sanno qualcosa i discendenti del “naufragio delle dieci vele”, un convoglio di 58 navi andato a picco la notte dell’8 febbraio 1794, appena oltre la punta dell’East End. Nessun sub può poi dirsi tale, senza aver sfidato la vertiginosa parete di duemila metri del Bloody Bay Wall, o le cabine squarciate di un vecchio sommergibile dell’Armata Rossa, affondato nel breve tratto di mare fra Little Cayman e Brac.
“Comunque se avessi un tesoro per le mani, sicuramente sfrutterei il labirinto di cunicoli sotto il Bluff”. L’indice di Rob si leva proprio verso Brac, la cui parete rocciosa – 47 metri a strapiombo sulla rabbia delle onde - si scorge facilmente dal Point of Sand. Non è che la punta emersa di una montagna di corallo pietrificato di cui le Cayman rappresentano tre suggestive escrescenze, differenziandosi in tal modo da tutte le altre isole caraibiche, di origine vulcanica. In milioni d’anni le polveri dei vicini crateri si sono però infilate fra i vari strati del corallo, dando origine ad una pietra preziosa dalle variopinte venature, volgarmente nota come caymanite. Un gioiello che fa la felicità di ogni donna, più che un doblone o una maschera Inca. “Quando arrivano gli uragani, fra maggio e novembre, possono scoperchiare, risucchiare o distruggere qualunque cosa incontrino in superficie. Meglio sfruttare i cunicoli sotterranei, dunque; tanto più che oggi solo le grotte di Rebecca e Peter, o poche altre ancora sono aperte al pubblico, nel caso uno volesse capire effettivamente come un tempo i rifugiati trovassero scampo dalle tempeste. Per esplorarle tutte, bisognerebbe però essere agili speleologi e, soprattutto, ingraziarsi i pipistrelli”.
Sarà per quello che i Caymaniani riservano attenzioni spasmodiche per i Molossus Molossus. Ovunque si passeggi, non è difficile scorgere altissimi pali proiettati verso cieli blu cobalto, al cui apice una casetta con tanto di tetto e ingresso offre rifugio ai più veloci predatori della notte. Insieme alle iguane blu di Grand Cayman, lucertoloni preistorici vittime di auto frettolose e cani mattacchioni, sono fra le due specie più protette dell’intero arcipelago.
“A prima vista potresti scambiare queste isole per un Paradiso; in realtà la nostra è una vita di lotta. Sarà per punire l’avidità dei tanti pirati qui insediatisi, o dei finanzieri che oggi ne ricalcano le orme appellandosi a banche dalla bocca cucitissima, ma la violenza della natura pare volersi riprendere tutto ciò che l’uomo mette da parte. Ne sfida spudoratamente il diritto alla proprietà e noi possiamo rispondere soltanto come le formiche: mettiamo da parte il più possibile. Accumuliamo. Nascondiamo. E’ quasi un’ossessione nazionale”.
Il fatto che a Georgetown, la capitale delle Cayman, ogni vetrina ricordi le imprese di Barbanera o Calico Jack, mentre galeoni secenteschi presidino l’ingresso della baia in attesa dell’assalto di novembre (quando per una settimana intera tiene banco il festival commemorativo dei pirati, fra sfilate in costume e rapimenti di governatori), non è solo opportunismo d’immagine. Eccezion fatta per i pochi centri abitati, anche Grand Cayman si è guadagnata la nomea d’isola del tesoro, grazie al mantenimento di un vecchio sentiero – il Mastic Trail – che taglia da un capo all’altro la foresta umida dell’East End. A causa della superficie rocciosa e sconnessa, ribattezzata addirittura “Hell” (Inferno) là dove coralli millenari sono anneriti dai venti del nord, betulle rosse, mogani e begonie gialle hanno dato vita ad un groviglio di vegetazione intricatissimo, prediletto nei secoli da chiunque volesse far perdere le tracce di saccheggi o armi trafugate. Non a caso, nelle vicinanze, è possibile riconoscere ancora rifugi in pietra grezza difesi da cannoni ossidati, così come dal veleno della Comcladia dentata o della Mancinella, per non parlare dei graffi provocati dalle ruvide foglie di Cordia sebestena, un tempo usata come cartavetrata per lucidare i gusci di tartaruga.
Le antiche cittadine di Bodden Town o Pedro St. James, dal canto loro, ostentano case coloniche dal volto idillico, impreziosite con arredi tardo-settecenteschi e pizzi benaugurali, eppure sotto sotto hanno la coscienza sporca dei loro antichi inquilini. Il “castello”, ovvero l’unica abitazione in muratura oppostasi vittoriosamente a due terremoti, due incendi e ad almeno una decina d’uragani, fu infatti prigione per furfanti, teatro di sanguinose rivendicazioni della nobile famiglia Eden, oltre che prima e contestata sede del governo libero delle isole, dopo l’abolizione della schiavitù nel 1835.
All’ora del tramonto non è poi raro cogliere figure furtive che sgattaiolano per i cimiteri: allestiti in sabbia, decorati con bianche lapidi a forma di cuore o di nave, o segnalati semplicemente da strombi rosati (conchiglie che si avviluppano e risuonano come corni), celano a loro volta usanze sinistre. Soprattutto i più antichi, come quello di Prospect, occupato da casette spioventi che ricordano tanto le abitazioni di campagna inglesi cui i marinai del Seicento, prima di spegnersi con la ballata del mar salato negli occhi, regalavano il loro ultimo sospiro. Sempre in riva al mare, insidiati ogni stagione dalla furia impietosa dei flutti, continuano ad essere il luogo sacro per eccellenza dove interpellare gli spiriti defunti, custodi dei tanti misteri consegnati alle isole e che l’immancabile profumo di Llang Llang evoca in modo quanto mai evanescente.
Oggi i sottomarini dell’Atlantic permettono d’immergersi sino a 200 piedi e setacciare ogni angolo dei fondali; per un centinaio di dollari si può salire a bordo di modernissimi elicotteri da cui avvistare le incursioni dei barracuda, o le focose effusioni delle razze di Stingray City fra le cosce dei natanti terrorizzati; catamarani alati insidiano persino le baie vergini di Rum Point e Cayman Kai, mentre la dedizione dei botanici del parco “Queen Elizabeth II” non ha lasciato una pianta o un insetto senza nome. Eppure nessuno ha ancora scoperto il vero segreto delle Cayman, il triangolo dei pirati.
“Non servono mappe, né riti voodoo. Se guardi bene, capirai che ciò che tutti s’affannano a cercare è proprio davanti ai tuoi occhi”.
Il tempo di voltarmi per salutare Rob e di lui neppure l’ombra. Solo orme. A sei falangi. E il ghigno diabolico di Barbanera, che da qualche parte all’inferno, se la ride fra una bottiglia di rum e un paio d’orecchie mozzate.
DRAGHI TROPPO BUONI
Il caso Slugger ha fatto storia. Nato in cattività da due iguane blue, fu liberato nel parco botanico “Queen Elizabeth II” nel dicembre del 1999, conquistando tutti per la sua ruvida bellezza. Tre anni dopo una macchina da golf lo investì, ma sopravvisse miracolosamente. Neppure il tempo di rimettere una zampa all’aperto e di nuovo un pick-up gli passò sopra, senza però rompergli neppure un osso. Tutto sommato, la fortuna pareva dalla sua. Slugger stava infatti per diventare un gigante dal cuore tenero, avendo oltrepassato il metro di lunghezza all’alba del suo decimo compleanno, quando il 6 giugno del 2006 due cani randagi fecero irruzione nel parco botanico ove si crogiolava al sole, uccidendolo tragicamente. Oggi la sua tomba è allineata a quella di tante altre sfortunate iguane blu che, dall’arrivo dei primi colonizzatori, dei loro animali di compagnia e soprattutto dall’introduzione delle ingombranti auto americane, vengono uccise ogni anno nei modi più assurdi. Sorte davvero ingiusta per un animale che nei secoli è diventato un simbolo delle Cayman, grazie al colore blu-verde della sua pelle grinzosa. Delle 17 specie d’iguana presenti al mondo, la Cyclura lewisi è ora a rischio d’estinzione e sopravvive grazie agli sforzi del Blue Iguana Recovery Programme: un centro d’allevamento in cattività all’interno del “Queen Elizabeth II” che, ogni anno, contribuisce alla nascita di 80 esemplari, poi liberati in aree protette di Grand Cayman. Ne sono state avvistati in tutto un migliaio, ma le uova deposte in superficie, così come una dieta vegetariana non necessitante d’arti d’attacco, fanno sì che le iguane blu siano preda di qualunque animale in libertà. Uomo compreso. Fra i cartelli stradali delle isole, quelli segnalanti il diritto di precedenza delle iguane, o il rischio d’investimento all’avvio del motore, sono forse i più diffusi. Per contribuire alla loro salvaguardia, si può prendere contatto sul sito www.blueiguana.ky. John Marotta, storico leader del programma, è fra l’altro di origini italiane.
LA TEXANA DAGLI OCCHI D’AMBRA
Si chiama Gladys Howard, non dice mai l’età (ma orbita sulla settantina) ed è la vera regina di Little Cayman. Sua Maestà Elisabetta II le ha conferito infatti una medaglia d’oro al merito, per via del suo impegno nella difesa dell’habitat dell’isola e per aver promosso la costruzione del Centro Visitatori del National Trust, un grazioso edificio coloniale da cui è possibile rimirare col telescopio l’incredibile avifauna del Booby Pond, o dove erudirsi grazie all’unica biblioteca di Little Cayman. Titolare del Pirates Point, un resort a gestione familiare, sforna dolcetti e prelibatezze con la stessa facilità con cui pubblica libri di cucina (imperdibile il suo Little Cayman cookin’), conquistando ogni anno nuovi diplomi di Cordon Blue. Gladys sa tutto di qui, sebbene trascorra sull’isola solo sei mesi, per poi tornare periodicamente nel suo amato Texas. Qualunque curiosità su farfalle o piante è pane per i suoi denti, tant’è che il Pirates Point risulta circondato da un lussureggiante giardino ov’è possibile farsi un’idea su quasi tutte le specie botaniche presenti a Little Cayman. Donna spiccia (ha tirato le orecchie al governatore, per non aver evacuato in tempo l’isola all’arrivo dell’ultimo uragano) e dall’ironia contagiosa, è apparsa persino sul calendario “Support the boopies 2007-2009”, una raccolta di foto che ritrae in topless le bellezze un po’ attempate di Little Cayman. Boop non significa in inglese soltanto “sula”, cioè l’uccello più diffuso in loco, ma anche “seno”. Incredibile a dirsi, nello scatto di gruppo a fine calendario appare addirittura la sua migliore amica, la Regina Elisabetta! O forse un simpatico sosia.
OCEANI SENZA SEGRETI
Il Central Marine Caribbean Institute è senza dubbio il gioiellino tecnologico di Little Cayman, isola che, sino al 1990, risultava sprovvista ancora dell’elettricità e al posto del telefono faceva ricorso a radio ad alta frequenza. Organizzazione no-profit dedicata alla ricerca e all’educazione sulla biodiversità degli oceani, sfrutta energia solare e correnti eoliche per alimentare le proprie attività, monitorando quotidianamente la lenta agonia delle barriere coralline. Secondo gli studi dell’istituto, quella caraibica risente maggiormente degli effetti dell’inquinamento umano, dal momento che presenta solo 60 specie di coralli (contro le 350 del reef australiano) e poche centinaia di pesci (l’Australia ne vanta oltre 1500). Diventato nell’ultimo decennio un punto di riferimento per tutti gli studenti ed i ricercatori di settore, dallo scorso anno pubblica le cosiddette “Green Guide”, opuscoli in carta riciclabile che aiutano a capire e vivere l’habitat delle Cayman nel modo meno invasivo possibile. Il CMCI è infatti impegnato in una profonda campagna per la difesa del territorio delle isole, minacciato non solo dalla forte antropizzazione (che dal 1999 ad oggi ha ridotto il reef del 44%), ma anche dal crescere dell’incidenza degli uragani, generati appunto dal surriscaldamento dell’oceano. Dopo le Maldive, le Cayman potrebbero essere il secondo arcipelago al mondo sotto minaccia di totale inabissamento. In collaborazione con la National Oceanic and Atmospheric Administration, recentemente è stata dunque avviata l’installazione di una stazione network per l’osservazione dei coralli, grazie alla quale sarà possibile prevedere quali siano gli elementi critici alla base dei mutamenti climatici terrestri. Aggiornamenti e risultati delle ricerche sono disponibili sul sito ufficiale www.reefresearch.org.
Nessun commento:
Posta un commento