"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

mercoledì 10 settembre 2008

DOVE IL NOME SI FA ONOMATOPEA



E’ più grave di quanto sembri. Ignorata ai margini dei planisferi, accortamente imbavagliata dal governo indonesiano e col grilletto costantemente alla tempia, Papua non solo ha perso la parola: suo malgrado riesce a sottrarla persino a quanti tentino di dire cosa mai sia. Trasmette alla penna lo stesso smarrimento che sorprende il naufrago davanti alle sue coste vergini, lungo cui la jungla si riversa in mare, gli uccelli del Paradiso ammutoliscono sgomenti e i nomi si fanno onomatopea ostinata.
Non sempre scorgere terra all’orizzonte è sinonimo di salvezza. Tibie abbandonate nella sabbia, pallida e compatta quanto il volto di un cadavere imbellettato, o magari un teschio che fissa amleticamente dall’alto di una grotta collassata, inducono a pensare che l’oceano possa riservare in fondo qualcosa di meglio, perché le promesse dell’orizzonte valgono ben più di un’Utòpia spogliata della sua aurea illusoria. Bisognerebbe ruotare la zattera su cui inevitabilmente condannano i capricci del cielo, rinfrancarsi un poco le braccia scosse da brividi improvvisi e allontanarsi il più in fretta possibile, prima che una freccia avvelenata scocchi dal nulla o tracce di sangue rappreso vengano ricondotte a ciò che la mente persiste a rifiutare incredula.
Troppo facile. Troppo codardo. Chiunque troverebbe la forza di credere in altro, pur di negare che la realtà sia proprio quella. Memori della spada del biondo Hagen, eroi già condannati dal fato, in realtà non possiamo far altro, se non infliggere il colpo che smembri i legni marci della fuga e guardare negli occhi l’orrore. Non perché dotati di forze sovrumane, né tanto meno per infatuazione di un gesto romantico. Sulle rocce di Papua non c’è poesia, grazia o estetica che valga. Solo bruta necessità, crudo opportunismo cacciatore, la consapevolezza per cui distogliere lo sguardo non aiuterebbe a dimenticare, bensì ad alimentare velenosamente, giorno dopo giorno, l’inquietudine dell’irresoluto. Occorre fare come Ulisse: consegnarsi all’ineluttabile richiamo di sirene mortali, nella speranza che le corde della civiltà reggano e dell’impossibile ci si faccia prima o poi ragione.
A quel punto, forse, centinaia di mani rosse dipinte a pelo d’acqua non assomiglieranno più al disperato appello di memorie murate nel silenzio caduco, ma allo slancio creativo di aborigeni ostili solo alla morsa del tempo; sarà più facile credere ai giganti di Fak Fak e Kaimana, osservando pelvi abnormi, verosimilmente appartenute a creature preistoriche. Sulle sponde del lago Sentani si stagliano in fondo megaliti che giustificano i nostri lumi: poco importa se la loro forma richiami l’inafferrabile sfinge o alteri i profili d’animali estintisi da epoche remote, seguendo la vibrazione dell’onda che si propaga nel dubbio stagnante.
Se quella suona una spiegazione credibile, allora avremo rischiarato già un poco il cuore di tenebra papuano. Né dovremo indietreggiare qualora l’odore di grasso di maiale e di penne essiccate diventi tanto penetrante, da risvegliare nuovamente la nausea esistenziale. Quell’odore è tale solo perché lo hanno costretto fra pareti di cemento armato e vestiti di terza scelta; ricorda il corpo ammuffito di un certo Theys Elias, che in nome di una terra libera è finito sepolto dalla sua stessa terra, relegato in un campo le cui zolle rischiano d’essere risucchiate da un momento all’altro, per via di un aereo in partenza. Difficile, infatti, che qualcuno si trattenga fra rubicondi sputi di betel e polvere soffocante, che continui a camminare per strade oltre le quali si aprono solo fogne, che resista al canto sgangherato di karaoke i cui unici ospiti sono l’Aids e javanesi dalle mani di fata. Se lo fa, è solo perché sta meditando il modo migliore per far saltare in aria l’ennesimo convoglio militare, giunto a proteggere immigrati che non ritroveranno certo il sole sulle labbra coltivando riso a buon mercato, mentre gli intransigenti della patata dolce banchettano oltre le montagne con i resti di chi si è spinto troppo in là, seguendo i consigli di un burocrate di Jakarta che confonde uomini con oranghi. Le sue cartine contemplano poche strade cieche, prevedono il rilascio di permessi per camminare dove non esistono confini, ma oltre cui basterebbe solo l’umiltà di una semplice richiesta. Indicano villaggi di capanne da incendiare, selvaggi che vestono solo zucche sui propri genitali, oppure che ci arrotolano qualche foglia, ostili al taglio delle piante pronte a dar loro vita, irriducibili ad un credo piovuto dal cielo senza buona novella, che staccano dita di donne alla morte di un parente e divorano fegati di demoni dalla pelle bianca. Selvaggi, dunque. Animali che non meritano stima, ma solo la suola degli stivali in faccia, l’urina negli occhi, lo scherno delle reclute che trascinano corpi ribelli lungo scie di sangue, tenendoli legati ad un cingolato a stelle e strisce.
Verità inoppugnabile di un patto scellerato, che in nome dell’oro di Freeport sacrifica diritti civili e miti democratici sull’altare del dollaro.
Allora non resta davvero che riparare sulle rive del Baliem, chiudendo la porta in faccia al mondo, per gioire di una collana di ciprea che rischiara il nero dell’anima, per danzare attorno ai fuochi di mezzanotte, divenendo uomini attraverso il pugnale che sventra i maiali, per sfogare la frustrazione di frecce che non possono più penetrare, o la paura di concupire donne da cui sgorga sangue impuro. Ma non basta. Wamena è già caduta in mano al nemico. I propri costumi ridotti alla parodia da festival. Gli spiriti antenati scacciati dalle croci. Le mummie degli avi relegate ai covoni della paglia. Bisognerebbe ripiegare ancora più all’interno, rannicchiarsi in un cantuccio sicuro quanto il feto di una madre, scappare in cima ad alberi alti venti metri e vivere di sago, denti di coccodrillo e larve di scarafaggi. Gli scudi intarsiati degli Asmat non servono più. Le asce dei Korowai appaiono spuntante contro le motoseghe dei musi gialli. I tamburi dei Marind mettono in fuga solo le termiti che hanno innalzato pinnacoli di terra fra le foreste d’eucalipto, i petauri volanti o i dingisi maculati, ma nulla possono contro i parà lanciatisi su Merauke.
Si resiste, come e finché si può. Ma quando tutto sarà perduto, a Papua non resterà che adottare la tecnica del nano Oskar Matzerat: rifiutarsi di crescere per non rendersi complici di un mondo assurdo, battere sul tamburo ogni volta che qualcuno vorrà alzare la voce, urlare sino ad infrangere i diamanti, qualora si vorrà privare i suoi abitanti persino di questo diritto. Ma sul banco degli sconfitti non siederà alcun selvaggio. Solo un uomo folle, ormai incapace di comunicare col proprio simile, per sempre privato dell’inestimabile tesoro di poter tornare a guardare chi un tempo fu e cosa poi divenne. E che alla domanda che vale una vita, saprà rispondere semplicemente così: wa, wa, wa…