Inevitabilmente gli occhi cadono sempre lì. Senza falsi pudori. Senza malizia alcuna. Con un insistenza tale, che ti viene quasi il sospetto d’aver scordato di stringere la lampo, o d’aver forse indossato un paio di jeans sopravvissuti all’attillatissimo guardaroba di una rockstar anni ‘70. A Papua, un uomo senza koteka è come un armadillo senza corazza, sicché non c’è nulla di male nel farti capire che sarebbe cosa saggia intubare i tuoi genitali in una zucca cava, com’è costume fra le tribù Dani, o ancor meglio introfletterli con un vigoroso massaggio da ghiacciarti il sudore in fronte. Sottile astuzia dei guerrieri Korowai, che anziché correre in battaglia gravati da una sorta di proboscide fossile, spiazzano il nemico ostentando un guscetto di ghianda e nulla più. Ne vanno così fieri, che persino l’esercito indonesiano ha dovuto alzare bandiera bianca; fra i tanti scontri sostenuti con gli abitanti dell’isola, iniziati nel 1962 a seguito della “liberazione” dei poveri selvaggi dai bruti colonialisti olandesi (e mai conclusisi davvero), l’operasi koteka ha rappresentato una soglia spartiacque: più di 30 anni fa Jakarta emanò una direttiva che passò poi alla storia con slogan quanto mai bizzarri, del tipo “un paio di mutande per tutti!”.
La stampa ironizzava, ma intanto frecce avvelenate e lance affilatissime volavano su e giù per la Valle del Baliem: paradiso di un’umanità senza vergogna, scoperto solo nel 1938 e da quel momento in poi condannato alla “civilizzazione”, sotto l’egida dei fucili javanesi e del proselitismo missionario. Agli occhi del mondo l’Indonesia voleva mostrarsi ormai lanciata sulla via del progresso e del profitto, per quanto i metodi utilizzati somigliassero dannatamente a quelli della Compagnia delle Indie Orientali: inaccettabile che uomini nudi vivessero in capanne di paglia insieme ai maiali; intollerabile la mutilazione delle falangi alle donne di famiglia, dopo la morte di un parente maschio; insostenibile che si continuasse a coltivare patate dolci esattamente come nell’età della pietra, quando a scuola veniva insegnata una lingua, il bahasa, in grado di unificare gli scambi commerciali fra le quasi 18mila isole dell’arcipelago indonesiano. Tentarono di convincere i Dani con mutande di ruvido cotone e loro risposero facendo oscillare sbeffeggianti il loro koteka. Puntarono loro il grilletto alla tempia e si videro arrivare un’ascia nella schiena. Alla fine quel che la volontà non ha potuto, è riuscito invece alla tentazione: Wamena, il capoluogo della Valle del Baliem, è oggi una cittadina dove ancora si scorgono per le vie zucche “oscenamente” erette, benché le si veda circolare a cavallo di una motocicletta, o sedere davanti ad una soap opera dagli incantevoli visini balinesi. La notte si preferisce avvolgersi sotto le coperte, piuttosto che cospargersi di grasso di maiale, mentre vendere collanine di ciprea rende assai più che cacciare casuari imbolsiti.
Ma c’è chi non si è fatto abbagliare. Pochi chilometri fuori dalla città, le strade si perdono su monti impervi, ma dall’impossibile vegetazione equatoriale. I ponti d’acciaio tornano ad essere solo un intreccio di pali scricchiolanti e legati alla meno peggio. Il fragore cristallino di torrenti incontaminati riesce a coprire gli strepiti d’ambigui karaoke, dov’è facile scivolare dalle spire di una canzone melensa a quelle di un massaggio dal ritmo sensualmente ripetitivo. La natura mostra un volto così primitivo ed esuberante, che Wamena intera finisce per apparire la semplice caricatura di un mondo estraneo ed incomprensibile.
Nascosti dietro alte staccionate, gli abitanti delle vette continuano infatti ad estrarre sale battendo gambi di banano sino alla loro disidratazione, per poi immergerli in pozzi d’acqua mineralizzata. Capita di udire persino urla gorgheggianti levarsi d’improvviso attorno ai falò di mezzanotte, quando la cerimonia di smembramento di un cinghiale viene interrotta per armarsi d’arco, onde vendicare il furto di bestiame messo a segno dall’astuto vicino. Salvo accorgersi che queste faide estemporanee spesso non sono altro che lotte simulate, magari per sfogare gli ardori di uomini spaventati dalla potente magia dell’accoppiamento, o solo per tenersi in forma in attesa del festival che – ogni metà agosto – qui raccoglie tutte le tribù della zona: un’autocelebrazione degli antichi costumi, durante la quale ci si perde in danze forsennate, in sfide di cucito per realizzare borse di caurio poi legate alla testa, in virili corpo a corpo, necessari per iniziare il giovane all’implacabilità della vita e della caccia.
Papua è così. Offre barlumi appena di urbanità, concentrati sulla costa o in qualche sporadica radura dell’isola, per la quale ci si muove quasi esclusivamente a bordo di piccoli aerei. Al massimo di traghetti caracollanti, che dalla capitale Jayapura arrancano solo verso ovest, costeggiando le bianchissime spiagge di Biak, le affascinanti pitture rupestri di Fak Fak, per spingersi sino alle vaste pianure alluvionali della regione degli Asmat, dove defilate palafitte ospitano i più fini intagliatori del Pacifico, o a Merauke, in mezzo alle foreste allagate d’eucalipti. Estremo insediamento meridionale dove già si avverte aria d’Australia, osservando gli spericolati voli dei petauri, gli sbadigli omerici dei dingisi, o ancora l’infaticabile dedizione delle termiti, capaci di alzare nidi di cinque, sei metri, poi sfruttati dalle tribù Marind come comodi forni per cuocere la carne di canguro. Con il 75% del proprio territorio coperto da impenetrabili foreste, Papua preserva un ecosistema unico al mondo, i cui numeri danno il capogiro: 2.500 specie d’orchidee, 600 d’uccelli e 800 di ragni, per non parlare degli oltre 30mila tipi di coleotteri. Se tanto diversificato appare l’habitat naturale, non meno complesso è il mosaico delle tribù, che parlano almeno 250 dialetti e vivono per lo più isolate dal resto del mondo. Gli unici, sporadici contatti coltivati sono appunto quelli con alcune missioni protestanti o cattoliche, angustiate all’idea che dopo duemila anni dalla morte di Cristo qualcuno possa vivere ancora ignorandone il sacrificio.
Ma popolazioni come i Kombai o i Korowai hanno ben altro per la testa. Per loro il mondo finisce al di là dell’umidissima foresta in cui sono rimasti nascosti sino al 1979, benché nessuno abbia ancora un’idea precisa di quanti uomini abitino nelle khaim, le case che costruiscono in cima alle piante, ad oltre venti metri da terra. Pretendere da loro una risposta è impossibile, talvolta estremamente pericoloso. Chi padroneggia i numeri di solito è un khahkua, uno stregone dal cui malefico influsso ci si libera solo divorandone cuore, fegato e stomaco. Ancor peggio se a sollevare domande sui loro miti o i loro costumi sia un demone dalla pelle bianca, il cui solo contatto potrebbe rischiare di congelarli come ghiaccioli. Tutt’al più insegnano a lavorare le piante di sago, o a fumare in silenzio le loro pipe oblunghe e un po’ allucinogene. In fondo loro preferiscono starsene tutti soli lassù, lontani da occhi indiscreti e zanzare pedanti, vicini al mistero delle stelle, sordi al rumore delle motoseghe che – giorno dopo giorno – s’avvicinano sempre più, per cancellare gli incubi di un mondo dal quale l’uomo contemporaneo s’illude d’essersi affrancato. Almeno sino a quando il campo del suo telefonino non scompaia dal display, o le batterie delle torce si esauriscano inaspettatamente: sprofondato nel vischioso ed oscuro grembo della jungla, forse avrà modo di capire che salvare Papua, altro non significa che salvare se stessi. Uomini alla deriva in un mondo di silicone.
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